Di Luciano Capone da Il Foglio del 25/07/2024
L’italia è da tempo, almeno dalla crisi del 2011, impegnata ad affrontare tante emergenze. Ma l’attenzione ai problemi immediati sembra distogliere il paese dall’emergenza più importante di lungo termine: la crisi demografica. I dati pubblicati dall’Istat disegnano un quadro che, sebbene non sia nuovo, è terrificante. Le previsioni sul futuro demografico evidenziano un declino che l’Istituto di statistica definisce “irreversibile”: dopo aver perso circa 1,35 milioni di abitanti dal 2014 al 2023 (da 60,3 a 59 milioni), la popolazione residente scenderà di altre 400 mila unità da qui al 2030 (58,6 milioni), di altre 3,8 milioni nel 2050 (54,8 milioni) e di altre 8,8 milioni nel 2080 (46 milioni). In totale, dal 2023 al 2080, l’Italia perderà circa 13 milioni di abitanti (-22 per cento).Parlare quindi di decimazione è tecnicamente un eufemismo. In particolare per il Mezzogiorno, che subirà una desertificazione: da 19,9 milioni nel 2023 a 11,9 milioni nel 2080 (-60 per cento). Non solo gli italiani saranno molti di meno, ma saranno molto più anziani. Se oggi la popolazione over 65 anni è il doppio di quella under 14 (24 contro 12,4 per cento), nel 2050 sarà il triplo (34,5 contro 11,2 per cento). Allo stesso tempo, ci sarà una contrazione della popolazione in età da lavoro (15-65 anni): dal 63,6 per cento al 54,3 nel 2050.Questo è un aspetto molto rilevante, su cui si era concentrato il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, nelle considerazioni finali del 31 maggio. Panetta ha evidenziato che in un arco di tempo più breve, da qui al 2040, “il numero di persone in età lavorativa diminuirà di 5,4 milioni di unità, malgrado un afflusso netto dall’estero di 170 mila persone all’anno”. Questa previsione demografica dell’Istat, secondo le proiezioni della Banca d’Italia, a produttività invariata, si tradurrebbe in “un calo del pil del 13 per cento e del 9 per cento in termini pro capite”. Significa che, senza un aumento del tasso di occupazione ai livelli europei, vi sarà un impoverimento senza precedenti e che l’enorme debito pubblico finirà per pesare sulle spalle di sempre meno persone, per giunta più anziane, diventando insostenibile.Lo scenario spaventoso descritto dall’Istat non è quello peggiore, ma quello “mediano”. Nell’ipotesi più sfavorevole, la popolazione italiana sarà 52,7 milioni nel 2050 (invece di 54,8 dello scenario mediano) e 39,3 milioni nel 2080 (invece di 46,1): un terzo in meno rispetto agli attuali 59 milioni. Nello scenario mediano, infatti, il tasso di fecondità – uno dei più bassi al mondo – dovrebbe passare dagli attuali 1,2 figli per donna a 1,46 nel 2080, che comunque non sarebbe sufficiente a far aumentare il numero delle nascite dato che, nel frattempo, segnala sempre l’Istat, ci sarà un calo progressivo delle donne in età fertile (da 11,6 milioni nel 2023 a 7,7 milioni nel 2080).L’altra variabile è quella migratoria: lo scenario mediano prevede un flusso netto di 200 mila immigrati annui fino al 2040. Ma questo, ovviamente, dipende dall’an damento economico: se l’Italia non crescerà, sarà meno attrattiva per gli immigrati e spingerà più residenti a emigrare. Se, come sostiene l’Istat, il declino demografico è “irrever sibile” vuol dire che non si tratta neppure di un’emergenza: è un problema strutturale. Il più importante del paese, come ha recentemente sottolineato anche il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Un’onda lunga che si abbatterà sulla sostenibilità del welfare e della spesa pubblica in generale, del sistema pensionistico e del debito pubblico, e che riguarderà il mercato del lavoro e la produttività delle imprese, l’immigrazione e la composizione sociale (nel 2043 quattro famiglie su dieci saranno costituite da persone sole).Di fronte alla principale minaccia vitale per il futuro del paese (o della nazione) la politica, ma tutta la società italiana in generale, anziché pensare a bonus annuali di ogni tipo, dovrebbe impostare una strategia di lungo termine che intervenga sulle leve che possono contrastare il declino demografico. Parlare di “Stati generali” forse non è il caso, visto il precedente infruttuoso durante la crisi Covid, ma servirebbe un luogo di confronto e di elaborazione delle politiche più adatte ed efficaci, affinché la strategia che ne viene fuori sia un obiettivo e un patrimonio collettivo. E non un insieme sconnesso di misure che cambiano ogni anno o a ogni cambio di governo.