Oscar Sanguinetti, Cristianità n. 156-157 (1988)
Christine Ockrent e Alexandre de Marenches, I segreti dei potenti, con un’appendice a cura di Sandra Bonsanti e nove cartine, Longanesi, Milano 1987, pp. 280, L. 25.000
Mentre le spy-story stanno conoscendo un autentico boom, a questo genere letterario se n’è affiancato uno simile che, pur se meno interessante — in tesi — del «romanzo di spionaggio» dal punto di vista del divertissement, è indubbiamente più apprezzabile da parte di quanti vogliano conoscere meglio, e sotto un profilo per così dire «professionale», il mondo della guerra fra servizi segreti e le modalità operative, nonché le strategie di fondo, che li caratterizzano. Faccio riferimento a libri di memorie scritti da personaggi che del mondo della guerra segreta sono stati non semplici osservatori — anche se, eventualmente, osservatori professionisti — ma attori, e talora con
ruoli di primo piano.
All’interno di questo filone letterario si situa una lunga intervista rilasciata da Alexandre de Marenches, che per undici anni ha diretto lo SDECE, il Service de Documentation Exterieure et de Contre-Espionnage, cioè i servizi segreti francesi, alla giornalista Christine Ockrent, e intitolata I segreti dei potenti.
Le ragioni che rendono degno d’attenzione questo memoriale sono sostanzialmente due: anzitutto, in esso si illumina in modo significativo l’ambiente dei servizi segreti e, soprattutto, vengono messe a fuoco le modalità della guerra psicologica rivoluzionaria, condotta dall’imperialismo socialcomunista contro il mondo libero; quindi, convince l’analisi che di tale guerra fa l’intervistato, importante e per la sua autorevolezza professionale e perché figura di patriota e di anticomunista, che ha il pregio di unire a un anticomunismo «di contenuto» — cioè non solo originato dal fatto che il socialcomunismo è nemico della democrazia parlamentare, ma fondato in precise e autonome convinzioni etico-politiche — un sincero amore per la tradizione e per la cultura europee e un altrettanto grande attaccamento alla libertà — almeno a quanto di essa concretamente sopravvive —, alla cui difesa ha dedicato buona parte della propria vita.
L’intervista si articola in ventidue capitoli che — dopo una breve introduzione dell’intervistatrice (pp. 9-11) — affrontano sostanzialmente tre temi: la vita di Alexandre de Marenches (pp. 13-80), la descrizione dell’ambiente dei servizi segreti in genere e di quelli francesi in particolare (pp. 81-125), e, infine, una rassegna di episodi — più o meno scottanti — del periodo del suo mandato, relativi ai diversi scenari geopolitici nei quali si svolge la guerra segreta, illustrati da utili cartine (pp. 126-259). Chiudono il volume un post scriptum e ringraziamenti dell’intervistato (pp. 260-262), quindi un’Appendice sull’Italia, in cui la giornalista Sandra Bonsanti rivolge all’ex capo dello SDECE domande sui rapporti fra i servizi segreti francesi e quelli italiani e gli chiede di esprimere la sua opinione su alcuni fra i più clamorosi «casi» della vita politica dell’Italia contemporanea (pp. 263-277).
L‘opera non si risolve assolutamente in un arido elenco di personaggi, di avvenimenti e di opinioni: infatti, insieme a questi, l’intervistato rievoca anche gli anni forse più belli della sua vita e accompagna la narrazione con osservazioni argute e motti di spirito — espressioni di un notevole humour — e con digressioni di carattere personale, che ne mettono in risalto la figura di gentiluomo amante dei buon gusto e sensibile all’onore.
Alexandre de Marenches discende da un’antica famiglia della nobiltà francese, originaria dei Piemonte e della Franca Contea, che è stata per secoli al servizio di case regnanti europee sia in pace che in guerra. Da essa ha ereditato la nobiltà, che intende come abito a servire disinteressatamente — fino ai tributo del sangue — piuttosto che come privilegio sociale: «Sono favorevole ai privilegi — dichiara —, ma solo a condizione di meritarli giorno per giorno con una vita decorosa e possibilmente utile. […] I privilegi bisogna pagarli, bisogna servire» (p. 19); e vive l’amor di patria da appartenente a una società sovranazionale, i cui membri hanno in comune la stessa cultura, la stessa tradizione e, spesso, anche la stessa lingua. E il suo essere nobile e il suo amor di patria, fusi, sostanziano quello «spirito di servizio» che costituisce il Leitmotiv della sua esistenza.
Alexandre de Marenches nasce nel 1921 da un eroe della prima guerra mondiale — commilitone del generale Charles de Gaulle, amico di famiglia del maresciallo Philippe Pétain, e assai bene introdotto nell’establishment militare e diplomatico delle potenze vincitrici, in quanto era stato aiutante di campo del generale americano John Joseph Pershing nel 1917 — e da madre americana, «di origine francese e ugonotta» (p. 24), anch’essa appartenente all’alta società. Due anni dopo l’invasione tedesca della Francia, nei 1942, egli fugge attraverso la Spagna e Gibilterra e raggiunge le forze armate della Francia Libera, che vanno costituendosi in Algeria per combattere a fianco degli anglo-americani contro le potenze dell’Asse in Africa Settentrionale, e per preparare l’imminente sbarco in Italia. Le sue relazioni familiari fanno sì che, ben presto, si trovi a ricoprire l’incarico di aiutante di campo del generale Alphonse Juin — anch’egli conoscente di suo padre —, che sarà il comandante del corpo di spedizione franco-marocchino nella campagna d’Italia. Alexandre de Marenches riferisce che, secondo Alphonse Juin, l’avanzata delle truppe alleate ormai vittoriose non avrebbe dovuto limitarsi a liberare la Penisola, ma avrebbe dovuto proseguire in direzione nordorientale, verso l’Austria e verso la Jugoslavia, per contenere il dilagare dell’Armata Rossa, nello stesso tempo salvando quest’ultimo paese dalla minaccia comunista «titina» e aiutando i partigiani nazionalisti. Com’è noto, tragicamente gli Alleati non sempre operavano con le stesse prospettive politico-militari e perciò il progetto del generale Alphonse Juin non ebbe seguito. Proprio delle divergenze interalleate l’intervistato è testimone oculare quando — sempre al seguito dello stesso generale — si trasferisce presso il comando supremo nella Francia in via di liberazione. Due sono gli episodi di questo periodo che maggiormente sconcertano il giovane ufficiale, e cioè, ancora, la preferenza che il governo inglese accorda a Tito, con l’effetto conseguente di consegnare quasi tutta l’area balcanica al comunismo; quindi, la scandalosa operazione del rimpatrio forzato dei reparti nazionalisti russi, che avevano combattuto a fianco della Germania contro l’Unione Sovietica e che erano fuggiti in zona alleata dopo la sconfitta.
Anche la Liberazione francese, con il suo strascico di vendette e di ingiustizie, e l’emergere della minaccia comunista all’interno del paese così come la rinascita della politica «partitica», hanno in Alexandre de Marenches un testimone diretto e un critico severo, al punto che egli rifiuta l’offerta fattagli dal generale Charles de Gaulle di entrare nel suo entourage politico e di intraprendere una carriera presumibilmente rapida e brillante, sia per il suo passato militare sia per le sue relazioni sociali: egli preferisce ritirarsi a vita privata e ritorna a occuparsi delle sue proprietà in Normandia, rovinate dalla guerra; poi si dà all’imprenditoria in campo industriale, avendo così modo di viaggiare in lungo e in largo in tutto il mondo per commercializzare i suoi prodotti, cogliendo anche l’occasione per ritessere la propria rete di relazioni internazionali, che si erano allentate durante il conflitto, o di stabilirne di nuove. Durante questo periodo viene episodicamente incaricato, sia dal governo francese che da quello statunitense, di compiere missioni informative in diversi paesi, redigendo rapporti su possibili evoluzioni di determinati scenari politico-strategici.
La sua esperienza, la sua immagine e le sue entrature nei diversi establishment mondiali fanno sì che, nel 1970, il presidente francese Georges Pompidou — succeduto al generale Charles de Gaulle alla testa della Quinta Repubblica — offra ad Alexandre de Marenches la direzione dello SDECE. Egli accetta senza esitazioni, vedendovi forse il coronamento di un vecchio sogno oppure, semplicemente, un’opportunità di straordinario valore per poter esprimere nel migliore dei modi il proprio «spirito di servizio»: serve così la Francia ininterrottamente per undici anni, cioè fino al termine del mandato presidenziale di Valéry Giscard D’Estaing e fino all’ingresso all’Eliseo del socialista Francois Mitterrand, nel 1981. Nella sua funzione, non ha mai vita facile e le minacce alla sua linea di condotta e alla sua stessa persona vengono più spesso dall’interno che non dall’esterno dei servizi segreti. La sua dirittura, il suo aristocratico distacco dalla politica «partitica» — unitamente alla sua autonomia economica — gli consentono di avere un rapporto estremamente limpido con il vertice del potere, del quale non è mai strumento supino — anche se non discute gli obbiettivi assegnati al suo servizio oppure l’uso fatto dal potere stesso delle informazioni a esso fornite —, ma si premura sempre di far presente, alla luce delle sue prospettive ideali, le possibili conseguenze di determinate scelte.
La sua visione della situazione politica mondiale, così come emerge dall’intervista, si può riassumere in questi termini: oggi, come non mai, la Francia e l’Europa si trovano di fronte a una minaccia globale costituita dal comunismo sovietico; davanti a questa minaccia occorre difendere l’area della libertà — coincidente con l’area di influenza politica dell’Europa stessa e degli Stati Uniti — ovunque sia possibile, in Africa, in Asia e in America Latina, contendendo il terreno all’avversario a palmo a palmo e nel contempo tentando di sostenere tutte quelle realtà locali, anche residuali, che possono costituire un antemurale alla sua espansione; inoltre, bisogna che 1’Europa e le democrazie occidentali smettano di essere «democrazie molli» e divise e si sforzino piuttosto di accentuare e di coordinare la propria azione in difesa della libertà.
Nella parte del volume dedicata all’esame delle vicende passate e presenti dei diversi «punti caldi» del mondo, Alexandre de Marenches propone alcuni esempi che verificano le sue prospettive. La rassegna inizia con il caso dell’Africa, dove la Francia ha da secoli la maggiore sfera d’influenza politica. In quest’area egli evidenzia i pericoli insiti nella decolonizzazione portoghese, come pure il ruolo importantissimo di alcune «resistenze dimenticate», prima fra tutte quella dell’UNITA, l’Uniao Nacional de Independencia Total de Angola, guidata da Jonas Savimbi, al fine di contenere e di logorare l’imperialismo socialcomunista. Altra operazione necessaria è — a suo avviso — il sostegno ai pochi governi africani ancora anticomunisti e amici dell’occidente, fra i quali l’esempio più significativo è costituito dalla monarchia marocchina, a cui va la sua simpatia anche sulla base di rapporti personali con re Hassan.
Per quanto riguarda la regione meridionale del continente africano, l’intervistato sottolinea il ruolo centrale svolto dalla Repubblica Sudafricana, della quale auspica senz’altro un’evoluzione in materia di politica razziale nella prospettiva dell’integrazione delle diverse componenti etniche, mettendo nello stesso tempo in risalto che «l’impero sovietico sfrutta la situazione» (p. 153).
Alcune pagine dell’intervista sono quindi dedicate a una valutazione delle forze in campo nella lotta fra i due blocchi. A questo proposito Alexandre de Marenches sottolinea non tanto la disparità di forze materiali — pure reale — quanto l’inferiorità dell’occidente sul piano della consapevolezza dei fini e della volontà. In particolare, esiste una grande differenza fra il modo di preparare i propri quadri militari da parte dei sovietici e quello occidentale: per i sovietici la prospettiva della lotta è di carattere ideologico e quasi «religioso» e i militari costituiscono un ceto privilegiato all’interno della società comunista. Questo vale, a maggior ragione, per i quadri dei servizi di spionaggio e di sovversione. L’apparato di destabilizzazione e di disinformazione è la punta di diamante dello sforzo sovietico contro l’occidente, dal momento che la guerra rivoluzionaria psicologica totale — parte integrante della dottrina dell‘azione marxista-leninista, ispirata ai classici dell’arte della guerra da Sun Zu a Karl von Clausewitz — costituisce una modalità tipica del processo rivoluzionario nel nostro secolo. Così — afferma l’ex capo dei servizi segreti francesi — non ci si deve meravigliare se il KGB è una vera e propria élite all’interno della stessa Nomenklatura, un’aristocrazia anche ereditaria che non soffre del problema del reclutamento o delle restrizioni del bilancio di spesa come i servizi segreti occidentali.
Parlando dell’Afghanistan, Alexandre de Marenches asserisce di aver pronosticato con diversi anni di anticipo l’invasione sovietica, sulla base delle linee espansionistiche classiche dell’impero zarista in direzione dell’oceano Indiano e sulla scorta delle informazioni relative alla costruzione di nuove grandi strade camionabili da nord a sud nella parte meridionale dell’impero. Egli poi sottolinea come la conquista dell’Afghanistan sia stata solo una tappa dell’avanzata sovietica verso uno sbocco ai mari caldi: ritiene anzi molto probabile un nuovo balzo verso sud a breve scadenza, e ne traccia anche la direttrice di marcia lungo una linea verticale coincidente con l’attuale confine fra Pakistan e Iran, definendo una tale eventualità come «un avvenimento della stessa portata delle due guerre mondiali» (p. 174). A suo dire, una seconda lezione che si può trarre dall’invasione sovietica dell’Afghanistan riguarda le modalità stesse dell’operazione del 1979. Nell’occasione l’Armata Rossa ha adottato una tattica pressoché identica a quella messa in atto per invadere la Cecoslovacchia nel 1968: questo significa che essa tende a ripetersi, e che un’eventuale invasione dell’Europa Occidentale potrebbe comportare le stesse mosse o, almeno, lo stesso stile, che definisce notando come «quella gente ci mette molto a prendere la decisione e, in seguito, ci mette moltissimo a organizzare le cose […] ma, una volta avviati, sono veloci e determinati» (p. 172).
Per quanto riguarda il sostegno occidentale ai patrioti afgani combattenti, l’intervistato ribadisce la latitanza dei governi europei e la scarsità degli aiuti americani, mentre esalta il coraggio dei pakistani, soprattutto per la scelta di ospitare milioni di profughi nonostante la minaccia incombente anche su di loro.
Dal teatro afgano Alexandre de Marenches passa a quello mediorientale, sempre più influenzato da quanto accade nel precedente. E il discorso spazia dal molo dello Stato ebraico e dalle cosiddette «guerre del petrolio» al delicato equilibrio religioso, politico e strategico dello Stato iracheno, alle vicende della caduta dello scià Rezha Palhevi e ai convulsi accadimenti nell’attuale Iran fino alla Libia del colonnello Gheddafi, all’Egitto di Sadat e alla tragica scomparsa di questi.
L’ultima sezione dell’intervista è dedicata al problema del terrorismo internazionale, sul quale l’ex capo dello SDECE ha idee chiarissime: il terrorismo non è altro che una modalità della guerra di destabilizzazione condotta contro l’occidente, per cui ammonisce: «Non crediate che sarà l’esplosione delle prime armi nucleari a segnare l’inizio della terza guerra mondiale, perché è incominciata già da parecchi anni. Siamo ormai entrati nel terzo conflitto, ma non lo sappiamo perché questo non ha le forme e l’apparenza delle guerre classiche di un tempo» (p. 218). La centrale mondiale che genera il terrorismo è la stessa che produce la disinformazione, la sovversione e la demoralizzazione. Lo scopo è identico, cioè il controllo psicologico totale dell’avversano prima della sconfitta del suo esercito. È di particolare interesse quanto riferito da Alexandre de Marenches riguardo ai campi di addestramento per terroristi in paesi a regime comunista o ricadenti sotto l’influenza del comunismo internazionale: quasi tutti i maggiori servizi segreti occidentali conoscono perfettamente la loro dislocazione e le loro modalità operative. Inoltre, da testimonianze di transfughi dei servizi dell’Est, gli risulta accertata la creazione di centrali terroristiche da parte di tali servizi in anni passati. Tutto questo non implica che l’intero terrorismo internazionale sia diretta derivazione di un unico centro, dal momento che esistono cellule che nascono spontaneamente, ma è dimostrato che la centrale le coordina, le organizza, le addestra e ne utilizza le azioni.
L’intervistato prende quindi in esame vicende relative a diverse organizzazioni terroristiche. Alcune pagine sono dedicate anche all’attentato contro Papa Giovanni Paolo Il, di cui vengono indicate presumibili motivazioni nella necessità di sbarazzarsi di un profondo conoscitore del comunismo e delle sue tattiche, nell’eliminazione di un Papa non certo incline ad assecondare l’infiltrazione del marxismo nella Chiesa e nell’aspettativa di un successore, sicuramente italiano e più «malleabile» del Pontefice regnante. Alexandre de Marenches dice di essere stato informato della preparazione dell’attentato del 13 maggio 1981 da una «soffiata» e di averne a sua volta informato il Vaticano fin dal gennaio del 1980: purtroppo si trattava di una «soffiata» giusta… Sul mandante, l’ex capo dei servizi segreti francesi non dubita trattarsi dell’Unione Sovietica, che per l’occasione si è avvalsa della «struttura» più idonea alla bisogna, cioè quella bulgara: «Io credo — afferma — che i sovietici, che sono efficienti e pragmatici, si servano di parecchie organizzazioni terroristiche per combattere questo genere di guerra. Il loro approccio è globale» (p. 226).
L’intervista si chiude con un epilogo, meglio, con un riepilogo nel quale emergono ancora più chiaramente le convinzioni dell’intervistato secondo cui: 1. l’impero socialcomunista — il solo imperialismo che, erede di quello zarista, si sia attuato via terra, dovendo «superare solo qualche fiume» (p. 251) — costituisce un unicum storico; 2. il suo espansionismo globale rappresenta una terribile minaccia: «credo che il nazionalcomunismo, […] che ha come scopo confessato e conclamato urbi et orbi l’assoggettamento del mondo intero, rimanga, per ora, la minaccia principale» (p. 252); 3. «il dramma permanente del nostro campo è che le democrazie liberali non possiedono una strategia di Stato costante, quindi non hanno “continuità”» (ibidem); 4. «gli Stati Uniti possiedono i mezzi per una grande strategia mondiale, ma a loro manca l’esperienza, l’immaginazione, la continuità (cambiano amministrazione ogni quattro anni). Inoltre, hanno la debolezza di voler essere amati. Si amano i piccoli, raramente i giganti» (pp. 252 e 254); 5. minacce dirette contro lo stesso territorio americano, costituite dalla comunistizzazione del Centro America e — soprattutto — dalla pressione demografica esercitata dal Messico alla loro frontiera meridionale, incentivano il loro disimpegno sul piano mondiale, facendo così emergere la necessità urgente per l’Europa di difendersi da sola: «Deve dimenticare il suo atteggiamento di donna mantenuta e abituarsi a contare solo su se stessa, perché un giorno non molto lontano gli americani saranno tentati di evacuare le loro truppe dal- l’Europa per difendere le proprie frontiere meridionali» (p. 255).
Per la Francia e per l’Europa Alexandre de Marenches propone anche una soluzione al problema della difesa con l’istituzione di un coordinamento strategico interalleato permanente, operante in tempo di pace; la creazione di un esercito europeo integrato con quello statunitense per quanto riguarda l’armamento e i materiali; la costituzione di una task force di intervento rapido nei diversi teatri mondiali, nei quali gli interessi europei si trovino minacciati, e di una milizia territoriale per bonificare le retrovie da eventuali sabotatori in caso di guerra, e, infine, un’attiva propaganda radiofonica e televisiva volta ad agire sulle popolazioni assoggettate all’impero socialcomunista. Il tutto dovrebbe essere accompagnato dalla creazione di una zona di «profondità strategica» che attualmente all’Europa manca: l’ex capo dello SDECE propone, allo scopo, di predisporre installazioni missilistiche e di costituire riserve strategiche nei paesi extraeuropei amici, per esempio in Africa Settentrionale.
Christine Ockrent ha dunque saputo far parlare «l’uomo del silenzio» (p. 262), il cui messaggio costituisce autorevole conferma di numerose tesi già espresse da acuti commentatori di politica internazionale, ed è straordinariamente consonante con le prospettive del pensiero cattolico contro-rivoluzionario del secolo XX. Non resta che auspicare che l’ennesima reiterazione di tali tesi le faccia finalmente ascoltare e, quindi, tradurre in pratica, «finché è giorno» (Gv. 9,4).
Oscar Sanguinetti