La fuga di nove giovani dal paese balcanico sottoposto al giogo socialcomunista, un’importante sentenza della Magistratura italiana e l’opera svolta dal Comitato per i Diritti Umani in Albania a sostegno dei profughi.
Nel quasi generale silenzio della stampa
«Boat people» dall’Albania
Intorno alle ore sei del 7 gennaio 1989 il peschereccio Dukati, di proprietà della Repubblica Popolare Socialista d’Albania, si incaglia su una secca a breve distanza dal porto di Brindisi e da esso scendono nove giovani di età compresa fra i venti e i trent’anni, tutti di nazionalità albanese.Raggiunto il molo a bordo di una scialuppa di salvataggio, appena a terra vengono presi in consegna dalla Polizia Marittima italiana e chiedono asilo politico al governo del nostro paese. La stessa polizia provvede a condurre a Brindisi gli altri sette membri dell’equipaggio, anch’essi albanesi, che non avevano inteso unirsi ai profughi e che erano rimasti sul peschereccio.
Il piano di fuga, programmato da circa tre mesi, era stato messo in opera nel primo pomeriggio del giorno precedente: il comandante dell’imbarcazione, Enver Meta, di trentun anni, aveva fatto salire a bordo e nascosti, con l’aiuto del marinaio Bardhyl Vogli, di ventidue anni, sette«clandestini» – Artan Serjanei, Ilir Dervish, Skender Vogli, Mustafa Meta, Agron Dervish, Quamil Nikshiqi, Arsen Shahini –, anch’essi quasi tutti marinai, ma di altri pescherecci, con i quali aveva preso precedentemente accordo, approfittando della confusione di mezzogiorno sul molo di Durazzo, mentre il Dukati era attraccato in porto.
Poco dopo salivano a bordo gli altri membri dell’equipaggio e, lasciata Durazzo, l’imbarcazione prendeva il largo. Intorno alle ore venti i sette marinai, ignari del piano di fuga e della presenza dei clandestini, andavano a dormire negli alloggi di prua e si svegliavano dopo un paio d’ore. Accortisi che i motori funzionavano a pieno regime e che il Dukati puntava verso il mare aperto a luci spente, tentavano di uscire dalla stiva, ma constatavano che lo sportello era stato chiuso a chiave. Da fuori Enver Meta intimava loro di tacere e di stare calmi.
Appena resa nota la notizia dell’approdo a Brindisi, il governo di Tirana provvedeva a inviare immediatamente nella città pugliese due suoi funzionari, Genci Gjoka e Musallari Mehmet, rispettivamente consigliere e primo segretario dell’ambasciata albanese a Roma: costoro hanno ottenuto dalle autorità di polizia la possibilità di svolgere la funzione di interpreti negli interrogatori resi dai sette marittimi che non avevano chiesto asilo, e così – rappresentando l’unico e incontrollabile tramite fra i sette e le autorità italiane – hanno potuto vigilare nel migliore dei modi affinché nessuno di loro cedesse eventualmente alla «tentazione» di unirsi ai fuggiaschi.
Lo scopo della presenza dei due funzionari albanesi era anche quello di precostituire prove contro i nove rifugiati attraverso la loro opera di interpreti: le dichiarazioni dei membri dell’equipaggio, così come sono state verbalizzate, parlano infatti di minacce e di violenze subite in mare, ma sono in aperto ed evidente contrasto l’una con l’altra.
Contemporaneamente il governo albanese fa sapere che i rifugiati sono «terroristi» e «trafficanti di droga» e ne chiede, pur in assenza di qualsiasi trattato italo-albanese di cooperazione giudiziaria, l’immediata riconsegna.
La mattina del 10 gennaio il Dukati ritorna in Albania con i sette componenti dell’equipaggio e sotto la guida di un nuovo comandante, appositamente e tempestivamente giunto da Durazzo.
Nel frattempo il sostituto procuratore della Repubblica di Brindisi, dottor Domenico Catenacci, ordina l’arresto del comandante Enver Meta e di Bardhyl Vogli con l’accusa di sequestro di persona e, dopo aver sentito in istruttoria i sette clandestini – in seguito condotti in un campo profughi –, dispone la citazione dei due per il giudizio direttissimo.
Il dibattimento si celebra il 20 gennaio 1989 davanti alla Seconda Sezione Penale del Tribunale brindisino, presidente il dottor Dario Pafundi, giudici a latere il dottor Gaetano Bonfrate e il dottor Vincenzo Farina. Nel corso del processo ci si poteva chiedere se, sul banco degli imputati, sedessero i due marittimi di Durazzo o non piuttosto il regime socialcomunista di Tirana: infatti, dalle dichiarazioni dei due imputati e dalla lettura di quelle rese dagli altri rifugiati è emerso uno spaccato della vita quotidiana in un paese che dista poche decine di miglia dalla costa italiana.
Enver Meta, che percepiva un salario mensiledi 1.000 lek, pari a 260.000 lire, viveva in un appartamento di due stanze con servizio di proprietà dello Stato, per il quale pagava un canone mensile equivalente a 100.000 lire, e in esso abitava con diciassette persone fra genitori, fratelli, cognati e nipoti. Bardhyl Vogli, pur lavorando – come tutti in Albania – alle dipendenze dello Stato, riceveva il salario da marinaio solo quando la pesca era fruttuosa, dovendo altrimenti dividere, con gli altri cinque componenti della famiglia, la pensione mensile del padre, pari a 120.000 lire.
Tutti i profughi erano consapevoli che, se catturati durante la fuga o eventualmente riconsegnati al governo albanese, sarebbero stati messi a morte: infatti il paragrafo II dell’articolo 47 del codice penale albanese considera la «fuga dallo Stato» come «tradimento» e per tale reato commina una pena che va da un minimo di dieci anni di reclusione fino alla morte. Tutti si sono mostrati ugualmente preoccupati per la sorte dei familiari rimasti nel loro paese, che – a loro parere – saranno già stati rinchiusi in campi di internamento. Tutti hanno motivato la fuga con ragioni sia economiche, sia politiche, lamentando la totale assenza di libertà e la pesante sorveglianza cui ogni albanese è sottoposto.
Qualcuno ha attribuito la riuscita della fuga all’aiuto divino. Bardhyl Vogli, in particolare, ha detto di essere musulmano, ma di ammirare molto la Chiesa di Roma e il Papa, aggiungendo che questi è temuto dal governo di Tirana.
Il pubblico ministero d’udienza, dottor Domenico Catenacci, pur chiedendo la condanna dei due imputati, non ha trascurato di ampliare, dal punto di vista giuridico, il quadro della situazione albanese, traendo spunto, fra l’altro, dal rapporto elaborato in proposito da Amnesty lntemational nel 1984. Il Tribunale, al termine di una breve camera di consiglio, ha accolto integralmente la tesi principale esposta dai difensori, gli avvocati Vito Epifani e Fedele De Cristofaro, del Foro di Lecce, e Vito Malpignano, del Foro di Brindisi, e ha assolto i due marittimi albanesi dal reato di sequestro di persona, ritenendoli non punibili, a norma dell’articolo 54 del codice penale, per aver commesso il fatto in stato di necessità.
La sentenza è di notevole importanza, in quanto per la prima volta un documento pubblico della Repubblica Italiana stabilisce che la fuga dall’Albania, cioè da un paese sottoposto a regime socialcomunista, costituisce un comportamento cui si è costretti, come recita il citato articolo 54 del codice penale, «dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un grave danno alla persona», e che la necessità è di tale portata da giustificare anche una condotta di per sé illecita come un sequestro di persona. Dunque, se è lecito lasciare l’Albania con qualsiasi mezzo, con ciò si afferma implicitamente che il popolo albanese si trova oggi in un enorme GULag. Il processo di Brindisi è importante anche perché ha dimostrato che il governo di Tirana, tempestivamente intervenuto nella vicenda, è stato in grado di diffondere solamente falsità e calunnie, dal momento che, dopo aver accusato i nove profughi di terrorismo, di traffico di droga e di aver realizzato la fuga sequestrando i marinai del Dukati a mano armata, non ha poi fornito nessuna prova di quanto asserito, e nulla di più preciso è emerso nel corso del giudizio.
Nella circostanza il Comitato per i Diritti Umani in Albania (1) si è prodigato fornendo ai fuggiaschi vestiario e beni di prima necessità nonché assistenza legale, fin da subito sollecitando il governo italiano alla pronta concessione dell’asilo politico (2); il 10 gennaio gli onn. Adriana Poli Bottone, Mirko Tremaglia e Alfredo Pazzaglia hanno rivolto al ministro degli Esteri, on. Giulio Andreotti, un’interpellanza con la stessa richiesta, la cui fondatezza è stata confermata dalla sentenza del Tribunale di Brindisi, che ne ha autorevolmente riconosciuto l’urgenza.
E certo non meno urgenti sono preghiere di ringraziamento e di impetrazione alla Beata Vergine Maria, Mater Boni Consilii e Signora degli Albanesi – la cui immagine giunse miracolosamente da Scutari, in Albania, a Genazzano, in provincia di Roma e in diocesi di Palestrina, il 25 aprile 1467, quando il paese fu invaso dai turchi –, affinché affretti la liberazione della nobile nazione balcanica dal giogo socialcomunista.
Note:
(1) Il Comitato per i Diritti Umani in Albania è sorto nel 1986 a Lecce, per iniziativa di militanti di Alleanza Cattolica e grazie anche all’incoraggiamento di S. E. Michele Mincuzzi, allora Arcivescovo metropolita del capoluogo salentino.
Sull’attività svolta dal Comitato cfr. Convegno Internazionale per i diritti umani in Albania, in Cristianità, anno XVII, n. 165, gennaio 1989.
(2) Nel corso di interviste rilasciate a Teleleccebarbano e a RAI3 Regione, Rodolfo Russo e Roberto Cavallo, a nome del Comitato per i Diritti Umani in Albania, hanno sollecitato l’immediata concessione dell’asilo politico sia ai nove profughi sbarcati a Brindisi, sia ai sei fratelli Popa, dal 12 dicembre 1985 rifugiati presso l’ambasciata italiana a Tirana. A proposito di questi ultimi, cfr. Petizione per la concessione dell’asilo politico ai sei fratelli albanesi Popa, ibid., anno XVI, n. 161, settembre 1988.