Emanuele Pozzolo, Cristianità n. 357 (2010)
Christopher Caldwell, giornalista statunitense, è nato nel 1962 a Lynn, nel Massachusetts, s’è laureato in Letteratura inglese all’Harvard College ed è sposato con Zelda, figlia dell’intellettuale cattolico conservatore, pure statunitense, Robert Novak (1931-2009), dalla quale ha avuto cinque figli. Caldwell — redattore di The Weekly Standard, e collaboratore del quotidiano Financial Times e del periodico Slate — ha pubblicato, prontamente tradotto in italiano, L’ultima rivoluzione dell’Europa. L’immigrazione, l’Islam e l’Occidente.
L’opera — lontana dai canoni del testo accademico ma ben fornita sia di dati che di documenti — si presenta come un pamphlet di denuncia della gestione troppo spensierata del fenomeno immigratorio da parte dell’Europa Occidentale, che “[…] è diventata una società multietnica in un momento di distrazione” (p. 11), e si divide in tre parti, ognuna delle quali suddivisa in quattro capitoli: L’immigrazione (pp. 11-121) — Fiumi di sangue (pp. 11-35), L’economia dell’immigrazione (pp. 37-61), A chi giova l’immigrazione? (pp. 63-94) e La paura mascherata da tolleranza (pp. 95-121) —, L’islam (pp. 125-262) — Colonie etniche (pp. 125-160), Una cultura antagonista (pp. 161-188), La crisi della fede in Europa (pp. 189-226) e Regole sessuali (pp. 227-262) — e L’Occidente (pp. 265-374) — Tolleranza e impunità (pp. 265-287), Resistenza e “jihad” (pp. 289-320), Liberalismo e diversità (pp. 321-350) e Sopravvivenza e cultura (pp. 351-374).
La verve dell’autore s’intuisce fin dalle prime pagine, da cui emerge con nitidezza l’immagine di un’Europa in crisi nel gestire l’immigrazione, un fenomeno sociale e culturale che sta mettendo a serio rischio la sopravvivenza stessa della società europea. In particolare, “[…] è l’islam a creare i problemi più gravi. Sono 1400 anni che il mondo musulmano e quello cristiano si contrappongono, e in determinati momenti in modo violento. Oggi stiamo attraversando proprio uno di questi momenti” (p. 19).
Quel che più deve preoccupare, nell’ambito di una seria analisi dell’immigrazione, è il peso demografico che sta progressivamente assumendo l’ondata immigratoria nell’Unione Europea: a fronte di un forte tasso di natalità delle popolazioni immigrate, si registra che “[…] il tasso di fertilità dei nativi europei continua a precipitare da anni, e al momento è il più basso che si sia mai registrato in qualsiasi grande regione del mondo” (p. 23). In poche parole Caldwell mette in guardia gli europei dal progressivo e inesorabile invecchiamento della popolazione, a fronte di un’esponenziale crescita numerica degli immigrati.
Questa prospettiva è spesso utilizzata come vero e proprio grimaldello per forzare le coscienze europee ad accettare, volenti o nolenti, l’immigrazione di massa: si dice in sostanza che l’immigrazione, oltre a rappresentare un dovere etico, presenta profili d’indiscutibile convenienza economica e sociale per gli europei. Il problema è che “[…] l’Europa non sta dando il benvenuto ai nuovi residenti, bensì sta cedendo loro il passo” (p. 29), guardando al fenomeno immigratorio con un ottimismo che mal risponde alla realtà. Su queste basi preoccupanti si fonda quello che Caldwell — riprendendo l’espressione coniata dal politologo francese Pierre-André Taguieff — definisce “immigrazionismo”, ossia l’ideologia secondo cui l’immigrazione è sempre e comunque un fenomeno culturalmente buono ed economicamente vantaggioso, e negare ciò è manifestazione di xenofobia.
“Per difendere l’immigrazione sul piano economico — scrive Caldwell — si possono adottare due diverse argomentazioni, una capitalista, l’altra socialista” (p. 47). La prima si fonda sulla dichiarata necessità di ricorrere alla manodopera straniera per occupare quei posti di lavoro non più graditi agli europei; la seconda, sull’assunto in base al quale bisognerebbe accogliere il maggior numero possibile d’immigrati per evitare il collasso del welfare state che, a causa dello spaventoso calo demografico europeo, potrebbe essere salvato soltanto dai nuovi lavoratori-contribuenti stranieri. Entrambe le tesi si fondano su premesse false e dunque non possono che giungere a conclusioni errate. La premessa su cui si fonda l’argomentazione “capitalista” è sbagliata perché non è vero che gli europei non vogliano più svolgere determinate mansioni lavorative: in realtà non sono disposti a svolgere alcuni mestieri se sottopagati. Ed è sbagliata pure l’argomentazione “socialista” perché è falso che la massiccia presenza degli immigrati giovi alle finanze degli stati ospitanti: contro un aumento dei contributi previdenziali — peraltro non elevato dato che spesso gli immigrati svolgono attività lavorative poco remunerative — si riscontra un elevato costo pubblico degli immigrati per l’assistenza sanitaria e sociale, dato che anche essi si ammalano e invecchiano.
Dimostrata l’assoluta inconsistenza delle giustificazioni ideologiche utilizzate dai sostenitori dell’immigrazionismo, Caldwell sottolinea che “la compatibilità culturale è dunque una questione di primaria importanza” (p. 74). La società ospitante non può non subire ripercussioni negative se la maggior parte dei suoi ospiti aderisce a culture, talvolta tribali, che si nutrono di profondo disprezzo per i valori alla base della società occidentale. “È inevitabile che i paesi meta di immigrazione di massa risentano di qualche forma di conflitto etnico” (p. 95), scrive Caldwell confortato dalla cronaca delle rivolte degli immigrati africani in Calabria, in Lombardia e dalla meno recente rivolta delle banlieue francesi. Qualcosa nel modello d’integrazione multiculturale europeo è andato storto: invece di assistere a un progressivo e compiuto inserimento culturale ed economico degli immigrati, di seconda e di terza generazione, nel tessuto sociale occidentale, si assiste al proliferare di ghetti culturali e religiosi che fungono da freno rispetto a una compiuta integrazione dei nuovi arrivati. In questo marasma culturale e sociale si sta facendo spazio l’islam, che Caldwell definisce, senza mezzi termini, “una minaccia letale” (p. 125) per l’Occidente: “quei liberali che difendono l’islam non lo conoscono” (p. 127), afferma citando il filosofo e storico delle religioni francese Ernest Renan (1823-1892). Il vuoto d’identità che sta soffocando l’Europa rischia di essere colmato dall’attivismo iper-identitario dell’islam. Storicamente gli europei sono riusciti a frenare e talvolta a respingere la violenta pressione islamica affidandosi alla propria identità cristiana; oggi, invece, faticano a resistere alla vitalità spirituale, culturale e biologica delle popolazioni islamiche immigrate.
Caldwell ha il merito di sottolineare che “non è solo l’immigrazione a causare l’aumento della presenza islamica in Europa” (p. 132) proprio perché “[…] la maggiore fertilità degli immigrati rispetto ai nativi riguarda soprattutto gli islamici” (ibidem): il problema di fondo è che questa crescita demograficamente esponenziale non si sta sviluppando in modo armonico con la realtà occidentale preesistente. L’islam tende ad auto-segregarsi fondando la propria identità proprio sulle differenze religiose, culturali e sociali con la tradizione occidentale e cerca di creare spazi franchi all’interno delle regioni europee: lo sviluppo di quartieri islamici in numerose metropoli dimostra chiaramente l’intento auto-segregazionista proprio della cultura di molte comunità islamiche oggi stanziate in Europa.
La pericolosità di questo atteggiamento è emersa in Francia: “Le rivolte scoppiate nelle banlieues parigine nell’ottobre del 2005 furono l’episodio di violenza civile più grave e diffuso che l’Europa occidentale avesse conosciuto da decenni” (p. 150). Ma chi erano i rivoltosi? Erano giovani “[…] che simpatizzavano con la jihad“ (p. 155) e “sostenitori agguerriti della causa araba in Iraq, Afghanistan e Palestina” (ibidem). Caldwell insiste nel sottolineare il rapporto esistente fra le rivolte sociali anti-occidentali e il background religioso e culturale islamico comune a molti immigrati.
L’islam si sta declinando sempre più come un fenomeno antagonista dei valori europei: a tal proposito Caldwell analizza il grado d’integrazione raggiunto dagli immigrati musulmani accolti in Europa, mettendo in luce il totale fallimento delle relative politiche. La progressiva sostituzione del concetto di jus sanguinis — il diritto di sangue, in base al quale la cittadinanza spetterebbe solo a figli di cittadini italiani — con quello di jus soli — il diritto del suolo, per il quale la cittadinanza spetta a chiunque nasca in un determinato territorio — ha indebolito il rapporto fra cittadinanza e appartenenza etnica, religiosa e culturale.
Le recenti proposte di cittadinanza take-away lanciate da politici europei, sia di destra che di sinistra, testimoniano la pericolosa superficialità delle politiche immigratorie. Caldwell non manca di sottolineare quanto sia ormai vacuo il concetto d’integrazione: il fallimento del multi-culturalismo, sia britannico sia francese sia tedesco, è sotto gli occhi di tutti. L’unica strada che l’Europa può imboccare per dare avvio a una nuova politica immigratoria è quella dell’assimilazione, punto d’arrivo di un percorso di integrazione e di adattamento sociale e culturale serio e organico. Lo scrittore statunitense cita a tal proposito l’ex ministro dell’Interno tedesco, Otto Schily, secondo cui “la forma migliore di integrazione […] è l’assimilazione” (p. 167). Non basta infatti che un immigrato si limiti a rispettare le leggi dello stato ospitante: per avere le carte in regola per ottenere la cittadinanza ogni straniero deve riuscire ad adattare i suoi usi e costumi originari alla realtà del paese che lo accoglie. È necessario ricercare un parametro di compatibilità fra l’identità, la religione e la cultura dell’immigrato e quelle della società ospitante: questo è lo sforzo che l’Europa sembra avere ignorato finora.
Questo discorso assume un’importanza assai rilevante nell’ambito dell’analisi dei rapporti fra l’islam e la società europea: “L’islam è sempre stato inteso come identità forte che caratterizza ogni aspetto della vita del credente e riduce all’irrilevanza qualsiasi altro legame di minore importanza” (p. 173). In un’Europa alle prese con un montante relativismo e con una cronica crisi d’identità la presenza dell’iper-identità islamica rappresenta un serio pericolo per la conservazione di molte strutture sociali e culturali figlie della tradizione occidentale.
Gli attentati dell’11 settembre 2001 a New York e a Washington, dell’ 11 marzo 2004 a Madrid e del 7 luglio 2005 a Londra hanno posto all’ordine del giorno del nuovo millennio la “doppia lealtà” (p. 177) di molti islamici stabilizzatisi in Occidente. Caldwell mette in guardia dal rischio, tutt’altro che immaginario, che dietro un’integrazione di facciata s’insinui il morbo di un islam che in realtà non accetta nemmeno le fondamenta su cui si basa il vivere civile delle società ospitanti. I fatti confermano tale analisi: gli attentatori islamici londinesi che il 7 luglio 2005 fecero esplodere più ordigni nella metropolitana di Londra, causando oltre cinquanta morti e settecento feriti, erano immigrati islamici di terza generazione, figli di persone a cui la Gran Bretagna aveva spalancato le porte, concedendo addirittura la cittadinanza, in nome di quel mito multiculturale deflagrato proprio assieme a quei kamikaze.
L’islam si sta dimostrando impermeabile ai valori e al modus vivendi occidentale ed è falso l’assunto di chi spera che si sviluppi, a forza di convivere con le popolazioni autoctone, un islam europeo: i fatti dimostrano che anche i figli dei figli degli immigrati mantengono un sovrano disprezzo verso quegli aspetti dell’Occidente da loro considerati “deleteri”. “È uno spettacolo quasi patetico — scrive Caldwell riferendosi a taluni benpensanti europei — vederli in attesa che l’islam si “modernizzi” o cessi di essere “onnipervasivo” nella vita dei suoi praticanti” (p. 217): questo immobilismo è da ascrivere, ovviamente, a cause insite nella stessa weltanschauung islamica e, in parte, anche all’atteggiamento molto tollerante che l’Europa mostra nei confronti dell’islam stesso. Si assiste, giorno dopo giorno, al progressivo tentativo di molti paesi europei di modificare le proprie leggi per rendere il proprio diritto più gradito agli ospiti: questo atteggiamento “islamicamente corretto” (cfr. Giovanni Cantoni, Aspetti in ombra della legge sociale dell’islam. Per una critica della “vulgata” “islamicamente corretta”, con una Prefazione di Samir Khalil Samir S.J., Centro Studi sulla Cooperazione “Arcangelo Cammarata”, San Cataldo [Caltanissetta] 2000) non si ferma solo all’aspetto giuridico, ma mette in discussione — sempre in nome della tolleranza e del rispetto multi-culturale — uno dei cardini dell’Europa moderna, ossia la libertà di espressione. Così come avvenne nel settembre 2005 in Danimarca, in modo plateale, per il caso delle vignette raffiguranti Maometto: l’islam scatenò una vera e propria rivolta mondiale contro la pubblicazione, definita “blasfema”, di raffigurazioni satiriche che avevano come soggetto principale il “profeta” Muhammad (570 ca.-632). Molti uomini di cultura e molti politici europei si lanciarono in vibranti arringhe a difesa della sensibilità islamica offesa e censurarono la pubblicazione delle vignette.
“In tutte le migrazioni di massa esiste un momento di svolta in cui gli immigrati — o i loro figli nati sul posto — smettono di abitare semplicemente nel paese che li ha accolti e iniziano a plasmarlo. I nativi si aspettano che gli immigrati diventino uguali a loro, prima che questi ultimi comincino a far sentire il proprio peso politico” (p. 266): così Caldwell mette in guardia l’Europa dal rischio concreto d’islamizzazione silenziosa della società. L’islam non risponde alla logica presunta del progressivo adattamento ai costumi occidentali, ma si radicalizza ulteriormente a contatto con ogni cultura diversa.
Questo preoccupante dato va analizzato all’interno di una cornice storica di decadenza profonda che interessa l’Occidente — e l’Europa in particolare — in tutte le sue manifestazioni. L’annichilimento di ogni identità tradizionale non consente all’Europa di potersi confrontare ad armi pari con le sfide globali del nuovo millennio. “L’islam è rimasto a lungo nascosto, ma adesso il mondo si sta accorgendo della sua esistenza” (p. 289): l’incapacità occidentale di comprendere la mentalità dello sfidante rischia di rendere pressoché vano ogni tentativo di vincere la battaglia. Proprio per questa ragione l’Europa deve sforzarsi — sulla scorta dei saggi richiami di Papa Benedetto XVI — di riappropriarsi di quel preziosissimo bagaglio identitario che è rappresentato dal cristianesimo: senza una forte consapevolezza di sé stessa l’Europa parte sconfitta.
Emanuele Pozzolo