Francesco Pappalardo, Cristianità n. 117 (1985)
Un doloroso periodo della storia della nazione italiana, ricco di non pochi eroismi, viene censurato o deformato da ormai più di un secolo. Una mostra ha offerto la occasione per rimeditare – o cominciare a meditare – su di esso, per meglio comprendere il passato e, quindi, per meglio operare nel presente e nel futuro.
In margine a una mostra napoletana
«Brigantaggio lealismo repressione nel Mezzogiorno. 1860-1870»
«A Napoli noi abbiamo altresì cacciato il sovrano per stabilire un governo fondato sul consenso universale. Ma ci vogliono, e sembra che ciò non basti, per contenere il regno sessanta battaglioni; ed è notorio che, briganti o non briganti, nessuno vuole saperne di noi» (1).
Queste parole di Massimo d’Azeglio esprimono bene la sorpresa della classe dirigente «unitaria» di fronte alla imprevista ed energica resistenza dei «napolitani» contro la forzata annessione al regno d’Italia.
Non a caso i politici e le gerarchie militari si affrettarono a definire spregiativamente «brigantaggio» quel vasto fenomeno di insorgenza, che rappresentò uno degli ultimi tentativi – nella penisola italiana – di combattere la Rivoluzione con le armi.
La storiografia ufficiale, dal canto suo, ha trascurato volutamente quegli avvenimenti, sicché alla «fase del silenzio patriottico o della rimozione che dura fino alla caduta del fascismo» ha fatto seguito un’analoga «fase di silenzio, dovuto alle necessità della costruzione di una nuova Italia repubblicana» (2).
Soltanto ora che l’edificio unitario sembra completato può concedersi «che un giudizio storico superiore e la pietas dell’umanità civile e delle memorie napoletane riconoscano le ragioni e le pene di tutti i contendenti» (3).
Rientra in questa ottica la mostra su Brigantaggio lealismo repressione nel Mezzogiorno. 1860-1870, organizzata a Napoli, presso i locali del Museo Pignatelli, dal 30 giugno al 18 novembre 1984.
Il legittimismo armato
Il materiale esposto in occasione della mostra ha offerto all’attento visitatore la possibilità, di cogliere quello che fu l’elemento unificante della «reazione», cioè lo spiccato indirizzo legittimistico che essa assunse fino dall’inizio.
Le modalità della resistenza – la guerriglia capace di unire aristocratici e popolo – sono tali, del resto, da richiamare alla mente la epopea vandeana.
Questa continuità contro-rivoluzionaria non è affatto simbolica, ove si consideri che a capeggiare gli insorgenti «il fior fiore della nobiltà lealistica europea discese dalle brume dei propri castelli nel fuoco di una lotta senza quartiere “per il trono e l’altare”, “per la fede e la gloria”» (4).
A suggello di quell’alleanza, il 21 gennaio 1861, anniversario della morte di Luigi XVI, nella fortezza assediata di Gaeta legittimisti italiani e francesi pregano insieme affinché Dio applichi alla causa di Francesco II i frutti del sangue del re decapitato (5).
Nasce in tale modo un’armata sovranazionale, nelle cui file militano francesi e belgi, austriaci e bavaresi, sassoni e irlandesi, oltre a numerosissimi carlisti spagnoli, il cui impegno diventa presto maggioritario (6).
Nei padiglioni della mostra sono tornate a vivere le nobili figure del conte Henri de Cathelineau – discendente di uno dei più valorosi condottieri della guerra di Vandea -, del barone Klitsche de La Grange, del marchese de Namour, dei conti de Christen e di Kalckreuth, e soprattutto dei catalani José Borges, che fu definito «l’anti-Garibaldi», e Rafael Tristany, artefici di memorabili imprese, tali da fare a lungo sperare in una conclusione vittoriosa della insurrezione.
Accanto a costoro meritano di essere ricordati i molti capi di bande locali, che seppero affermarsi grazie al coraggio personale, a una spiccata attitudine al comando oppure a precedenti esperienze belliche: dallo studente Giuseppe Tardio, «comandante dell’armata borbonica» nel Cilento, all’irrequieto Luigi Alonzi, detto «Chiavone», che operava nel Sorano; dal sergente Romano, nelle Puglie, a Carmine Donatelli, soprannominato «Crocco», che insieme a «Ninco-Nanco» raccolse in Lucania circa tremila uomini, inquadrati militarmente da ufficiali e da sottufficiali del disciolto esercito borbonico (7).
A sostegno di questi armati intervennero anche i migliori pubblicisti del regno di Napoli, per difendere con lo scritto i calpestati diritti di una monarchia, che era stata da sempre riconosciuta dal consesso delle nazioni e benedetta dalla suprema autorità spirituale. Dagli archivi e dalle biblioteche sono riemersi i nomi e le opere di Francesco Proto, duca di Maddaloni, del marchese Pietro Calà Ulloa, di Tommaso Cava de Cueva e di numerosi altri (8), primo fra i quali Giacinto De Sivo, il più lucido fra loro, che metteva in luce le difficoltà derivanti da una resistenza spontanea ma non autonoma – perché quasi ovunque priva della guida di una classe dirigente valida e ben determinata – e dal cinico disimpegno delle potenze europee.
«Non ci fu un cardinale Ruffo», era scritto su uno dei pannelli della mostra, a confermare la determinante assenza di elementi locali dotati della tempra e dell’acume politico di colui che fu artefice, nel 1799, della vittoria della Santa Fede.
La repressione organizzata
La fucilazione di Borges prima e l’arresto di Tristany poi, insieme con le menzionate difficoltà, causano nell’estate del 1863 una caduta dell’impegno politico, il quale, pure non spegnendosi, non raggiunse più i livelli iniziali.
La guerriglia, tuttavia, prosegue in vaste zone del reame, segno visibile della diffusa e persistente ostilità popolare nei confronti della Rivoluzione.
Nell’agosto di quell’anno, il parlamento approva la legge Pica, che istituzionalizza la repressione.
Con il sistema generalizzato degli arresti in massa e delle esecuzioni sommarie, con la distruzione di casolari e di masserie, con il divieto di portare viveri e bestiame fuori dai paesi, con la persecuzione indiscriminata dei civili (9), si vuole colpire «nel mucchio», per disgregare col terrore una resistenza che riannodava continuamente le fila.
Particolari cure furono dedicate alla guerra psicologica, condotta su larga scala mediante bandi, proclami e, soprattutto, servizi giornalistici e fotografici.
Le immagini dei combattenti – raffigurati in atteggiamento truce e con una fisionomia «inselvatichita», o miseramente allineati per terra, nudi e crivellati di pallottole – erano utilizzate come forza deterrente contro la popolazione o per segnalare in maniera apologetica la vittoria degli «unitari». Esposte in grande numero nei padiglioni della mostra, rappresentano oggi i primi esempi di una moderna «informazione deformante» (10).
Tutt’altra storia ci raccontano, invece, i canti, le tradizioni orali e le arti figurative del mondo contadino, che concordano nell’attribuire alla «reazione» il carattere di una lotta giusta, tanto che ancora oggi le gesta di quei valorosi figurano nell’albo d’oro delle memorie locali.
Ma la incomprensione e la negazione di questa cultura furono totali, e ciò valse in particolare per la componente religiosa, che ne rappresentava l’anima.
L’elemento religioso è generalmente presente nelle raffigurazioni d’epoca, così come sui vessilli e sulle insegne di battaglia. Frati e sacerdoti abbondavano nelle schiere degli insorgenti e venivano passati per le armi in caso di cattura.
I vescovi – benché talvolta scacciati dalle loro sedi – sostenevano efficacemente la insurrezione, stampando pastorali di tono antiunitario e adeguandosi alle proteste e alle scomuniche provenienti da Roma.
L’autorevole Civiltà Cattolica non cessò mai di esprimere il suo appoggio a quello che era ritenuto uno spontaneo movimento di resistenza di massa, a carattere legittimistico, contro le usurpazioni dello Stato liberale.
Un esempio da non dimenticare
Nonostante la sanguinosa repressione, la lotta armata mostra una generale recrudescenza tra il 1866 e il 1868; in numerose province conserva ancora più a lungo la virulenza dei primi anni.
Tuttavia, la estinzione del focolaio lucano – che disarticola i collegamenti della guerriglia -, la falcidie dei capi locali e l’affievolirsi della speranza in una soluzione favorevole, determinano una stanchezza generale.
Quando le bellicose energie sono esaurite, la secessione si manifesta più pacificamente, ma non meno drammaticamente, nella grandiosa emigrazione transoceanica della nazione «napoletana».
Da quanto «non è più [stato] possibile combattere la Rivoluzione con le armi» la lotta «si […] [è fatta] politica e sociale, e battaglia di idee» (11): perciò offro queste considerazioni a chiunque, amante della verità e della giustizia, voglia conoscere il nostro passato, per comprendere meglio il male presente e operare per la costruzione di una società a misura di uomo e secondo il piano di Dio.
Francesco Pappalardo
Note:
(1) Citato in ALFONSO SCIROCCO, Il brigantaggio e l’Unità d’Italia, in Brigantaggio lealismo repressione nel Mezzogiorno. 1860-1870, Macchiaroli, Napoli 1984, p. 17.
(2) SERGIO RICCIO, L’opinione pubblica, ibid., p. 73.
(3) GIUSEPPE GALASSO, Premessa, ibid., p. 14.
(4) Il testo completo del pannello è nel citato catalogo, p. 127.
(5) L’episodio è narrato in CHARLES GARNIER, Giornale dell’assedio di Gaeta, trad. it., Regina, Napoli 1971, p. 80.
(6) Sulla partecipazione dei volontari spagnoli, cfr. ALDO ALBONICO, La mobilitazione legittimista contro il Regno d’Italia: la Spagna e il brigantaggio meridionale postunitario, Giuffré, Milano 1979.
(7) Gli eventi militari in Basilicata sono considerati particolarmente indicativi, perché in essi «si manifestò nettamente la coloritura politica filo-borbonica» della resistenza così il pannello riportato in Brigantaggio lealismo repressione nel Mezzogiorno. 1860-1870, cit., p. 135.
(8) Originale fu l’apporto del francese Le Belley, che poneva l’accento sull’utilizzo politico, da parte degli unitari, della camorra, braccio armato della sovversione cittadina, contro il sano tradizionalismo del mondo contadino: cfr. il pannello corrispondente, ibid., p. 178.
(9) In modo più calcolato si colpirono i «manutengoli», cioè i fiancheggiatori, i quali – contro una diffusa interpretazione classistica – «esistevano non solo tra le masse contadine», ma «se ne annoverano anche tra le famiglie di proprietari terrieri che, fedeli al vecchio regime borbonico, alimentavano clandestinamente il brigantaggio locale» (ibid., p. 208).
(10) Gli insorgenti, «nell’impianto della ripresa – spesso manipolata o costruita ad arte – vengono rappresentati come il male da sconfiggere, una piaga sociale da eliminare» (UGO DI PACE, La fotografia, ibid., p. 53).
(11) GIOVANNI CANTONI, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, saggio introduttivo a PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3ª ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza, 1977, p. 16.