La sentenza Dobbs vs Jackson è molto più di una decisione in tema di aborto. E’ l’istantanea di un mondo in movimento; è la prova che il sacrificio culturale e pre-politico non è mai vano.
di Domenico Airoma
La sentenza Dobbs vs Jackson della Corte Suprema degli Stati Uniti è molto più che il ribaltamento della precedente pronunzia Roe vs Wade. E’ la prova che nulla mai è perduto per chi combatte la buona battaglia per la verità e la vita.
Partiamo dalle parti in causa. Questa volta non è un’associazione abortista che, utilizzando la vicenda di Norma Mc Corvey (Jane Roe, per il processo), agisce contro la parte pubblica, rappresentata dal procuratore distrettuale del Texas, Henry Wade. Cinquant’anni dopo, è un pubblico ufficiale che assume l’iniziativa per difendere una legge votata dal parlamento del Mississippi che le organizzazioni abortiste intendono bloccare. La veste processuale dice molto, indica la direzione, il senso: quando sono in gioco questioni fondamentali, “chi agisce contro chi”, è ben più di un dato formale. Nella causa Dobbs vs Jackson chi cerca di impedire che il mutato sentire in tema di vita diventi legge è proprio quel mondo abortista che oggi fa i conti con la prima severa sconfitta. E di questo vi è traccia evidente nella stessa reazione di molti maître à penser, accorsi a dar man forte a quel mondo in difficoltà; una reazione incentrata più sugli attacchi ai giudici che sugli argomenti da questi ultimi proposti, quasi a voler confinare la sentenza tra le parentesi di un incidente di percorso; e però, consapevoli, in cuor loro, che quel che rischia di mutare non è solo il comune sentire in tema di aborto, ma forse qualcosa di più profondo, che riguarda le stesse radici antropologiche del consorzio civile.
Dobbs vs Jackson è l’istantanea di uno scenario in movimento, dove quel che sta cambiando va ben oltre il recinto privato di qualche piccola comunità di pro life.
Si tratta di un movimento che viene da lontano.
Thomas Dobbs non è il sostenitore di una legge imposta con un colpo di mano né con la forza. Non è un caso se nel Mississippi, come in molti altri Stati americani, si sia giunti ad approvare leggi restrittive in tema di aborto. Esse rappresentano l’esito di un lungo lavoro culturale e sociale, fatto di persone che hanno aiutato le donne in difficoltà a non abortire e che hanno contribuito a cambiare la mentalità corrente; un’azione pensata ed organizzata, fatta di coraggiosa denuncia del furore ideologico sotteso alla cultura di morte, di ferma indisponibilità a compromessi sulla vita, ma anche di paziente ascolto e accompagnamento delle donne, spesso vittime del peso di una scelta più imposta che realmente voluta.
Un’azione pre-politica che ha visto nell’esito propriamente politico solo lo sbocco naturale di un consenso, sempre più diffuso, all’introduzione di norme maggiormente rispettose della vita nascente.
Non è un caso, dunque, che questa volta sia un organo statale a difendere una legge che la maggioranza sente come giusta.
E non è neppure un caso che ci sia una Corte Suprema disposta, a larga maggioranza, ad affrontare la questione senza pregiudizi ideologici.
I giudici che hanno deciso che era giunto il tempo per mettere da parte la Roe vs Wade non lo hanno fatto per obbedire ad un diktat politico di chi li aveva nominati e che ora è ben lontano dalla scena pubblica. Lo hanno fatto perché hanno ritenuto che il compito del giudice è quello non di creare diritti, seguendo la visione dell’uomo propria o dei gruppi dominanti; ma quella di obbedire alla carta costituzionale, dove sono scritti quei diritti che sono stati ritenuti fondanti il consorzio civile, e dove non vi è scritto che vi è il diritto di abortire. Quei giudici hanno dato finalmente dignità e veste processuale anche a chi finora non aveva alcuna voce: il bimbo nel grembo materno. L’indifeso per eccellenza ora non è più un oggetto di diritti, una res, ma uno di quei soggetti per i quali i padri costituenti americani hanno voluto che fosse garantito il diritto alla felicità.
E non sarà neppure un caso quando, anche in questa nostra parte di un Occidente corrotto e malato di una falsa e malsana concezione di libertà, si giungerà a comprendere che non ogni scelta è rispettosa della verità sull’uomo, soprattutto quando si sopprime una vita innocente.
Sarà l’esito di un impegno quotidiano e di un sacrificio umile: di chi si sarà prodigato per mostrare la bellezza della vita nascente, di chi sarà stato al fianco delle madri lasciate sole, di chi avrà operato per cambiare le leggi ingiuste che fanno dei bambini degli scarti della società, soprattutto se disabili o malformati, di chi avrà fatto in modo che i giuristi tornassero ad essere innamorati della vera funzione del diritto, quella di difendere i più deboli, di chi sarà sceso in piazza per manifestare che un altro mondo è possibile, perché questo che sta morendo ha lasciato dietro di sé solo sangue e disperazione.
E mi piace pensare che avverrà ancora una volta nella festa del Sacro Cuore di Gesù, quello un tempo cucito sul petto dei nobili contadini della Vandea, oggi prezioso sostegno di chi prega perché la notte della menzogna lasci presto il posto all’alba della nuova Cristianità.
Sabato, 25 giugno 2022