Giovanni Cantoni, Cristianità n. 70 (1981)
La drammatica situazione polacca sta purtroppo diventando un mito e un pericoloso modello ideale proposto, maliziosamente o involontariamente, ai cattolici occidentali. La necessità, al contrario, che questa tragedia rimanga tale nel giudizio di chi ancora non conosce la persecuzione, violenta o subdola, dei regimi comunisti.
“Il caso polacco”: una tragedia da circoscrivere
«Che cosa può fare l’Occidente per aiutare la Polonia?»
Sono trascorsi poco più di sei mesi dall’esordio di quello che si è ormai convenuto di chiamare l’«agosto polacco». Poiché tale tempo e tale fatto non accennano assolutamente a chiudersi e a definirsi, ma sono piuttosto alimentati e arricchiti dalla cronaca con sempre nuovi elementi, più o meno drammatici, mi pare si faccia urgente e indilazionabile la necessità di parlarne, prima che divengano un tempo e un fatto quasi mitici.
È noto, infatti, quanto sia straordinariamente difficile trattare di un mito, al punto che, nella maggior parte dei casi, pare opportuno limitarsi a descriverlo piuttosto che a demolirlo, pena l’aggressione da parte dei fan del mito stesso, tra i quali, talora, si ascrivono anche i suoi protagonisti meno critici, quelli che, essendosi per avventura trovati nel luogo in cui accadeva un fatto rilevante, si sono lasciati portare, trascinare quasi, a credere di esserne stati la causa.
L’«agosto polacco» è già un mito? Una risposta totalmente affermativa sarebbe azzardata, ma credo sia pienamente rispondente al vero sostenere che, se questo brandello di cronaca polacca non è già un mito nel senso più completo del termine, è pero, e certamente, sulla via di diventarlo.
Il procedimento di mitizzazione cui faccio riferimento, consiste nell’elevare un fatto a livello di modello, approfittando, maliziosamente oppure involontariamente, della carica emotiva che contiene in sé e che suscita e induce anche in chi ne è semplice spettatore.
Nel caso in questione, il fatto è costituito da un precario modus vivendi tra il governo comunista polacco, la Chiesa in Polonia e una espressione rilevante della società polacca. A tale modus vivendi – a causa e in forza della drammaticità di alcuni suoi momenti, della tipicità di molti suoi protagonisti nominatamente noti oppure anonimi, e del loro essere polacchi, come il Pontefice regnante – viene da alcuni attribuita, artatamente e surrettiziamente, una esemplarità positiva, cioè un carattere di modello, che è oggettivamente ben lungi dal possedere.
Il processo di trasformazione del «caso polacco» in «modello polacco» – cioè il procedimento attraverso il quale lo status tutt’altro che idilliaco, per dire il meno, di una nazione cattolica oltre la cortina di ferro viene elevato a mito di una «terza via» non più ipotetica e fantasiosa, e quindi proposto come ideale da perseguire – si costruisce e si rivela come un processo di de-realizzazione, che fa perdere inavvertitamente contatto con tutti gli elementi di causa e con tutti i contorni concreti del fenomeno storico da cui parte e di cui, sostanzialmente, abusa.
Di fronte allo spettacolo straordinario – sarei tentato di dire «miracoloso» – di una fanciulla che dondola su un baratro, provvidenzialmente trattenuta dalla sua lunga chioma intrecciata imprevedibilmente alla vegetazione che sul baratro cresce a sbalzo, è facile rimanere attoniti e quasi affascinati dalla scena inconsueta, mentre non è poco difficile introdurre fin da subito considerazioni ermeneutiche, e quindi salutari, relative al soggetto malintenzionato che ha fatto precipitare la fanciulla in questione, alla resistenza dei capelli e del cuoio capelluto, nonché alla robustezza del fogliame, senza essere immediatamente tacciati di eccessiva prosaicità, di rottura dell’incantesimo; e più facile è, paradossalmente, promuovere la costituzione di club di fanciulle intonse, che si aggirano attraverso forre nelle quali essere inseguite da malintenzionati, e quindi gettate o costrette a gettarsi nel vuoto a dondolare come Assalonne con le chiome intrecciate ai rami di un albero!
Se a tanto non siamo – non lo nego -, credo però che si possa in tranquilla coscienza dire che siamo almeno su questa strada. Le immagini che ci offrono i mass media, gli operai con i volti più contadini che metropolitani; questi stessi operai che assistono alla celebrazione della messa; il legame non irrilevante tra la gerarchia ecclesiastica e il popolo polacco; la comprensibilissima ansia del Pontefice regnante – contemporaneamente carnale e universale, dettata cioè sia dall’amore di patria che dalla sollecitudine per il gregge affidato a Pietro -, sembrano avere Forza sufficiente, se astratti dal loro contesto e fatti vivere di una vita artificiale, per far dimenticare le cause reali del dramma che si viene svolgendo sotto gli occhi del mondo, e per trasformare un atteggiamento di umana e cristiana compassione e solidarietà in un masochistico desiderio di vivere la stessa tragedia piuttosto che di aiutare chi la vive e la soffre a liberarsene al più presto.
Per svuotare il «mito polacco» dalla possibilità di esercitare una influenza negativa, è indispensabile ricordare e far ricordare con continuità e fermezza:
1. che i nostri fratelli polacchi vivono da più di trent’anni sotto il regime socialcomunista;
2. che contro tale regime si sono rivoltati nel passato e si rivoltano oggi. Infatti, quali che siano le loro stesse dichiarazioni e il tenore di tali dichiarazioni, in proposito parlano i fatti, che forzano a interpretarle come provenienti da carcerati, e quindi inevitabilmente condizionate, sia dalla censura diretta che da quella, più insidiosa perché indiretta, meglio nota come autocensura;
3. che lo stesso comportamento tenuto dalla gran parte della gerarchia cattolica polacca – qualunque sia la valutazione che di esso si pensi di poter dare, dal punto di vista politico-morale o semplicemente politico-tecnico – va considerato un comportamento condizionato dal regime in cui è espresso e quindi, in quanto tale, denuncia una condizione piuttosto che enunciare una regola;
4. che, perciò, non si deve assolutamente imitare, in nulla, il «caso polacco» – se non, eventualmente, nei suoi elementi accidentalmente imitabili -, non più di qualsiasi tragedia;
5. che, di conseguenza, non solo non si deve, ma non è necessario favorire la instaurazione di un regime socialcomunista per poi chiedere la libertà di associazione sindacale, dal momento che in Occidente tale libertà già esiste, sia a livello di uso che a quello di abuso; così come gli operai possono andare a messa anche di qua dalla cortina di ferro, anzi, vi andrebbero certamente in una percentuale maggiore se venissero piuttosto evangelizzati che sindacalizzati, ecc.
Insomma, mi pare indispensabile impedire che il «caso polacco», la tragedia polacca, venga trasformato nel «modello polacco», portando acqua alla realizzazione di tale tragedia anche fuori della Polonia, per il fatto che tanti buoni cattolici – scarsamente critici – finiscono per idealizzarlo, magari per far piacere al Papa, imitando la sua Patria!
A questo punto sono ormai moralmente certo di essermi attirato gli strali dei fan del crescente «mito polacco», e mi affretto a parare almeno un poco dei colpi, coprendomi con felici considerazioni di Stefan Kurowski, un economista polacco che le esprime sulla rivista polacca Kultura, edita a Parigi dalla omonima casa editrice (1).
Dopo essersi chiesto preliminarmente «che cosa può fare l’Occidente per aiutare la Polonia», esclude implicitamente che tale aiuto possa consistere nell’imitarla e invita a ricercare la modalità di tale aiuto «nel campo economico, in cui il mondo libero, nonostante le sue debolezze e lo sfavorevole momento, è più potente del blocco sovietico.
«Per cominciare – prosegue – l’Occidente può (e dovrebbe) cessare di concedere al governo polacco crediti, che oggi servono unicamente a puntellare l’attuale sistema economico. L’esperienza dello scorso decennio dimostra che i 22 miliardi di dollari, coi quali s’è alimentata l’economia polacca, non hanno arrecato nessun beneficio al paese: al contrario, hanno contribuito ad aggravare le aberrazioni strutturali e ad alimentare i funzionamenti antieconomici basati sugli sperperi. Insomma, hanno permesso di perpetuare il sistema, sottraendolo all’esigenza di riforme. Si è giunti al punto che si è potuto mettere mano a delle «antiriforme», consistenti in un’esasperazione della centralizzazione e in una politica di incoraggiamento della collettivizzazione dell’agricoltura. Questi 22 miliardi di dollari sono dunque stati, di fatto, un premio per il partito comunista al potere e per un regime che, grazie al denaro occidentale, ha potuto costruire nella prima metà degli anni Settanta un’effimera e solo apparente prosperità, e vantare una fantomatica efficienza del socialismo.
«Ma è ormai scoccata l’ora della verità. Oggi sappiamo che, con queste concessioni al socialismo i debiti hanno raggiunto un livello tale che un’intera generazione dovrebbe lavorare solo per pagarli. Ma c’è da dubitare che lo faccia. I nostri creditori dovrebbero fin d’ora prendere atto che, data la piega degli eventi, questo denaro rischia di essere inghiottito irrimediabilmente e irrevocabilmente.
«Ripeto: la prima cosa che l’Occidente può, e dovrebbe, fare per il bene della Polonia e proprio è bloccare ogni credito suscettibile di puntellare il sistema».
Continuando il suo discorso, e relativamente al passato, il nostro economista nota che «Il creditore può consentirsi un differimento dei rimborsi, ma a condizione che il debitore rafforzi la sua economia in maniera idonea a far fronte nel futuro ai propri impegni. Altrimenti la moratoria equivarrebbe all’azzeramento del debito con l’estero.
«Per di più – e l’osservazione è di un polacco vivente in Polonia e presentato come consulente economico di Solidarnosc – un condono contrasterebbe con i nostri autentici interessi politici».
Quanto al futuro, perciò, suggerisce un prestito che «sarebbe fatto, insomma, su pegno, in cambio di un piano concreto di risanamento». Si tratterebbe, cioè di «Esigere dalle autorità polacche una riforma economica globale, rapida e profonda», definita come «la cosa più importante che l’Occidente può fare per noi».
«Le riforme devono essere concrete. Per quanto concerne il funzionamento dell’economia si dovrà limitare il piano centrale al ruolo di coordinatore dei programmi pluriennali, concedere autonomia alle imprese, applicare i principi dell’economia di mercato (compreso il mercato dei capitali), aprire l’accesso alla produzione alle piccole e medie imprese individuali, e sanzionare che, nell’agricoltura, il settore privato resterà la forma predominante di proprietà».
Inoltre, «non potendo il risanamento economico prescindere da un’atmosfera sociale distesa, il programma di riforme dovrebbe inglobare il complesso dei problemi che designammo con l’espressione “diritti dell’uomo”».
Come è facile notare, la situazione polacca è tutt’altro che idilliaca e la soluzione del problema polacco si situa, anche sul terreno basso della vita economica, in pratiche che non è azzardato definire almeno come una parziale imitazione di quanto sopravvive in Occidente.
Stefan Kurowski non si nasconde – e ciò depone a favore del realismo di tutta la sua analisi e proposta – che «tale piano globale di aiuto razionale ed efficace» «non sarebbe certo facile da realizzare», in quanto «potrebbe venir gabellato come “una ingerenza negli affari interni della Polonia”. E certo sarebbe una forma di ingerenza».
Questa sua importante notazione mi fa ritornare all’inizio delle sue considerazioni, con le quali le mie si sono fatte scudo. Chiedendosi, come ricordavo, «Che cosa può fare l’Occidente per aiutare la Polonia», prima di addentrarsi nella proposta che ho riportato nelle sue grandi linee dichiara «Scartiamo le risposte auspicabili ma impossibili dato anche l’attuale torpore della coscienza storica dell’Occidente e passiamo alle reazioni che rientrano nel campo del possibile, alle iniziative in cui l’interesse dell’Occidente coincida con quello della Polonia. Utili e realisticamente auspicabili a un tempo: ne esistono?».
Arato il «campo del possibile», è nata «una ingerenza negli affari interni della Polonia»! Non so se Stefan Kurowski sia cattolico. Da cattolico credo meritino particolare attenzione quelle «risposte auspicabili» rese impossibili da «l’attuale torpore della coscienza storica dell’Occidente», cioè dalla dimenticanza della sua tradizione. Azzardo quindi una risposta secondo cui il modo più utile e realisticamente auspicabile per aiutare la Polonia – e non solo la Polonia, evidentemente – sta nel risvegliare l’Occidente dal torpore in cui giace alla consapevolezza della sua tradizione.
E chiedo alla Madonna, alla Vergine Nera di Czestochowa e alla Madonna di Fátima, di muovere in aiuto dell’Occidente – oggi così deforme, ma non totalmente morto – l’autorità grande del magistero e del ministero pontificio, perché ci liberi dal miraggio del «modello polacco» e di ogni possibile inganno tra cui annovero un non improbabile raptus nazional-socialista, e ci permetta, ritornati cattolici a ogni titolo e in ogni campo, di essere di aiuto anche alla Polonia semper fidelìs.
Giovanni Cantoni
Note:
(1) Cfr. STEFAN KUROWSKI, Se la Polonia vive di dollari, trad. it. dalla rivista polacca Kultura, edita a Parigi, in il Giornale nuovo, 31-1-1981. Tutte le citazioni sono tratte da questo articolo.