Marco Invernizzi, Cristianità n. 410 (2021)
Periodicamente torna puntuale la domanda: perché non costituire una lista — se non addirittura un partito — di cattolici alle prossime elezioni, amministrative o politiche che siano?
Siccome l’intenzione da cui nasce questa proposta è magari ingenua ma non maliziosa, perché ispirata dal fine di uscire da una pluriennale situazione di subalternità culturale e politica dei cattolici stessi, credo sia giusto e non inutile cercare di impostare una risposta a questa domanda.
I cattolici hanno il diritto di costruire una società ispirata al Vangelo?
La prendo da lontano perché credo che il primo nodo da sciogliere sia di natura teologica e storica. I cattolici hanno il diritto-dovere di costruire una «società a misura d’uomo e secondo il piano di Dio» (1) oppure, siccome ciò comporterebbe una compromissione con il potere temporale, sarebbe meglio evitarlo e lasciare alla Chiesa il semplice compito di testimoniare il Vangelo senza cercare di dare vita a una società più umana e cristiana?
La fine delle persecuzioni
La risposta alla domanda deve partire da quanto avvenne molti secoli fa, dopo l’Editto di Milano voluto dall’imperatore Flavio Valerio Aurelio Costantino (274-337) nel 313, quando cessarono le persecuzioni e la libertà religiosa per i cristiani venne garantita giuridicamente all’interno dei confini dell’impero romano (2). Dopo un breve periodo, con l’imperatore Flavio Teodosio Augusto (347-395), il cristianesimo sostituì la religione tradizionale romana diventando la religione ufficiale dell’impero e questa condizione si protrasse sino alla fine dell’impero d’Occidente (convenzionalmente nel 476), quando le insegne imperiali verranno trasferite a Bisanzio, dove l’impero continuerà per mille anni con particolari caratteristiche culturali e religiose, conservando i tratti di cristianità orientale (3).
La nascita di una società cristiana
Si stima che la presenza cristiana all’interno dell’impero, quando venne promulgato l’Editto di Milano, si aggirasse intorno a non oltre un dieci per cento della popolazione. L’evangelizzazione era quindi ancora all’’inizio e fu probabilmente avvantaggiata dal favore del potere imperiale, che nei decenni successivi all’Editto di Tessalonica (380), in Grecia, rese obbligatoria all’interno dell’impero la religione cristiana così come era stata formulata dal primo Concilio ecumenico della Chiesa, tenutosi a Nicea, in Asia Minore, nel 325. Tuttavia, sarà soprattutto il lungo processo di inculturazione della fede, opera del monachesimo, delle famiglie cristiane e in generale dell’opera missionaria della Chiesa, molto più delle scelte del potere imperiale, a trasformare l’Europa in un continente cristiano.
Oggi molti intellettuali cristiani mettono in dubbio proprio questa prospettiva d’inculturazione della fede che, secondo loro, comprometterebbe la sua purezza e la relativa testimonianza. Diceva san Paolo VI (1963-1978) a questo proposito: «Uno non può inventare una nuova Chiesa secondo il proprio giudizio, o il proprio gusto personale. Oggi non è raro il caso di persone, anche buone e religiose, giovani specialmente, che si credono in grado di denunciare tutto il passato storico della Chiesa, quello Post-tridentino in modo particolare, come inautentico, superato e ormai invalido per il nostro tempo; e così, con qualche termine ormai convenzionale, ma estremamente superficiale ed inesatto, dichiarano senz’altro chiusa un’epoca (costantiniana, preconciliare, giuridica, autoritaria …), e iniziata un’altra (libera, adulta, profetica ….) da inaugurarsi subito, secondo criteri e schemi inventati da questi nuovi e spesso improvvisati maestri. Per essere oggi veramente fedeli alla Chiesa dovremo guardarci dai pericoli che derivano dal proposito, tentazione forse, di innovare la Chiesa, con intenzioni radicali o con metodi drastici, sovvertendola.
«Accenniamo appena. Uno di questi pericoli è la critica presuntuosa e negativa, isolata dalla visione globale della realtà, o dalla considerazione totale della verità vivente della Chiesa, o dal senso storico con cui certi suoi aspetti devono essere valutati. Dice bene un insigne teologo contemporaneo: “… Quando la funzione critica entra da sola in attività, essa finisce ben presto per tutto polverizzare” (De Lubac, L’Eglise dans la crise actuelle, Nouv. Revue Théol., 1969, n. 6, p. 585)» (4).
Ora è indubbio che la storia della cristianità offra tanti episodi di corruzione e di contro-testimonianza che possono non solo non edificare ma addirittura diventare occasione di scandalo e quindi di possibile allontanamento dalla fede. A questi dubbi si potrebbero opporre tante considerazioni di segno contrario, per esempio su come la penetrazione del cristianesimo nella cultura abbia favorito la conversione religiosa di molti uomini e dei costumi di tutti o quasi tutti gli abitanti dell’Europa, nonché il superamento lento ma progressivo della schiavitù, della poligamia e della violenza nelle relazioni sociali, e come siano contestualmente migliorate la considerazione dei poveri, la dignità della donna nella vita pubblica e familiare, il riconoscimento dell’uguaglianza in dignità di tutti gli uomini, e così via.
I cattolici e il problema politico
Ma che cosa c’entra questo con la partecipazione e le scelte elettorali dei cattolici?
La contestazione della cosiddetta «Chiesa costantiniana», cioè della scelta dei cattolici, dopo l’Editto di Milano, di entrare nella vita politica dell’impero e di cercare di costruire una civiltà cristiana, una «cristianità», ha sempre accompagnato in qualche modo la storia della Chiesa, ma si è particolarmente manifestata nella seconda metà del secolo XX con la condanna della cosiddetta «ideologia della cristianità» da parte di intellettuali e di teologi cattolici. La cosiddetta «ideologia della cristianità» è stata identificata con quella cultura, ispirata dal Magistero della Chiesa, che si diffuse in seguito alla Rivoluzione del 1789 e alla nascita degli Stati liberali in Europa, e che «leggeva» la Rivoluzione del 1789 come un evento epocale che inaugurava un mondo «nuovo», segnato dalla riduzione del cristianesimo a esperienza privata e a realtà che doveva essere espulsa, anche con la forza, dalla vita pubblica delle nazioni. In questo contesto, i cattolici avrebbero dovuto dare vita — come effettivamente avvenne — a movimenti e a partiti cattolici che difendessero il diritto alla libertà religiosa e avviassero la rinascita culturale dell’Europa nella prospettiva di una cristianità rinnovata, quale effetto di una seconda evangelizzazione.
L’espulsione del cristianesimo dalla vita pubblica — ciò che oggi chiamiamo «laicismo» — ha prodotto sostanzialmente due risposte diverse, entrambe sbagliate, da parte dei cattolici. Una prima è stato il «compromesso culturale» (5) con le ideologie vittoriose in un determinato tempo storico, per salvaguardare la libertà della Chiesa attraverso il coinvolgimento dei cattolici con i poteri vittoriosi, da cui sono nati i diversi clericalismi, cioè il cattolicesimo liberale, il clerico-fascismo, il catto-comunismo. La seconda prospettiva, più radicale e affascinante, consiste nel rifiuto di ogni compromesso con il potere in nome della purezza evangelica, per preservare il messaggio originale di Cristo da ogni incrostazione terrena. Questa seconda prospettiva è avvantaggiata dagli errori e dagli scandali che nella lunga storia della Chiesa i cattolici pubblicamente impegnati nelle istituzioni hanno commesso in abbondanza e dal fatto che il contatto con il potere economico e politico comporta, non inevitabilmente ma frequentemente, un alto rischio di corruzione.
Il punto di partenza di quest’ultima posizione può essere rintracciato nella pubblicazione del saggio La fin de l’ère constantinienne del teologo domenicano Marie-Dominique Chenu (1895-1990) pubblicato nel 1961, alla vigilia del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) (6). Sinteticamente, esso identifica l’«era costantiniana» con l’alleanza fra il potere spirituale e quello temporale e le sue basi culturali nell’assimilazione del diritto romano da parte della Chiesa latina, nel «primato della ragione sulle altre forme della vita dello spirito» (7) e, quindi, nella sua specifica concezione dell’uomo. Questa, secondo padre Chenu, «[…] è l’anima dell’era costantiniana, il suo “umanesimo”, il punto in cui essa coincide con la civiltà occidentale», ossia «l’inclinazione a definire l’uomo in base alla sua natura, facendo astrazione non soltanto dagli individui, ma anche dalle diverse condizioni introdotte dalla geografia, dalla razza, dall’ambiente e dall’educazione» (8). Naturalmente il saggio è molto più complesso rispetto a quello che è stato fatto diventare, cioè il «manifesto» del rifiuto della «Chiesa costantiniana», l’inizio del processo polemico e dialettico di contestazione all’interno della Chiesa, nemico di ogni tentativo di difendere ciò che rimaneva della civiltà cristiana in Occidente, ma anche di ogni prospettiva di «nuova evangelizzazione», spesso guardata con sospetto perché avrebbe potuto sfociare nella edificazione di una nuova cristianità. Lo stesso padre Chenu sembra consapevole del problema sollevato quando scrive: «Del contenuto dell’era costantiniana, alcuni elementi sono decisamente buoni ed esemplari; ma altri sono da tempo caduti, soprattutto nel campo dell’attribuzione di un carattere sacro alle forme sociali e politiche che diventano così il braccio secolare della Chiesa» (9). Proprio qui è il punto: l’«era costantiniana» è finita, questo è sotto gli occhi di tutti ed è stato confermato anche dal Magistero della Chiesa. Ma che giudizio dare di questa scomparsa? È nato un mondo migliore? E se dobbiamo seminare il Vangelo nel mondo di oggi — come è nello spirito della Chiesa missionaria auspicata dal teologo domenicano — che cosa faremo quando questa semina si troverà a rispondere alle domande su come comportarsi davanti alle inevitabili scelte umane, di carattere economico, politico e culturale, così come ha fatto la Chiesa dopo l’Editto di Costantino? Lo stesso padre Chenu si chiede: «Doveva la Chiesa rifiutare i favori di Costantino?» (10).
A tutte queste domande ha dato una risposta profetica Giovanni Cantoni nella prefazione a un testo scritto pochi mesi prima della fine del Concilio Vaticano II: «Dunque, l’età costantiniana è finita: è finita con il concilio ecumenico Vaticano II, che ha promesso la rinuncia della Chiesa a ogni privilegio, a ogni forma di jus singulare, per ottenere, lasciando il sovrappiù in alcuna parte del mondo, il necessario in altra» (11). Cantoni coglieva già le ragioni pastorali di una tale scelta e contemporaneamente le ripercussioni che si sarebbero verificate là dove l’era costantiniana si era realizzata in maniera prevalente: «Non può infatti sfuggire la ragione pastorale di questo atteggiamento e la profonda sollecitudine che lo detta, sollecitudine di madre cui tutti i figli sono ugualmente cari; e non è possibile a un cristiano non gioire della gioia di un fratello che si cerca autorevolmente di sovvenire. Ma neppure è possibile non coglierne i pericoli in un’area che, come quella della cristianità latina, ha vissuto di costantinismo o della sua ombra — il confessionalismo — sino a ieri, e ancor oggi ne gode gli ultimi vantaggi, in attesa che, ottemperando alle decisioni conciliari, la tutela da parte dei poteri qui costituiti cessi, in cambio della tolleranza, altrove, da parte di altri poteri. Si possono quindi ben capire le voci di cristiani latini che si alzano a dichiarare il loro timore, con toni che sanno talora della disperazione del gregge abbandonato dal buon pastore per andare alla ricerca della pecorella smarrita. Anche molti sospiri di gaudio per la conquistata emancipazione dalla società, si son già trasformati in pianto per la Chiesa dei poveri abbandonati a sé stessi, senza più il sostegno provvidenziale di una sanzione sociale» (12).
Individuati i pericoli intra ecclesiam successivi alla fine dell’epoca costantiniana, Cantoni invitava ad andare a vedere come i cristiani si comportarono nell’epoca precedente, cioè nei primi tre secoli dopo Cristo, che furono peraltro secoli non soltanto di persecuzione ma anche di intenso apostolato missionario. Un’epoca simile all’attuale perché in entrambe le situazioni i cristiani rappresentano soltanto una parte della società, mentre nell’epoca costantiniana erano la maggioranza e il senso comune della società si ispirava al Vangelo, anche se spesso e volentieri i comportamenti degli uomini, anche dei maiores, erano in contraddizione con il messaggio cristiano. Simile ma non uguale, soprattutto perché la società pagana pre-cristiana era una società religiosa, mentre l’epoca moderna, e anche quella detta post-moderna, sono epoche caratterizzate dal rifiuto, seppure in modo diverso, della religione e in particolare della religione cattolica. Da qui ancora, concludeva Cantoni, la necessità di un’apologetica adeguata ai tempi, imperniata soprattutto nella «difesa della religione sic et simpliciter e della naturalità del sacro nella vita dell’uomo e nell’uomo stesso; e che l’apologetica analoga a quella pre-costantiniana si deve sovrapporre a questa e dai risultati di questa dipenderà, come un discorso de vera religione dipende e si innesta solo su di una positiva affermazione de religione, senza la quale è vox clamantis in deserto, buon seme che cade su terreno arido, grazia che non ha natura da perfezionare» (13).
Cantoni così individuava con largo anticipo sui suoi effetti visibili, e in contemporanea con i lavori del Concilio Vaticano II, la cifra di questa assise, cioè la trasformazione della Chiesa da anima di una cristianità che non esisteva più in Chiesa missionaria, capace di portare il Vangelo della salvezza a tutti i popoli e di riportarlo a quelle nazioni che le avevano voltato le spalle.
Questa cifra allora la notarono in pochi, e fra questi il sacerdote Joseph Ratzinger che colse già nel 1959 la fine della cristianità storica e l’involuzione verso il paganesimo della gran parte dei fedeli (14), avanzando un’interpretazione storica che confermerà al termine del pontificato, questa volta alla luce di un’esperienza sotto gli occhi di tutti: «Lei si vede come l’ultimo papa del vecchio mondo o come il primo del nuovo?», gli chiede Peter Seewald nell’ultimo libro-intervista. «Direi entrambi» risponde il Pontefice emerito, che aggiunge: «[…] è evidente che la Chiesa sta abbandonando sempre più le vecchie strutture tradizionali della vita europea e quindi muta aspetto e in lei vivono nuove forme. È chiaro soprattutto che la scristianizzazione dell’Europa progredisce, che l’elemento cristiano scompare sempre più dal tessuto della società. Di conseguenza la Chiesa deve trovare una nuova forma di presenza, deve cambiare il suo modo di presentarsi. Sono in corso capovolgimenti epocali …» (15).
Ecco allora che ci possiamo interrogare su come i cattolici, dopo le rivoluzioni liberali e la nascita degli Stati nazionali ostili alla Chiesa in Europa, nel corso del secolo XIX, abbiano risposto a questa sfida, di cui il momento politico-elettorale è soltanto un aspetto.
Il «non expedit»
Il primo tempo della presenza organizzata dei cattolici in Italia dopo il Risorgimento è caratterizzato dal non expedit (16), cioè dall’invito rivolto ai fedeli da parte della Santa Sede a non partecipare alle elezioni politiche nel Regno d’Italia costituitosi nel 1861, con un intervento della Sacra Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari del 30 gennaio 1868 che traduceva l’appello lanciato alcuni anni prima dal giornalista cattolico don Giacomo Margotti (1823-1887), direttore de L’Armonia, in occasione delle prime elezioni politiche del Regno d’Italia: «né eletti né elettori» (7 gennaio 1861) (17). Dopo numerose conferme da parte dell’autorità ecclesiastica, sotto il pontificato di Leone XIII (1878-1903), nel 1886, il Sant’Uffizio intervenne in forma definitiva: «non expedit prohibitionem importat» («la non convenienza implica il divieto»).
Questo divieto non era soltanto una forma di protesta nei confronti del sopruso di Porta Pia, ma aveva anche un significato pastorale, quello di tenere uniti i cattolici in un tempo difficile e nuovo della loro storia ed era altresì conseguenza del fatto che in quell’epoca avevano diritto al voto soltanto gli uomini, purché dotati di un certo reddito, cosa che escludeva un grande numero di cattolici, presenti soprattutto fra le classi popolari.
Il «non expedit», tuttavia, sulla lunga distanza stava diventando un problema, perché non offriva soluzioni. Per certi versi rappresentava un problema, come lo sarebbe stato il legittimismo, cioè quell’atteggiamento di nostalgia verso gli Stati pre-unitari che era ancora presente in parte delle popolazioni, soprattutto nel Mezzogiorno dopo il 1861, quando fu fondato il Regno d’Italia. Il legittimismo come aspirazione politica non poteva durare nel tempo, perché avrebbe dovuto realizzare il proprio progetto di restaurazione dell’antico regime negli anni immediatamente successivi all’espulsione dei sovrani dai loro Stati per non diventare un’opzione politicamente impraticabile, rimanendo una semplice testimonianza. Così, l’assenza dei cattolici dalle vicende politiche nazionali — mentre la loro partecipazione alle elezioni amministrative a volte garantiva successi elettorali significativi —, se all’inizio aveva contribuito a mantenerli uniti, a lungo andare diventava una prospettiva priva di sbocchi.
Così, all’interno del mondo cattolico, accanto all’organizzazione ufficiale, l’Opera dei Congressi (1874-1904) (18), certamente «intransigente» circa la Questione Romana e quindi contraria a prendere parte alla vita politica nazionale, nacque un ambiente «transigente», composto da cattolici conservatori, che volevano la nascita di un partito conservatore cattolico, fedele alla monarchia e alla Chiesa, che ostacolasse il processo di disgregazione del Paese (19).
L’Unione Elettorale Cattolica Italiana (UECI) e il «Patto Gentiloni»
Dopo la soppressione dell’Opera dei Congressi, nel 1904, la Gerarchia autorizzerà alcune deroghe alla partecipazione elettorale, per esempio in occasione delle elezioni politiche del 1904, e, soprattutto grazie a Papa san Pio X (1903-1914), che con l’enciclica Il fermo proposito (1905) riorganizzò il movimento cattolico, affidandolo a Stanislao Medolago Albani (1851-1921) (20) e al beato Giuseppe Toniolo (1845-1918) (21), e attribuendo a una parte di esso il compito della partecipazione elettorale. Nacque così la UECI, l’Unione Elettorale Cattolica Italiana (22), presieduta da Vincenzo Ottorino Gentiloni (1865-1916). Nel nuovo contesto pluralistico, i cattolici sapevano di essere diventati solo una delle diverse componenti della società in competizione politica con altre — in questo caso socialisti e liberali. Essi dovevano decidere quale sarebbe stato in caso di vittoria elettorale il pericolo maggiore per il bene comune e comportarsi di conseguenza.
Nel 1898 in molte città italiane vi furono rivolte contro il rincaro del pane (23); a Milano in particolare avvenne una «sanguinosa repressione» con le «cannonate» sulla folla scesa in piazza da parte del generale Fiorenzo Bava Beccaris (1831-1924). Queste manifestazioni di piazza ebbero una grande risonanza e spinsero l’opinione pubblica e il governo liberale ad accomunare socialisti e cattolici nella contestazione del regime liberale. E orientarono altresì il Papa e buona parte del mondo cattolico a ritenere che il pericolo socialista fosse quello più minaccioso e che si sarebbe potuto fermarlo soltanto con l’accordo elettorale fra «moderati» e cattolici.
Si arrivò così al cosiddetto «Patto Gentiloni», l’accordo — reso possibile dal sistema elettorale maggioritario — fra cattolici e liberali conservatori che prese il nome dal presidente della UECI, stipulato in occasione delle elezioni politiche del 1913 — le prime a suffragio universale maschile —, che porterà in Parlamento 228 deputati: un indubbio successo, sia perché i candidati liberali si impegnarono per iscritto a firmare sette punti irrinunciabili per avere il sostegno dei cattolici — dall’impegno contro il divorzio alla libertà di educazione —, sia perché venne fermata l’ascesa del partito socialista, fondato nel 1892.
Il Partito Popolare Italiano
La Prima Guerra Mondiale (1914-1918) fu veramente un cambiamento epocale per le ripercussioni che provocò in quasi tutti i campi del vivere umano. Nel campo politico il principale mutamento fu il compimento della «nazionalizzazione delle masse» (24), cioè la «conquista» delle masse da parte delle ideologie moderne, immettendole nella vita pubblica attraverso i «partiti di massa», che nacquero proprio negli anni successivi al conflitto. In Italia nacquero, nel 1919 a Milano, il fascismo e, nel 1921 a Livorno, il Partito Comunista d’Italia, attraverso una scissione del Partito Socialista Italiano (25).
Sempre nel 1919, con «l’appello ai liberi e ai forti» del suo primo segretario, don Luigi Sturzo (1871-1959) (26), fu fondato a Roma il Partito Popolare Italiano (PPI). Nel frattempo, cambiava anche il sistema elettorale, divenendo proporzionale. Alle elezioni del novembre del 1919, il PPI ottiene il 20,6 per cento dei voti ed elegge 100 deputati, diventando il secondo partito del Paese dopo quello socialista.
La nascita di un partito aconfessionale e indipendente dalla Gerarchia — ma anche dalle altre componenti del mondo cattolico — era una novità considerevole. Infatti, il PPI godeva dei voti dei cattolici ma decideva autonomamente la propria linea politica. Tale linea era ispirata alla cultura politica cattolico-democratica, che si opponeva alle posizioni conservatrici, pur permettendo il sorgere di correnti al suo interno, per esempio un’«ala destra» alla quale appartenne un grande protagonista dell’Opera dei Congressi come Gianbattista Paganuzzi (1841-1923). L’aconfessionalismo del nuovo partito subì la critica dei fondatori dell’Università Cattolica, padre Agostino Gemelli O.F.M. (1878-1959) e mons. Francesco Olgiati (1886-1962) (27). Il PPI, comunque, pur essendo aconfessionale e non coinvolgendo la Gerarchia nella sua azione politica, riceveva il voto di molti cattolici.
Il PPI durò poco. Nelle elezioni del 1924 il «listone» fascista ottiene il 64,9% dei voti e comincia così l’iter che porterà allo Stato autoritario che uscirà dalle riforme del 1925, proposte da Alfredo Rocco (1875-1935), ex nazionalista diventato ministro della Giustizia nel governo Mussolini. Al fascismo aderiscono alcuni cattolici che, nell’agosto 1924, si staccano dal PPI e danno vita al Centro Nazionale Italiano (28).
Per tutto il periodo del regime, in seguito alla soppressione dei partiti a eccezione del Partito Nazionale Fascista, cessa ogni espressione politica che non sia riconducibile al fascismo. I cattolici godono di libertà d’azione in diversi campi della vita pubblica, ma non in quello della politica. Se ciò impedisce il configurarsi di uno Stato veramente totalitario, per i cattolici sancisce la rinuncia a operare per realizzare i princìpi della dottrina sociale in quel determinato contesto storico.
La Democrazia Cristiana
Durante tutto il periodo del regime fascista (1922-1945) l’Azione Cattolica Italiana (ACI) rimarrà operativa, anche se nel 1931 si creerà un aspro conflitto con il regime perché sia la Chiesa sia lo Stato miravano entrambi all’educazione dei giovani e all’assistenza sociale dei lavoratori. Nello stesso anno, Papa Pio XI (1922-1939) pubblica l’enciclica Non abbiamo bisogno con la quale difende le prerogative della Chiesa nei due ambiti predetti e condanna la violenza esercitata in quel frangente dalle squadre fasciste contro le organizzazioni cattoliche, ribadendo un principio importante: «Una concezione dello Stato che gli fa appartenere le giovani generazioni interamente e senza eccezione dalla prima età fino all’età adulta, non è conciliabile per un cattolico colla dottrina cattolica, e neanche è conciliabile col diritto naturale della famiglia. Non è per un cattolico conciliabile con la cattolica dottrina pretendere che la Chiesa, il Papa, devono limitarsi alle pratiche esterne di religione (Messa e Sacramenti), e che il resto della educazione appartiene totalmente allo Stato» (29). Tuttavia, in breve il dissidio si placa: già in settembre la frattura viene ricomposta con un nuovo riconoscimento dell’Azione Cattolica da parte del regime, condizionato al fatto che non si occupasse di politica e non fosse un mezzo per veicolare le posizioni del soppresso PPI.
Terminata la guerra nel 1945, la Chiesa occupa un ruolo importante per superare gli odi scatenati dalla guerra civile combattuta tra i fascisti della Repubblica Sociale Italiana e la Resistenza partigiana egemonizzata dai comunisti. Già nel 1942 rinasce un partito d’ispirazione cristiana, che prende il nome di Democrazia Cristiana, all’interno del quale confluiscono i vecchi dirigenti del PPI, il gruppo dei professori dell’Università Cattolica — fra i quali, più noti, Giuseppe Dossetti (1913-1996), Giuseppe Lazzati (1909-1986) e Amintore Fanfani (1908-1999) —, i sindacalisti «bianchi» e altri gruppi.
Il conflitto fra la DC e i Comitati Civici
Alle elezioni nazionali del 18 aprile 1948 — le prime dopo l’approvazione della nuova Carta costituzionale — il vicepresidente dell’Azione Cattolica Luigi Gedda (1902-2000) riuscirà a fare inserire nelle liste della DC esponenti provenienti dall’Azione stessa, ma — ebbe modo di dirmelo di persona — sarà l’unica volta. Fino alla morte di Alcide De Gasperi (1881-1954), la DC sarà un partito di notabili strettamente legato ma anche parzialmente dipendente, cioè in qualche modo controllato, dal mondo cattolico. Il trionfo elettorale del 18 aprile sarebbe stato impensabile senza l’Azione Cattolica, le parrocchie, gli interventi di Papa Pio XII (1939-1958) e dell’episcopato, in particolare senza l’apporto dei Comitati Civici, una sorta di «sindacato di controllo» dell’operato della DC per conto dei cattolici (30): la fondazione dei Comitati Civici era stata infatti richiesta da Pio XII a Gedda come strumento di pressione e di mobilitazione per portare i cattolici alle urne, in quanto non si fidava della DC, né della sua capacità organizzativa né, ancora, del suo effettivo anti-comunismo.
Fra i Comitati Civici e la DC si aprì un conflitto, perché il partito si sentiva «controllato» e costantemente sotto giudizio, ma, d’altra parte, questo era uno dei compiti per cui erano nati i Comitati Civici. Secondo Gedda, essi vennero in seguito «silenziati» per iniziativa della sinistra della DC guidata da Giuseppe Dossetti, che era appoggiata da una parte della gerarchia ecclesiastica. Neppure De Gasperi li difese, anzi entrò in duro contrasto con essi soprattutto in occasione delle elezioni amministrative di Roma nel 1952, quando fallì la cosiddetta «operazione Sturzo» — che prevedeva la costituzione di un fronte anti-comunista senza partiti e aveva l’appoggio del Pontefice (31).
Il partito di riferimento
Dopo il 1954, sotto la guida di Fanfani, la DC si trasformò in partito autonomo, che non dipendeva più direttamente dal mondo cattolico per quanto riguardava le «cinghie di trasmissione» fra consenso e programmi politici, anche se aveva sempre bisogno del voto dei cattolici. In Italia non riuscì mai a nascere un partito conservatore alternativo alla DC, che è stato un «partito di centro che guarda a sinistra», come la definì lo stesso De Gasperi (32), e ciò nonostante che alcuni influenti cardinali, come Alfredo Ottaviani (1890-1979) — prefetto del Sant’Uffizio — e Domenico Tardini (1888-1958), sembra fossero favorevoli a un pluralismo politico che offrisse ai cattolici almeno due alternative (33).
Lo stesso Pio XII temeva altresì che, in assenza di un partito di maggioranza relativa, il mandato di formare un governo sarebbe passato al Partito Comunista Italiano e voleva quindi l’unità dei cattolici, compresi i conservatori, nella DC.
«Tangentopoli»
La DC rimase dunque il partito di riferimento dei cattolici durante la Prima Repubblica e rimase anche il partito di maggioranza relativa nella stagione del centrismo, del centro-sinistra e negli anni del «compromesso storico» (1976-1979) (34). Le cose cambiarono negli Anni Ottanta, quando ci furono i primi governi non a guida DC, presieduti il primo da Giovanni Spadolini (1925-1994), dal 1981 al 1982, e gli altri due da Bettino Craxi (1934-2000), fra il 1983 e il 1987. Il cambiamento più radicale avverrà soprattutto dopo il 1989 quando, in seguito alla fine dell’Unione Sovietica (URSS) nel 1991 e alle inchieste giudiziarie sulla corruzione dei partiti — dette di «Tangentopoli», termine ingiurioso riservato a Milano dalla stampa —, tutta la vecchia classe politica, in particolare socialisti e democratici-cristiani, venne spazzata via.
Cambiò allora anche il sistema elettorale, sulla spinta di un referendum popolare promosso dal parlamentare democristiano Mario Segni con il quale, il 18 aprile 1993, gli italiani votarono a maggioranza per la trasformazione del sistema elettorale proporzionale in uno maggioritario; da qui nacque la «legge Mattarella» che introdusse un sistema misto — maggioritario per la scelta del 75 per cento dei parlamentari e proporzionale per i restanti —, seppure con modalità diverse fra Camera e Senato.
Il tempo dell’alternanza Berlusconi-Prodi
In questo nuovo contesto successivo alla fine della DC nel mondo cattolico maturò un nuovo atteggiamento riguardo alla politica italiana. Con l’elezione al soglio pontificio, nel conclave del 1978, dell’arcivescovo di Cracovia, in Polonia, il card. Karol Wojtyła, con il nome di Giovanni Paolo II, la Chiesa italiana tornò progressivamente ad assumere un’attenzione diretta alla vita pubblica, nella prospettiva di quella nuova evangelizzazione, che divenne il Leitmotiv del pontificato ed ebbe uno snodo importante nel discorso che il Papa fece a Loreto (Ancona) nel 1985 al II Convegno Ecclesiale dei cattolici italiani — dopo il primo, tenutosi a Roma nel 1976 (35). In quell’occasione, il Papa invitò i cattolici italiani a intervenire direttamente nella vita pubblica, superando le mediazioni di partito, per mirare a costruire «una società a misura d’uomo e secondo il piano di Dio» (36). I cattolici non avrebbero più dovuto insistere su quella «scelta religiosa» che negli Anni Sessanta aveva caratterizzato l’Azione Cattolica dopo il periodo della presidenza di Gedda (1952-1959), considerato troppo impegnato nell’anti-comunismo, una scelta che aveva provocato, da un lato, il disimpegno politico dei cattolici e, dall’altro, l’afflusso di molti dirigenti dell’associazionismo nelle file della DC o di altri partiti di sinistra (37).
Il grande rivolgimento politico degli Anni Novanta sarà determinato dal fatto che, dopo la rimozione del Muro di Berlino nel 1989, nel 1991 era venuta meno l’URSS e con essa era finita la divisione del mondo in due blocchi contrapposti, il mondo libero e quello socialcomunista. La «grande diga» — sebbene piena di falle — democristiana non era più necessaria e il partito poté essere oggetto dell’inchiesta giudiziaria che ne decreterà la fine. Il Partito Comunista Italiano, invece, cambiò repentinamente la propria denominazione e la propria immagine, trasformandosi nel 1991 nel Partito Democratico della Sinistra, sempre guidato dal «vecchio» segretario Achille Occhetto: un partito nuovo, che rinunciava al nome storico e all’ideologia marxista-leninista di riferimento, per diventare quello che sarà definito un «partito radicale di massa» (38). Anche la DC scomparve, in conseguenza di una serie di scissioni che manifestarono l’eterogeneità delle diverse componenti che l’avevano caratterizzata per decenni. Da una di queste — e si trattava della prima scissione da destra nella storia della DC — nacque il Centro Cristiano Democratico (CCD), guidato da Pier Ferdinando Casini, che entrò nella coalizione di centro-destra, costituitasi nel frattempo sotto la guida di Silvio Berlusconi, la quale vincerà le elezioni politiche del 1994. La DC si trasformerà anche nel Partito Popolare Italiano, che riesumava la vecchia sigla di don Sturzo: guidato da Mino Martinazzoli (1931-2011), il nuovo partito sceglierà di presentarsi alle elezioni del 1994 come «terzo polo», alternativo sia al centro-sinistra a trazione post-comunista, sia al centro-destra guidato da Berlusconi. L’esperimento risultò un fallimento, mostrando che il sistema politico, in conseguenza del nuovo sistema elettorale parzialmente maggioritario, era stato pensato perché si confrontassero solo due coalizioni, mentre i «terzi poli» di centro erano destinati alla sconfitta. Successivamente, la presenza di partiti cattolici conobbe una breve stagione di confusione, con la nascita e la morte repentina di diverse sigle, finché i cattolici impegnati in politica si collocarono come singoli all’interno delle due coalizioni che ebbero come leader ancora Berlusconi per il centro-destra e il cattolico di scuola dossettiana Romano Prodi per il centro-sinistra, a capo di una coalizione, composta da tutte le forze «progressiste», denominata «l’Ulivo».
Ma il vero protagonista della presenza pubblica, culturale e non solo politica, dei cattolici italiani fu il presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), il cardinale Camillo Ruini (39). Segretario della CEI dal 1986 e poi suo presidente dal 1991 al 2007, mons. Ruini durante questi anni ha guidato il tentativo del mondo cattolico italiano di trovare strade attraverso le quali far sì che la fede cristiana incidesse sulla cultura del Paese, opponendosi al secolarismo e assecondando la nuova evangelizzazione auspicata dal magistero dei Pontefici dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II.
Sul piano politico, che qui particolarmente interessa, la strategia del presidente della CEI si urtò con quella del «cattolico adulto» Prodi e trovò invece maggiore udienza nelle fila del centro-destra, molto più sensibile ad accogliere nel proprio programma politico quei princìpi che Papa Benedetto XVI (2005-2013) definirà «non negoziabili», o quanto meno a non favorire derive laicistiche in tema di vita innocente, famiglia e libertà di educazione. Il risultato, sul piano politico, fu che all’Italia vennero risparmiate leggi come quella sulla cosiddetta «omofobia», sulla legalizzazione dell’eutanasia, sull’allargamento del presunto «diritto» d’aborto. Il clima culturale sembrò cambiare rispetto all’epoca dominata dalle ideologie, permettendo a temi e a movimenti sia ecclesiali sia politici non progressisti di crescere e d’influenzare l’opinione pubblica. In realtà, nonostante lo straordinario magistero di Papa san Giovanni Paolo II e di Papa Benedetto XVI, l’impulso verso una nuova evangelizzazione e l’intelligente tentativo di mons. Ruini di adattare quell’insegnamento alla società italiana, nei decenni successivi il processo di secolarizzazione non si è fermato.
Negli anni del cosiddetto «berlusconismo» (40) saranno eletti all’interno del centro-destra alcuni parlamentari esplicitamente cattolici che si batteranno con successo per bloccare o rallentare leggi particolarmente ostili ai «princìpi non negoziabili», come quelle indicate, che invece in quello stesso periodo venivano introdotte nella maggior parte dei Paesi europei.
Tutto ciò verrà meno con il governo guidato da Matteo Renzi e durato dal 22 febbraio 2014 al 12 dicembre 2016, durante il quale viene approvata la legge n. 76 del 20 maggio, che modifica il diritto di famiglia introducendo le unioni civili fra persone dello stesso sesso, nonostante le grandi manifestazioni popolari organizzate nei Family Day del giugno del 2015 e del gennaio del 2016. La legge n. 219 del 22 dicembre 2017, sul cosiddetto «fine-vita», viene approvata sempre da un governo di centro-sinistra, questa volta presieduto da Paolo Gentiloni, succeduto a Renzi, che governerà fino al 1° giugno 2018: la legge sancisce per il malato la possibilità di rifiutare le cure, anche quelle cosiddette «salva-vita», e di fatto introduce il «diritto» al suicidio.
La scena politica era cambiata con le elezioni del 2013, quando il MoVimento 5Stelle aveva ottenuto quasi nove milioni di voti alla Camera pari al 25 per cento dei votanti, diventando la seconda lista maggiormente votata. Di fatto, con la nascita di un terzo polo che si autodefiniva un non-partito, un movimento post-ideologico né di destra né di sinistra, finiva il bipolarismo.
E oggi?
La presenza di un partito di ispirazione cristiana di maggioranza relativa come la DC non ha impedito l’approvazione di leggi particolarmente contrarie al diritto naturale, quali quelle sul divorzio (1970) e sull’aborto (1978). Paradossalmente le cose sono andate meglio negli anni successivi al 1993 con il sistema maggioritario e il ritorno della Chiesa a un’azione da protagonista nella vita pubblica, come esplicitamente richiesto da san Giovanni Paolo II in occasione del secondo convegno nazionale della Chiesa italiana a Loreto, nel 1985, abbandonando ogni forma di delega ai partiti, che andavano «influenzati» e non «delegati». I cattolici italiani sono diventati una minoranza, come si capì già dai risultati del referendum del 1974 contro il divorzio: oggi lo sono ancora di più.
Ogniqualvolta si affronta il tema della loro partecipazione alle elezioni bisogna tenere presente questo dato: secondo lo studioso Franco Garelli, essi rappresentano circa il 20 per cento della popolazione (41) — i praticanti regolari di ogni domenica — e sono divisi almeno in due aree per quanto riguarda le scelte politiche.
Quindi, quando si parla di costituire un partito, un contenitore politico o qualsiasi altra cosa, che faccia valere il rispetto di vita, famiglia e libertà di educazione a livello politico, si sta parlando di una formazione che potrebbe raccogliere il consenso di un 10 per cento della popolazione — la metà dei cattolici praticanti — e di pochi altri disponibili a difendere questi princìpi pure partendo da posizioni culturali diverse.
Una minoranza deve anzitutto preoccuparsi di sopravvivere, custodendo la memoria della propria identità, e quindi «uscire» dal proprio perimetro, «contagiare» gli altri, cioè essenzialmente svolgere due azioni: coltivare la propria identità e portarla in partibus infidelium. Sul piano politico, deve dare il proprio contributo alla realizzazione del bene comune difendendo e diffondendo quei princìpi senza i quali non c’è bene comune: princìpi che vanno dalla sacralità della vita, alla centralità della famiglia, dalla libertà religiosa e di educazione all’attenzione speciale alle categorie più in difficoltà; in generale si tratta di portare attenzione all’insieme dei princìpi contenuti nella dottrina sociale della Chiesa, confrontandoli con la situazione storica in cui si vuole operare per evidenziare le priorità.
La Chiesa in Europa ha già conosciuto un periodo simile, dopo la fine delle persecuzioni, durante i secoli IV e V, alla fine dell’età antica, di fronte alle invasioni barbariche e alle dinamiche delle prime comunità cristiane dopo l’Editto di Milano, nel 313, che aveva dato a queste ultime la libertà di professare la fede. Le comunità cristiane riuscirono a sopravvivere prima e a «contagiare» poi i pagani. Fu questo il tempo della prima evangelizzazione che permise alla fede cristiana di penetrare anche nelle classi dirigenti e quindi di raggiungere le istituzioni e le massime cariche dell’impero, imperatori inclusi. Con il senno di poi, furono commessi alcuni errori; con il senno di poi, non sempre venne rispettata la libertà religiosa — quella delle altre comunità religiose — e i costumi cambiarono molto lentamente. Tuttavia, scrisse Leone XIII, «vi fu un tempo in cui la filosofia del Vangelo governava la società: allora la forza della sapienza cristiana e lo spirito divino erano penetrati nelle leggi, nelle istituzioni, nei costumi dei popoli, in ogni ordine e settore dello Stato, quando la religione fondata da Gesù Cristo, collocata stabilmente a livello di dignità che le competeva, ovunque prosperava, col favore dei Principi e sotto la legittima tutela dei magistrati; quando sacerdozio e impero procedevano concordi e li univa un fausto vincolo di amichevoli e scambievoli servigi» (42). Epoca non priva di ombre, di comportamenti scandalosi, ma anche di una concordia sociale che poi verrà meno con tutte le conseguenze.
Credo che oggi la cosa più difficile sia trovare il giusto atteggiamento, sia sul piano dell’apostolato culturale, sia sul versante politico: siamo infatti di fronte a un «mondo in frantumi» e composto da persone ferite, alle quali serve anzitutto qualcuno che sappia piegarsi su di esse per aiutarle a riconoscere dove stanno la verità e la salvezza. Occorre cominciare dalle persone così come sono, non come vorremmo che fossero, individuando in ciascuna un punto di partenza, un «coagulo», da cui partire, proponendo loro la verità che salva in un linguaggio comprensibile e attraverso la propria testimonianza di vita: secondo Papa san Paolo VI, «è assolutamente necessario metterci di fronte ad un patrimonio di fede che la Chiesa ha il dovere di preservare nella sua purezza intangibile, ma anche di presentare agli uomini del nostro tempo, per quanto possibile, in modo comprensibile e persuasivo» (43).
Note:
1) San Giovanni Paolo II (1978-2005), Discorso al II Convegno della Chiesa italiana, Loreto, dell’11-4-1985.
2) Cfr. Gabrio Lombardi (1913-1994), Persecuzioni, laicità, libertà religiosa. Dall’Editto di Milano alla «Dignitatis humanae», Studium, Roma 1991.
3) Cfr. Hartmut Leppin, Teodosio il Grande, trad. it., Salerno, Roma 2008. Su quel periodo cfr. il bel libro di Marta Sordi (1925-2009), L’impero romano-cristiano al tempo di Ambrogio, Medusa, Milano 2000, e più in generale Eadem, I cristiani e l’impero romano, nuova ed. riveduta e aggiornata, Jaca Book, Milano 2011.
4) San Paolo VI, Discorso in occasione dell’udienza generale, del 24-9-1969.
5) Una descrizione dell’ultima versione di tale compromesso, quello con il comunismo italiano, è ben descritta in Giovanni Cantoni (1938-2020), La «lezione italiana». Premesse, manovre e riflessi della politica di «compromesso storico» sulla soglia dell’Italia rossa, Edizioni di «Cristianità», Piacenza 1980, cap. V, Sul «compromesso culturale», pp. 165-220.
6) Cfr. Marie-Dominique Chenu e Mauro Pesce, La fine dell’era costantiniana, trad. it., Morcelliana, Brescia 2013.
7) Ibid., p. 20.
8) Ibid., p. 22.
9) Ibid., p. 25.
10) Ibid., p. 33.
11) G. Cantoni, Prefazione a Mircea Eliade (1907-1986), Mito e realtà, trad. it., Borla, Torino 1966, pp. 7-19 (p. 9).
12) Ibidem.
13) Ibid., p. 13.
14) Joseph Ratzinger, I nuovi pagani e la Chiesa, 1959, trad. it., in Cristianità, anno XLV, n. 384, marzo-aprile 2017, pp. 29-40.
15) Benedetto XVI, Ultime conversazioni, a cura di Peter Seewald, trad. it., Garzanti, Milano 2016, p. 218.
16) Cfr. Cesare Marongiu Buonaiuti (1954-2003), Non expedit. Storia di una politica, Giuffré, Milano 1971; Maria Franca Mellano, Cattolici e voto politico in Italia, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1982; Saretta Marotta, Il «non expedit», in Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato, 1861-2011, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2011, pp. 215-235; Pasquale Bellu S.D.B. (1928-2008), I cattolici alle urne. Chiesa e partecipazione politica in Italia dall’Unità al Patto Gentiloni, Della Torre, Cagliari 1977.
17) Cfr. Oscar Sanguinetti, Cattolici e Risorgimento, Appunti per una biografia di don Giacomo Margotti, prefazione di Marco Invernizzi, D’Ettoris, Crotone 2012.
18) Cfr. M. Invernizzi, I cattolici contro l’unità d’Italia? L’Opera dei Congressi (1874-1904), Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 2002.
19) Cfr. Giuseppe Ignesti, Il tentativo conciliatorista del 1878-1879. Le riunioni romane di Casa Campiello, Ave, Roma 1988.
20) Cfr. don Paolo De Tőth (1881-1965), Il soldato di Cristo. Stanislao Medolago Albani. Profilo biografico fino al 1904, a cura di Renato Borsotti, Publimedia, San Vendemiano (Treviso) 2019.
21) Cfr. il sito ufficiale del Comitato di canonizzazione, nel sito web <http://www.giuseppetoniolo.net>. Gl’indirizzi Internet dell’intero articolo sono stati consultati il 15-9-2021).
22) Cfr. M. Invernizzi, L’Unione Elettorale Cattolica Italiana 1906-1919. Un modello di impegno politico unitario dei cattolici, Edizioni di «Cristianità», Piacenza 1993.
23) Cfr. Alfredo Canavero, Milano e la crisi di fine secolo (1896-1900), Sugarco, Milano 1976 (n. ed., UNICOPLI, Milano 1998).
24) Cfr. George [Gerhard] Lachmann Mosse (1918-1999), La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), 1975, trad. it., il Mulino, Bologna 2015.
25) Utile, sebbene ovviamente orientata ideologicamente, la lettura di Piero Fassino, Dalla rivoluzione alla democrazia. Il cammino del Partito comunista italiano 1921-1991, Donzelli, Roma 2021.
26) Cfr. il sito web dell’Istituto Luigi Sturzo, all’indirizzo <www.sturzo.it>.
27) Cfr. Agostino Gemelli e Francesco Olgiati, Il Programma del PPI come non è e come dovrebbe essere, Vita e Pensiero, Milano 1919.
28) Su una di queste figure cfr. il mio Filippo Crispolti (1857-1942), in Cristianità, anno XLVIII, n. 403, maggio-giugno 2020, pp. 63-69.
29) Pio XI, Lettera enciclica «Non abbiamo bisogno» sull’Azione Cattolica Italiana, del 29-6-1931.
30) Cfr. il mio Luigi Gedda e il movimento cattolico in Italia, prefazione di G. Cantoni, Sugarco, Milano 2012, e 18 aprile 1948. L’anomalia italiana, a mia cura, Ares, Milano 2007.
31) Cfr. Augusto d’Angelo, De Gasperi, le Destre e l’«operazione Sturzo», Studium, Roma 2004.
32) Cfr. Piero Craveri, De Gasperi, Alcide, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 36 (1988), disponibile nel sito web <www.treccani.it>. Dello stesso autore cfr. anche De Gasperi, il Mulino, Bologna 2006.
33) Cfr. Andrea Riccardi, Il «partito romano». Politica italiana, Chiesa cattolica e Curia romana da Pio XII a Paolo VI, Morcelliana, Brescia 2007; e Giuseppe Brienza, Identità cattolica e anticomunismo nell’Italia del dopoguerra. La figura e l’opera di mons. Roberto Ronca, D’Ettoris Editori, Crotone 2008.
34) Sul compromesso storico cfr. G. Cantoni, La «lezione italiana». Premesse, manovre e riflessi della politica di «compromesso storico» sulla soglia dell’Italia rossa, cit., in cui il fondatore di Alleanza Cattolica accompagna e commenta in diretta, con puntuali interventi pubblicati su Cristianità, le tappe di quel ciclo storico che comincia con la caduta del presidente socialista del Cile Salvador Allende Gossens (1908-1973) e le conseguenti riflessioni del segretario del PCI Enrico Berlinguer (1922-1984) e si conclude con la «tregua» che ne segna la fine, dopo le elezioni politiche del 3 giugno 1979.
35) Sui convegni della Chiesa italiana, cfr. Francesco Bonini, Chiesa cattolica e Italia contemporanea. I Convegni ecclesiali (1976-2015), Studium, Roma 2020.
36) Giovanni Paolo II, Discorso al convegno della Chiesa italiana, cit.
37) Cfr. il mio Appunti sulla storia e sul «progetto» dei «cattolici democratici», in Cristianità, anno XVI, n. 156-157, aprile-maggio 1988, pp. 5-9.
38) Cfr. il mio «Dal Pci al Pds»: le tappe e i contenuti di una metamorfosi rivoluzionaria, ibid., anno XXII, n. 225-226, gennaio-febbraio 1994, pp. 5-9.
39) Per valutare l’influenza del card. Ruini sulla politica italiana cfr. le interviste rilasciate a importanti quotidiani nel periodo in esame, raccolte, per esempio, in C. Ruini, Conversazioni sulla fede e sull’Italia, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2021. Sul periodo in generale, accanto alle numerose ricostruzioni storiografiche, può essere utile leggere Gaetano Quagliariello, Cattolici, pacifisti, teocon. Chiesa e politica dopo la caduta del Muro, Mondadori, Milano 2006, e — sebbene su posizioni molto distanti — Paolo Pombeni in dialogo con Michele Marchi, La politica dei cattolici dal Risorgimento a oggi, Città Nuova, Roma 2015, pp. 175-196. Per una critica ai teocon da una posizione cattolica ricca di spunti di riflessione — anche se non sempre condivisibile — cfr. Massimo Borghesi, Francesco. La Chiesa tra ideologia teocon e «ospedale da campo», Jaca Book, Milano 2021.
40) Cfr. Giovanni Orsina, Il berlusconismo nella storia d’Italia, Marsilio, Venezia 2013.
41) Cfr. Franco Garelli, Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio, il Mulino, Bologna 2020.
42) Leone XIII, Lettera enciclica «Immortale Dei» sulla costituzione cristiana degli Stati, del 1°-11-1885. Celebri sono le parole di sant’Ivo di Chartres (1040-1115) rivolte al Pontefice Pasquale II (1099-1118), che lo stesso Leone XIII riprende nella sua enciclica: «Sa la Paternità vostra che, quando il regno e il sacerdozio sono fra loro concordi, il mondo è ben governato, fiorisce e fruttifica la Chiesa; ma quando sono discordanti, non solo le piccole cose non crescono, ma pure le massime periscono miseramente» (cit. in Mario Casella, Per una storia dei rapporti tra il fascismo e i vescovi italiani (1929-1943), parte prima, in Ricerche di storia sociale e religiosa, anno XXXVI, n. 71, gennaio-giugno 2007, pp. 7-68 [p. 15, nota 30]).
43) San Paolo VI, Esortazione apostolica «Evangelii nuntiandi» circa l’evangelizzazione nel mondo contemporaneo, dell’8-12-1975.