Laura Boccenti, Cristianità n. 414 (2022)
Testo, rivisto e annotato, dell’intervento svolto al convegno su Cancel culture. Dalla «battaglia delle idee» alla «guerra culturale», organizzato da Alleanza Cattolica il 19 marzo 2022 nella Sala del Minor Consiglio del Palazzo Ducale di Genova.
1. Lo scenario
Nel mondo occidentale si sta diffondendo sempre più un clima di «non libertà», in cui le persone non hanno più il coraggio di esprimere serenamente la loro opinione.
Su alcune questioni-chiave — come il genere, il clima, le minoranze — vi è un’enorme pressione perché ci si muova all’interno di un’ortodossia prefissata, seguendo un’idea di uomo e di giustizia che contraddice in modo radicale la visione ereditata dall’umanesimo occidentale e cristiano.
Avverto subito che qui con il termine «umanesimo» non mi riferisco al movimento sviluppatosi in Europa negli ultimi decenni del secolo XIV. Parlo di «umanesimo» nel suo senso più ampio, volendo indicare, cioè, l’insieme delle acquisizioni filosofiche, giuridiche, artistiche e religiose che, a partire dall’antichità, hanno fondato e sviluppato la consapevolezza culturale dell’Occidente sul valore e sulla dignità dell’uomo.
La cultura occidentale ha trasmesso fino ai giorni nostri la consapevolezza che la giustizia consiste nel dare a ciascuno il suo, riconoscendo a ogni uomo ciò che gli spetta in quanto persona, in quanto portatore di diritti universali, fondati sulla comune natura umana, oltre a quanto gli spetta all’interno delle relazioni costitutive della sua esistenza: per il fatto di essere genitore, figlio, lavoratore, e così via.
L’ideologia woke (dell’essere «svegli», «consapevoli»), o del «politicamente corretto», ha sostituito a questa visione un’idea differente di uomo e di giustizia: per essa i diritti dell’uomo non sono più universali e dipendono non dal fatto di essere una persona, ma dall’appartenenza a un gruppo discriminato.
Il «wokismo» non si presenta con una visione del mondo esplicita e organica, come, per esempio, il materialismo storico e dialettico nell’ideologia comunista. Gli aspetti che lo caratterizzano sono più negativi che propositivi: eliminazione della nozione universale di uomo, relativismo culturale, uso del linguaggio come strumento di potere, pregiudizio di colpevolezza e denuncia della propria civiltà, accusata di aver discriminato le altre culture in nome di una presunta superiorità.
Per queste ragioni la cancel culture, metastasi del «wokismo», è molto più appariscente del suo antecedente, in quanto si attua nella pratica di imbrattare monumenti o di estromettere dalle relazioni reali, sociali e professionali, o anche solo da quelle dei social media, chiunque sostenga tesi giudicate «politicamente scorrette».
Il grande pericolo che questa cultura porta con sé, oltre all’esercizio generalizzato e indiscriminato dell’intolleranza, è di staccare la nostra società dalla sua eredità culturale, provocando, come spiega il sociologo inglese Frank Furedi, peraltro di formazione marxista, una catastrofe antropologica e sociale. Egli afferma, infatti: «Questo non è un problema da poco per la semplice ragione che la continuità culturale è essenziale per illuminare la difficile situazione umana. […] L’emergere stesso del concetto di “crisi d’identità” che porta a un’ossessione per l’identità e la sua politicizzazione è intimamente legato al disfacimento della continuità culturale» (1).
2. Una premessa: qual è il senso e il valore della cultura?
Visto che la posta in gioco dello scontro in atto riguarda la cultura, prima di considerare i fattori del suo sviluppo e di questo oggettivo declino in Occidente è opportuno chiarirne la nozione stessa, domandandoci in che cosa consista e quale sia il valore della cultura per l’uomo.
2.1 Di che cosa parliamo quando pronunciamo la parola «cultura»?
Un primo elemento di chiarificazione si può ritrovare nello scrittore statunitense-britannico Thomas Stearns Eliot (1888-1965), quando richiama l’attenzione sul fatto che al termine «cultura» si connettono differenti idee, a seconda che ci si riferisca allo sviluppo di un individuo, di un gruppo o della società intera (2).
Applicato al singolo, il termine indica il risultato della coltivazione e della formazione delle sue qualità intellettuali, morali ed estetiche; attribuito a un gruppo significa un’appartenenza ideale comune, come nel caso di una visione politica o economica: quando si considera una società intera la parola indica «l’insieme dei principi e dei valori che costituiscono l’ethos di un popolo» (3).
La cancel culture riguarda tutti questi livelli, con le rispettive ricadute legate alla trasmissione del sapere nella scuola e nell’università, fino alla visione tribale delle diversità sociali e al disprezzo, se non all’odio vero e proprio, per l’ethos proprio della tradizione culturale dell’Occidente (4).
Il secondo elemento di riflessione emerge dall’etimologia del termine «cultura», che deriva dal verbo latito colĕre, il cui significato principale è «coltivare». Dalla radice verbale di colĕre derivano tre parole: culto, coltura e cultura.
Ciascuna di esse indica un particolare agire dell’uomo, e quindi una relazione specifica che l’uomo instaura con la realtà: il culto indica la relazione con Dio, e ha come contenuto il carattere di una determinata religione; la coltura indica la lavorazione della terra e, più in generale, la trasformazione del mondo a opera dell’uomo; la cultura descrive l’azione dell’uomo verso gli altri uomini, a partire della comprensione che l’uomo ha di sé, del proprio principio e del proprio fine, cosicché in ogni produzione artistica, filosofica, politica, sociale l’uomo incorpora le dimensioni del culto e della coltura. Perciò, le risposte che l’uomo dà intorno al senso della sua esistenza e del suo rapporto con Dio sono decisive per la nascita dell’ethos di un popolo.
2.2 Il valore della cultura
Fra tutti gli esseri viventi l’uomo si distingue perché ha bisogno dell’altro per realizzare la propria natura. Gli animali possiedono già dalla nascita, senza la necessità di mediazioni, le capacità che caratterizzano la loro specie. Essi non le ricevono attraverso un apprendimento mediato dai loro simili; anche nel caso delle specie animali superiori, la necessità e gli effetti dell’apprendimento sono limitati e non riguardano in nessun caso lo sviluppo delle facoltà essenziali per l’attuazione della loro natura.
Le capacità dell’uomo, invece, hanno bisogno di essere sviluppate attraverso un apprendimento per il quale è indispensabile la presenza di un altro, altrimenti le facoltà ricevute alla nascita rimangono semplici potenzialità. Per questo il primo dei bisogni dell’uomo è la cultura, cioè la coltivazione o educazione delle sue facoltà, per rendere effettive le loro potenzialità. La cultura non è un lusso riservato a un’élite, ma una necessità fondamentale di ognuno.
La trasmissione della cultura, a partire dal linguaggio, ha dunque una portata essenziale: attraverso le conoscenze acquisite — potremmo dire il «bagaglio culturale» — essa fa crescere lo stesso essere della persona. Le conoscenze che abitano la mente e i comportamenti appresi nella relazione fanno eco alle situazioni che viviamo, rendendole vicine e significative per la nostra vita interiore.
3. Tre punti
3.1 Fisionomia dell’umanesimo occidentale (o l’uomo «da eliminare»)
La cancel culture non vuole riscrivere una qualsiasi cultura, ma è rivolta contro la cultura occidentale e, in particolare, contro l’umanesimo che ne costituisce il fondamento.
In un’occasione lo scrittore, poeta e filosofo francese Paul Valery (1871-1945), a chi gli chiedeva «Che cos’è la cultura occidentale?», rispose con tre parole: «Atene, Roma e Gerusalemme» (5), per significare che la cultura occidentale ha avuto origine dal confluire di tre grandi tradizioni, quella greca, quella romana e quella ebraico-cristiana.
Ciascuna di esse ha contribuito con il proprio apporto specifico alla formazione della visione occidentale dell’uomo.
Il contributo di Atene
Nella Grecia antica s’imparava a conoscere la propria identità di esseri umani e di popolo in compagnia dell’eroe omerico Ulisse, un uomo che aveva vinto le malìe di Circe, che aveva sconfitto con l’intelligenza la forza bruta del gigante Polifemo e aveva attraversato e superato tante prove grazie alla memoria della sua identità e alla fedeltà all’amore della sposa Penelope.
Ulisse è una premessa, forse la più importante, dell’umanesimo sviluppato in seguito dalla filosofia greca con il grande messaggio dell’antropologia e dell’etica socratica: la ragione può conoscere la natura dell’uomo, che coincide con la sua personalità intellettuale e morale.
A partire da questa idea si affermerà in Occidente una nuova tavola dei valori: i valori veri non sono quelli legati alle cose esteriori, come la ricchezza o il potere, e nemmeno quelli legati al corpo, come la salute, la forza o la bellezza, ma sono i valori dell’anima, la cui natura è comune a tutti gli uomini. Il messaggio di Socrate (470/469-399 a.C.), ripreso prima da Platone (428/427-348/347 a.C.) e poi da Aristotele (384/383-322 a.C.), fonda la tradizione umanistica della Grecia classica.
Il sapere filosofico, con la sua domanda sulla verità e la ricerca dell’universale, si afferma come sapere razionale e critico sul cui fondamento tutte le scienze potranno crescere.
Inoltre, nella misura in cui si propone di educare l’uomo al vero, al bello e al bene, esso dimostra di essere capace di formare uomini liberi nel pensiero e indipendenti dalla ricerca dell’utile immediato.
Il contributo di Roma
Roma è una città nata da agricoltori e guerrieri con una cultura fondata sull’onestà civile e l’eroismo, ma già a partire dal II secolo a.C., con il circolo degli Scipioni, si apre alla cultura greca affiancando i valori dell’humanitas alle virtù tradizionali romane.
Dopo l’incontro con la Grecia, le leggi, nate dall’esperienza e con finalità pratiche, diventano una scienza giuridica attraverso la fondazione filosofica del diritto. I romani lasciano così all’Occidente la teoria del diritto naturale (6), che sarà ripreso e approfondito nel cosiddetto Medioevo.
Il contributo di Gerusalemme
L’Antico Testamento fin dal I capitolo di Genesi proclama la dignità dell’uomo, fondata sul suo essere immagine e somiglianza di Dio (7), e la ribadisce lungo tutto il testo rivelato (8).
Il cristianesimo porterà a compimento i contenuti dell’umanesimo ebraico e, unendoli a quelli delle tradizioni greca e romana, conferirà loro una spinta universale, fondata sull’affermazione dell’eguale dignità di tutte le persone umane (9).
L’umanesimo giudeo-cristiano-greco-romano si affermerà nella storia dell’Europa attraverso un percorso lungo e complesso, in cui avrà un peso importante anche l’incontro con la componente celtica e germanica con la sua «concezione individualistica e aristocratica della libertà […] accoppiata con l’idea della limitazione del potere sovrano». Il risultato dell’integrazione dei vari fattori coinvolti sarà «la ricostruzione graduale dell’ordine politico e giuridico su un fondamento pluralistico, fiduciario, corporativo» (10), di cui è espressione emblematica la Magna Charta libertatum, emanata nel 1215 da re Giovanni d’Inghilterra (1166-1216) e poi diventata simbolo dello Stato di diritto.
Sulle basi di questo umanesimo e in questo contesto storico si svilupperà la cultura del costituzionalismo, fondata sull’idea che qualsiasi potere arbitrario e senza limiti è contrario alla natura umana e alla legge divina (11), e crescerà un tessuto di consuetudini e istituzioni che ha continuato a resistere, seppure lacerato, fino all’inizio del secolo scorso.
3.2 Il relativismo culturale come esito dell’anti-umanesimo occidentale
In questo articolato tessuto, a partire dall’Età Moderna, si sviluppano istanze critiche verso l’umanesimo cristiano sotteso alla cultura europea, che spingono verso la separazione di fede e ragione e avviano il processo di secolarizzazione della vita privata e pubblica (12).
Si pensa di solito che la società europea sia stata colpita da una crisi delle istituzioni incaricate di trasmettere una cultura comune, come se si trattasse di un fenomeno esterno alla cultura stessa, dovuto agli sconvolgimenti politici o economici o al progresso scientifico e tecnologico.
Certamente questi fattori hanno contribuito e contribuiscono alla crisi dell’umanesimo occidentale, ma la dissoluzione della nostra cultura è nata dal suo interno stesso ed è il risultato di una critica esplicita ai suoi presupposti fondanti, critica che poi si è tradotta nella crisi della sua trasmissione.
Non sono bastati pochi colpi di piccone per abbattere questo organismo; al contrario, si è trattato di un processo stratificato, progredito contestualmente allo sviluppo della civiltà, che ha attaccato i pilastri su cui la società cristiana occidentale si è edificata: la religione cattolica, il diritto romano e la filosofia greca.
François-Xavier Bellamy, di formazione filosofo, docente, scrittore e politico, riflettendo sulla critica alla tradizione occidentale mette in luce il ruolo essenziale assunto in questo processo dal pensiero di Cartesio (1596-1650) e di Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), nonché il valore esemplificativo del pensiero di Pierre Bourdieu (1930-2002) nella rivoluzione culturale del 1968 (13).
Il rovesciamento di prospettiva operato da Cartesio avviene nel pieno della «rivoluzione scientifica» del secolo XVII.
Dal 1604 al 1613, Cartesio viene educato nel prestigioso collegio dei gesuiti di La Flèche, ma l’esperienza lo lascia profondamente insoddisfatto, dato che nessuna disciplina appresa a scuola gli sembra possedere la chiarezza di metodo e la certezza di fondamenti che egli cerca come requisiti necessari per una vera conoscenza (14).
Alla diversità di opinioni lette nei libri egli aggiunge l’esperienza della diversità di costumi, osservata nel corso dei viaggi intrapresi, che confermano il suo scetticismo verso le conoscenze ricevute. Nel 1619, a ventitré anni, elabora la sua più grande intuizione: lo sviluppo di un nuovo metodo per riformare radicalmente i fondamenti del sapere. Esso consiste nel rifiutare come false tutte le conoscenze acquisite, ovvero tutta la tradizione passata su cui sia possibile esercitare anche il minimo dubbio: ciò che sopravvivrà sarà il fondamento certo e solido su cui costruire il nuovo sapere.
L’unica evidenza che sopravvive a questa cernita sarà il «cogito ergo sum», cioè l’attività pensante stessa del soggetto. Sulla base di questa evidenza, soggettiva e individuale, Cartesio si propone di riformare tutto il sapere, dopo aver distrutto l’intero edificio ereditato dalla tradizione.
Con Cartesio s’inaugura l’era della tabula rasa, in cui la scuola ideale dovrebbe in primo luogo decostruire il sapere trasmesso dai padri come garanzia di libertà nella ricerca della verità.
Il problema è che in questa ricerca della certezza assoluta Cartesio non distrugge solo la sua «casa», ma anche il fondamento teorico e l’autorevolezza della tradizione su cui si fonda la «casa di tutti», cioè la civiltà europea, e, come osserva Bellamy, «le res novae nel campo della conoscenza, ossia la rivoluzione teorica, precedono la rivoluzione politica» (15).
Jean-Jacques Rousseau (1712- 1778)
Il momento decisivo del percorso intellettuale di Rousseau è la partecipazione a un concorso della prestigiosa Accademia di Digione, in cui si doveva trattare il quesito: «Se il progresso delle scienze e delle arti abbia contribuito a migliorare i costumi». Rousseau vince con il Discorso sulla scienza e sulle arti (1750), in cui sostiene che lo sviluppo delle scienze e delle arti non abbia affatto migliorato l’umanità, ma l’abbia addirittura allontanata dalla semplicità della sua condizione originaria. Le scienze e le arti hanno steso «ghirlande di fiori» sulle «catene» (16) che imprigionano gli uomini, sostituendo comportamenti artificiali ai comportamenti naturali; esse sarebbero nate dai vizi — l’astronomia dalla superstizione, la geometria dall’avarizia, l’eloquenza dall’ambizione e così via —, avrebbero favorito la diseguaglianza sociale e reso l’uomo più cattivo e infelice.
Cinque anni dopo il primo Discorso, Rousseau risponde a una nuova domanda dello stesso concorso e sviluppa i contenuti del primo saggio con il Discorso sulle origini e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini, in cui delinea la figura dell’uomo nello stato di natura, il cosiddetto «buon selvaggio», ancora indenne della malattia della cultura: mentre l’uomo del sapere e della cultura è nemico della natura, è insoddisfatto, corrotto e distruttivo nel suo agire, l’uomo dello stato di natura vive con sobrietà, nell’armonia e nell’ordine.
Nella radicale contrapposizione fra natura e cultura, che emerge dal primo Discorso, e nell’idea irenica della natura delineata dal secondo Discorso, si può già riconoscere la visione del mondo che ha ispirato una certa narrazione ecologica, penetrata nella coscienza collettiva del nostro tempo, secondo cui la responsabilità di tutti i mali che affliggono il mondo sarebbe da attribuire alla cultura occidentale, di cui dovremmo spogliarci per ritrovare il senso della natura.
I due discorsi, inoltre, sono la premessa ideale del trattato pedagogico l’Emilio o dell’educazione, che propone il rifiuto assoluto della trasmissione delle conoscenze come vero e proprio programma d’azione.
Per Rousseau l’ignoranza del neonato è una condizione di purezza da preservare contro il pensiero, considerato una forma di perversione che rende l’uomo un animale degenerato. In particolare, bisogna diffidare delle parole che, dando un nome alle cose, esercitano l’influenza della cultura sulla mente del fanciullo: «Riducete quanto più potete il vocabolario del bambino» (17).
In generale la relazione educativa dovrebbe sottrarsi alla dimensione intersoggettiva della cultura, che, esponendo la mente dei bambini alla conoscenza di significati consegnati dalla tradizione, metterebbe in pericolo la loro libertà. L’educatore dovrebbe astenersi dal trasmettere le proprie conoscenze, ma organizzare le situazioni in cui il giovane costruirà autonomamente il proprio sapere, come risposta a una domanda provocata dalle necessità del vivere quotidiano.
La pedagogia dell’Emilio elimina, perciò, l’autorità dell’educatore e contestualmente prepara la politica del Contratto sociale, in cui il cittadino deve essere disposto a sbarazzarsi di tutti i gioghi, a partire, appunto, da quello del sapere.
Ecco la descrizione del «profilo in uscita» di Emilio: «Emilio non ha che conoscenze naturali e puramente fisiche. Della storia ignora persino il nome, né sa che cosa siano metafisica e morale. Conosce i rapporti essenziali tra l’uomo e le cose, ma nessuno dei rapporti morali tra uomo e uomo. […] Egli non cerca di conoscere le cose secondo la loro natura, ma solo nelle relazioni che hanno con lui. […] Egli considera se stesso senza darsi pensiero per gli altri e trova giusto che gli altri non si diano pensiero per lui. […] È solo nella società umana e non conta che su se stesso» (18).
Così, nella cancellazione della memoria culturale, si realizza la saldatura fra il soggettivismo cartesiano e lo spontaneismo individualistico rousseauiano.
Il Sessantotto
Con il Sessantotto la critica alle radici della cultura europea diventa oggetto della rivoluzione culturale di massa, focalizzata sul rifiuto dell’autorità e del «sistema».
Pierre Bourdieu (1930-2002), sociologo, antropologo e filosofo, è una figura che ben rappresenta la critica della rivoluzione culturale alla trasmissione del sapere. Nel 1968 divenne direttore del Centro Europeo di Studi Sociologici e, con un gruppo di colleghi, diede il via a una ricerca sperimentale sul mantenimento del sistema di potere attraverso la trasmissione della cultura dominante (19).
Già in precedenza aveva sviluppato una critica alla trasmissione del sapere, partendo dalla premessa che il capitale, che secondo la lettura marxista è all’origine dei rapporti di forza tra le classi, non ha solo natura economica, ma va inteso anche come capitale culturale, capitale sociale e capitale simbolico.
Anche la cultura è un capitale: essa infatti non consiste solo in un sapere teorico, ma comprende anche un insieme di habitus, cioè disposizioni acquisite, che riguardano gli stili relazionali, i modi di parlare e di comportarsi ricevuti in eredità (20).
Secondo Bourdieu la lingua e la cultura della scuola sono la lingua e la cultura dell’élite; esse possono essere acquistate con precise strategie, prima fra tutte lo studio delle lingue classiche. I figli dell’élite hanno con questo linguaggio e questi comportamenti una dimestichezza che gli altri non potranno mai raggiungere. Pertanto, la giustizia e l’eguaglianza realizzate dalla scuola sono solo apparenti, in quanto nella sostanza perpetuano la violenza dell’ingiustizia sociale attraverso lo strumento della cultura, che non ha un valore in sé, ma consiste in «un campo meramente arbitrario di distinzioni» (21).
Qualsiasi trasmissione comporterebbe l’esercizio della violenza, anche perché «le culture sono universi relativi, e nessuna può pretendere di possedere in se stessa un valore superiore» (22), ma l’insegnante non può che rimanere ancorato all’imposizione arbitraria di alcune preferenze. Assimilata alla figura del padre, l’autorità pedagogica inculcherebbe «l’arbitrio culturale» a generazioni di giovani e la trasmissione della cultura sarebbe la tattica con cui i potenti perpetuano il proprio dominio.
Il processo educativo si baserebbe, dunque, su una menzogna assoluta: dissimulato sotto l’apparenza della giustizia e dell’eguaglianza, si celerebbe il meccanismo violento che impone gli habiti dell’élite, perpetuandone il monopolio culturale.
Nei decenni successivi, attraverso i movimenti del post-Sessantotto, il multiculturalismo relativistico, con la sua aspirazione a liberarsi dalla propria eredità culturale, diventa pensiero di massa.
Nella generazione dei «sessantottini» si diffonde il mito del «diverso», del «marginale», dell’«indiano metropolitano», insieme all’idea che i diritti non spettino a ogni essere umano in quanto tale, ma in quanto appartenente a un gruppo o a una categoria storicamente soggetta a discriminazione.
I diritti sarebbero così diversi, «una sorta di risarcimento da assegnare per riequilibrare ingiustizie precedentemente subite» (23): a conferire il diritto a una condizione di favore sarebbero l’appartenenza o la rivendicazione di una specifica identità.
Questa svolta, anti-umanistica e anti-universalistica, si esprime nella dottrina e nella prassi delle identity politics (politiche identitarie o dell’identità), che nascono con il meritevole obiettivo di promuovere l’integrazione delle categorie svantaggiate o minoritarie, riequilibrando i rapporti interni alla società, ma finiscono per creare, nella concreta azione politica, nuove discriminazioni, per esempio attraverso il meccanismo delle quote.
La teoria a cui si ricorre per calcolare lo svantaggio sociale è quella dell’«intersezionalità», che «inquadra le identità all’interno della cosiddetta matrice dell’oppressione» (24): essa consiste nel considerare il cumulo di diseguaglianze che s’intrecciano simultaneamente nella vita di determinati individui o di settori di popolazione (25).
Le politiche dell’identità si traducono in azione concreta, prima negli Stati Uniti d’America attraverso la pratica dell’affirmative action — da noi, le «pari opportunità» —, poi nel resto del mondo occidentale con le agende politiche imposte dai movimenti LGBT (26) nei diversi ordinamenti giuridici.
La conseguenza, in parte già visibile, della teorizzazione e dell’applicazione delle politiche identitarie è la dissoluzione del linguaggio e del tessuto sociale in tribù contrapposte, in cui il dato della comune natura umana, vero fondamento del bene comune e della pace sociale, viene oscurato dal prevalere delle diversità, nemiche e inconciliabili tra loro.
Ridurre l’uomo al suo stato economico, alla sua identità razziale, sessuale o di genere, è falso e quindi ingiusto. Ma a partire da questo orizzonte si comprende il passaggio dal relativismo culturale, come orizzonte di idee, alla «dittatura del relativismo», che è qualcosa capace di incidere in modo ben più significativo nella società umana.
Di una «dittatura del relativismo» aveva parlato già nel 2005 il card. Joseph Ratzinger: «Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie» (27).
La visione del mondo e gli ideali di vita delle nuove élite — burocrazie nazionali, internazionali, media e istituzioni formative — che hanno rimpiazzato la fallita lotta di classe sono omogenei e informati dall’idea della fluidità: assenza di radici, mescolanza di culture, equivalenza tra stili di vita. Nell’assoluta diversità di un mondo tribalizzato tutti però concordano sull’idea che la natura umana non è un dato sostanziale, bensì da costruire e decostruire.
L’unico vero ostacolo alla dissoluzione dell’umano — e quindi il nemico da eliminare — è l’idea che esista una verità su Dio, sull’uomo e sul mondo, espressa in concreto nell’umanesimo cristiano. È l’unico ostacolo perché non è relativizzabile e assimilabile all’interno del quadro del relativismo.
3.3 Cancellazione della memoria e cancellazione dell’uomo. Ovvero l’uso del linguaggio come strumento di potere
Il linguaggio è il mezzo fondamentale di ogni trasmissione di idee. La lingua è necessaria non solo per comunicare, ma anche per pensare e vivere la nostra vita interiore: servono parole per designare gli oggetti che ci circondano e anche per pensare ciò che si è.
Le parole però vengono «da fuori», da chi per primo ci parla e ci insegna la nostra storia, a partire dal nome che riceviamo alla nascita.
La parola è sempre all’origine di un incontro con l’altro, in cui qualcuno dà e qualcuno riceve: pensiamo sempre con le parole che abbiamo ricevuto all’interno di una relazione. Possiamo indignarci di questa situazione come di un abuso di potere, oppure riconoscerla come un dono necessario che ci rende capaci di concepire la nostra stessa identità.
Nel momento in cui la cultura e la lingua, che riceviamo dai nostri predecessori, iniziano ad essere accusate di alienare e corrompere l’uomo, comincia un processo di deculturazione che alla fine conduce alla perdita stessa della nostra umanità.
Che cosa rimarrà, infatti, dell’uomo quando tutta la sua cultura sarà stata decostruita?
A chi non riceve le parole per esprimere sé stesso e la realtà rimane solo il mutismo o la violenza della ribellione. Per questo gli attivisti del «risveglio», che non si rassegnano al mutismo, passano all’azione. Dato che il modo più incisivo per cambiare la cultura è riscrivere il senso delle parole e controllare la narrazione dei fatti, il linguaggio diventa il principale strumento di lotta del «wokismo».
Però le narrazioni non sono tutte uguali: alcune sono vere, nel senso che rappresentano la realtà, altre, invece, sono false perché la alterano o la nascondono.
Il linguaggio assolve alla sua funzione di esprimere e comunicare il mondo solo quando rispetta il legame fra la parola e la realtà: questo legame si chiama verità. Altrimenti la parola, invece di rivelare la realtà la oscura, introduce un abuso del linguaggio che conduce inevitabilmente a un abuso di potere, cioè a un uso violento della lingua..
Del legame tra abuso della parola e abuso di potere si è occupato il filosofo tedesco Josef Pieper (1904-1997), riprendendo alcune riflessioni di Platone sul discorso adulatorio (28): chi non si preoccupa della verità di quello che dice trasforma la comunicazione in «adulazione». Adulazione qui non significa compiacere qualcuno, ma avere come fine un interesse diverso dalla verità: non parlo per rendere manifesto il reale, né per il bene di chi mi ascolta, ma per raggiungere uno scopo che mi interessa.
Il discorso adulatorio, mirando a un fine diverso dall’espressione e dalla comunicazione della realtà, costringe la parola a diventare uno strumento disponibile a scopi violenti, presenti tutte le volte che si usa la parola come un’arma per deridere, diffamare, insultare, escludere, alterare la memoria.
È questo anche il caso, paradossalmente, del cosiddetto linguaggio «inclusivo» che, proponendosi di difendere le differenze con i suoi asterischi, gli schwa, e così via, ottiene l’effetto paradossale di distruggerle.
Ancor di più è il caso della cancellazione della memoria culturale: Heather Levine, insegnante in una scuola nel Massachusetts, si è dichiarata orgogliosa di aver rimosso l’Odissea dal programma di studio, perché Ulisse sarebbe un esempio di «mascolinità tossica».
Di questo passo Moby Dick potrebbe essere proibito perché antiecologico, in quanto inciterebbe alla caccia alla balena, cetaceo a rischio di estinzione, e anche la Divina Commedia potrebbe essere a rischio, in quanto ricca di contenuti giudicabili dal wokismo come «islamofobi», «omofobi» e razzisti.
In conclusione: una domanda e una testimonianza che ci interpellano
La domanda sorge da uno fra i tanti episodi di cancellazione della memoria: mi chiedo che storia abbiano imparato gli individui, prevalentemente bianchi, del movimento Black Lives Matter, che il 19 giugno 2020, a San Francisco, hanno circondato e abbattuto la statua di san Junìpero Serra (1713-1784), francescano spagnolo fondatore di missioni cattoliche nel territorio che poi sarebbe diventato la California (29).
Accusato di genocidio dei nativi americani dai woke, in realtà è stato canonizzato da Papa Francesco perché, esercitando eroicamente la virtù, «[…] ha saputo andare incontro a tanti imparando a rispettare le loro usanze e le loro caratteristiche.
«[…] ha cercato di difendere la dignità della comunità nativa, proteggendola da quanti ne avevano abusato» (30).
La testimonianza è di François-Xavier Bellamy. Aveva da poco iniziato a insegnare quando, vicino al suo liceo, viene accoltellato da coetanei un ragazzo di quindici anni, Samy, perché aveva sconfinato nel territorio di un altro gruppo. Questa esplosione di violenza gratuita lo indusse a riflettere e a ricordare le indicazioni tassative impartite dall’ispettore generale della Cultura nel primo giorno di formazione dei nuovi docenti: «Non avete nulla da trasmettere» (31).
Ma Bellamy sa che non si può educare senza trasmettere, sa che i ragazzi, «poveri» di quello che non è stato loro tramandato, non capiscono più il senso della realtà in cui vivono. E capisce che per molti di loro l’unica reazione rimasta è la violenza, inarticolata, incomprensibile, sprovvista di significato, una violenza che facilmente s’impadronisce di chi non ha avuto il privilegio di frequentare la cultura fuori dalla scuola, come probabilmente è accaduto agli uccisori di Samy: vittime che diventano assassini.
Note:
1) Frank Furedi, 100Years of Identity Crisis, cit. in Giulio Meotti, Il politicamente corretto è il vecchio sogno di rifare l’uomo, in Il Foglio quotidiano, 22-9-2021.
2) Cfr. Thomas Stearns Eliot, Appunti per una definizione della cultura, trad. it., Bompiani, Milano 1952, p. 19.
3) San Giovanni Paolo II (1978-2005), Lettera con cui viene istituito il Pontificio Consiglio della Cultura, 20-5-1982.
4) Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, a cura di Giovanni Cantoni (1938-2020), Sugarco, Milano 2009, cap. III, par. 2, pp. 178-179, IV Rivoluzione e tribalismo: un’eventualità.
5) Cit. in Gianfranco Morra (1930-2021), Sorgenti culturali dell’Europa, in Studi Cattolici, anno XLV, n. 489, Milano novembre 2001, p. 757.
6) Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) sosteneva l’esistenza di una legge non scritta, appresa direttamente dalla natura: «Esiste dunque, o giudici, una legge non scritta ma naturale, da noi né imparata né ereditata né letta, ma colta attinta ricavata dalla natura stessa, una legge che conosciamo non per insegnamento di uomini dotti ma fin dalla nascita, non per educazione, ma per istinto» (Cícerone, Pro Milone, IV, 10; cfr. anche De inventione, II, 53-54; De legibus, I, 6, 19). L’intervento più completo di Cicerone sul concetto di legge naturale è esposto in un brano de La Repubblica: «Certamente esiste una vera legge: è la retta ragione; essa è conforme alla natura, la si riscontra in tutti gli uomini; è immutabile ed eterna; i suoi precetti richiamano al dovere, i sui divieti trattengono dall’errore; ma essa però non comanda o vieta inutilmente agli onesti né muove i disonesti col comandare o col vietare. A questa legge non è lecito apportare modifiche né toglierne alcunché né annullarla in blocco, e non possiamo esserne esonerati né dal senato né dal popolo, né dobbiamo cercare come suo interprete e commentatore Sesto Elio; essa non sarà diversa da Roma ad Atene o dall’oggi al domani, ma come unica, eterna, immutabile legge governerà tutti i popoli ed in ogni tempo, ed un solo dio sarà comune guida e capo di tutti: quegli cioè che elaborò e sanzionò questa legge; e chi non gli obbedirà, fuggirà se stesso e, per aver rinnegato la stessa natura umana, sconterà le più gravi pene» (Cicerone, De Republica, III, 22,33).
7) «E Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza» e poi «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gn., 1, 26,31).
8) Per esempio: «Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi» (Salmo 8,7).
9) «Non c’è più Giudeo né Greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal. 3,28).
10) Eugenio Capozzi, L’autodistruzione dell’Occidente, Historica/Giubilei Regnani, Roma-Cesena 2021, pp. 69-70.
11) Cfr. ibid., p. 75.
12) In particolare, la polemica sul valore e la capacità della ragione umana, con le sue ricadute irrazionalistiche in ambito religioso — polemica fra Erasmo da Rotterdam (1466/1469-1536) e Martin Lutero (1483-1546), fra il De libero arbitrio del 1524 e il De servo arbitrio del 1526 —, l’esaltazione della natura umana che si spinge alle soglie del super-umanesimo, il ripresentarsi dell’aspirazione gnostica alla trasformazione radicale dell’umanità in forma millenaristica o scientistica, l’accentuarsi della concentrazione del potere politico e l’avvio dello smantellamento delle libertà garantite dalla tradizione giuridico-costituzionale, prima con l’assolutismo, poi con il dispotismo «illuminato» e, infine, con lo statalismo delle forme politiche nate dalle ideologie moderne.
13) Cfr. François-Xavier Bellamy, I diseredati. Ovvero l’urgenza di trasmettere, trad. it., Itaca, Rimini 2016.
14) Cfr. Cartesio, Discorso sul metodo, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1932, p. 35.
15) F.-X. Bellamy, op. cit., p. 50.
16) Jean-Jacques Rousseau, Discorso sulla scienza e sulle arti, trad. it., in Discorsi, BUR, Milano 2020, pp. 33-66 (p. 39).
17) J. -J. Rousseau, Emilio o dell’educazione,trad. it., Armando, Roma 2012, p. 118.
18) Ibid., pp. 324-325.
19) Nel 1981 a Bourdieu fu assegnata la prestigiosa cattedra di sociologia del Collège de France. A partire dagli anni 1980 divenne uno dei sociologi francesi più frequentemente citati negli Stati Uniti d’America.
20) Cfr. Pierre Bourdieu e Jean-Claude Passeron, 1964, trad. it. I delfini. Gli studenti e la cultura, Guaraldi, Rimini 2006.
21) F.-X. Bellamy, op. cit., p. 97.
22) Ibid., p. 103.
23) E. Capozzi, op. cit., p. 163.
24) Rod Dreher, La resistenza dei cristiani. Manuale per fedeli dissidenti,Giubilei Regnani, Cesena 2021, p. 77.
25) Il termine è stato proposto nel 1989 dalla giurista femminista statunitense Kimberlé Crenshaw. La teoria suggerisce che varie categorie biologiche, sociali e culturali (il genere, l’etnia, la classe sociale, la disabilità, l’orientamento sessuale, la religione, l’età, la nazionalità e altri assi di identità) interagiscano a molteplici livelli, talvolta simultanei. La teoria sull’intersezionalità afferma che le concettualizzazioni classiche dell’oppressione nella società — come il razzismo, il sessismo, l’«omofobia», la «transfobia», la xenofobia e tutti i pregiudizi basati sull’intolleranza — non agiscono in modo indipendente, ma realizzano forme di esclusione interconnesse, che creano un sistema di oppressione riproducente l’intersezione di molteplici forme di discriminazione.
26) Acronimo di «Lesbica, Gay, Bisessuale e Transgender».
27) Joseph Ratzinger, Omelia in occasione della «Missa “pro eligendo Romano Pontifice”», 18-4-2005.
28) Cfr. Josef Pieper, Abuso di parola, abuso di potere (unito Conoscenza e libertà, pp. 55-70), 1970, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 2020.
29) Cfr. Marco Gervasoni, Cari cattolici, colpiranno anche le statue dei santi, in il Giornale, 23-6-2020.
30) Francesco, Omelia in occasione della Santa Messa di canonizzazione del beato P. Junipero Serra, 23-9-2015.
31) F.-X. Bellamy, op. cit., p. 27. Cfr. anche John Paul Meenan, L’abuso del linguaggio conduce all’abuso di potere, in Cristianità, anno XLV, n. 386, luglio-agosto 2017, pp. 41-50.