Una storia, bella, lunga, non ancora conclusa. Che (con altro) mi ha condizionato indelebilmente
di Marco Respinti
Pubblicato con il titolo Cum l-am cunoscut pe Russell Kirk sul sito conservatore rumeno Clubul Conservator Iași, questo articolo è stato scritto su invito di Remus Tanasă, fondatore del forum di confronto Russell Kirk Romania, che lo ha tradotto.
di Marco Respinti
Era il 1989, fine del mese di maggio. Nel novembre di quell’anno, fatidico, il 9 per la precisione, sarebbe stato abbattuto il famigerato Muro della vergogna di Berlino con cui il comunismo sovietico aveva tenuto in cattività metà del continente europeo per decenni, ma già da mesi la metà occidentale dell’Europa celebrava con enfasi un’altra rivoluzione famigerata, quella francese, manifestazione suprema di quella che Russell Kirk (1918-1994) definiva «giant ideology».
In quel tardo mese di maggio Kirk era in Italia. Su invito dell’assessorato alla Cultura e della Biblioteca Civica del Comune di Monza, svolse una conferenza, il giorno 26, nell’ambito di una serie di incontri dal titolo Oltre la terra desolata in onore del suo mentore e maestro Thomas Stearns Eliot (1888-1965), e quindi, dal 27 al 30, per iniziativa di Alleanza Cattolica, altre tre conferenze a Milano, a Torino e a Lecce intitolate Rivoluzione francese e/o Rivoluzione americana. Fu a Monza e soprattutto Milano che incontrai Kirk di persona, dapprima sospettoso, quindi incuriosito, infine conquistato.
Tutto nacque mesi prima, ora non ricordo più con precisione quanti. Avevo 25 anni. Da tre anni avevo cominciato a muovere passi in un mondo più vasto: quello del conservatorismo e della tradizione contro-rivoluzionaria. Un pomeriggio mi trovavo (per caso, se il caso esistesse) nella sede milanese di Alleanza Cattolica a “dare una mano” per riorganizzare archivi e rassegne stampa. Nella stanza attigua due persone parlavano da una buona oretta. Marco Invernizzi, allora responsabile milanese dell’associazione e oggi suo reggente nazionale, discuteva con un interlocutore a me ignoto. Venne il momento dei saluti e, accompagnando l’ospite sull’uscio, Invernizzi lo salutò per nome: Marcolla. Poteva essere Mario Marcolla (1929-2003)? Timido, impacciato, mi feci coraggio, avanzai fra i due con quello che poteva anche essere scambiato per gesto improvvido di scortesia e chiesi: «Mario Marcolla?». Fu un attimo, che arrivò e passò rapido. Un istante in cui la mia timidezza stava per prendere il sopravvento e se così fosse stato forse la mia vita sarebbe stata totalmente diversa. «Sì», rispose Marcolla per nulla indispettito, anzi affabile, quasi paterno. Fu emozionante. Gli dissi, accavallando frasi e parole alla velocità della luce, di come avessi letto il suo nome nella bibliografia de Il tempio del cristianesimo di Attilio Mordini (1923-1966), di come avessi cercato quindi suoi scritti ulteriori, e poi fotocopiato in emeroteca e in biblioteca articoli a sua firma, e di come fosse per me (lì per lì non trovai altre parole) un «onore» conoscerlo. Marcolla sempre più affabile mi disse: «Vieni a trovarmi».
Marcolla si trovava quel giorno in quei locali milanesi dove non per caso si trovava anche il sottoscritto per concordare la venuta in Italia di Kirk. Conosceva Kirk bene. Si era imbattuto, anni prima, nel suo The Conservative Mind, se ne era entusiasmato, aveva scritto al suo autore, era andato negli Stati Uniti a incontrarlo. Marcolla è stato il vero «unsung hero» degli studi sul conservatorismo anglo-americano, e molto altro ancora.
In quel 1989 Marcolla era il tramite fra Kirk e il Comune di Monza per gli eventi dedicati a Eliot ed era sempre lui che aveva offerto ad Alleanza Cattolica la possibilità di ospitare Kirk per interventi pubblici. Marcolla era amico di antica data del fondatore di Alleanza Cattolica, Giovanni Cantoni (1938-2020), studioso e interprete del pensiero cattolico contro-rivoluzionario, che, con altri, fra cui il filosofo Augusto Del Noce (1910-1989) e don Gianni Baget Bozzo (1925-2009), aveva animato, negli anni 1960, circoli culturali alternativi all’ondata socialcomunista che proprio allora avanzava a grandi passi anche in Italia non sufficientemente arginata, anzi, dal pensiero cattolico-democratico. Cantoni aveva conosciuto Kirk nel 1964 assieme ad altri, tra cui l’immancabile trait-d’union Marcolla e il filosofo e politologo ungherese-americano Thomas Molnar (1921-2010).
Marcolla era un uomo eccezionale, letteralmente fuori dal comune. Autodidatta, operaio, al duro lavoro nella fabbrica della Brianza alternava gli studi di filosofia, storia, letteratura, pensiero politico e lingua inglese, da solo, sottraendo tempo al sonno, saltando le pause pranzo e i turni di riposo per cibare l’intelletto e lo spirito. La sua saggezza e la sua conoscenza dell’umano erano proverbiali. In lunghi pomeriggi monzesi, fumando sia lui sia io l’ennesima sigaretta come Yanez de Gomera, il fratellino bianco del malese letterario Sandokan, e accompagnando ogni tanto il discorrere con qualche goccia di whisky o di grappa, Marcolla raccontava, spiegava, sunteggiava, ricordava, evocava personaggi e scenari. Fu così che venni introdotto a un mondo diverso, fatti di autori e di tradizioni culturali che ignoravo, libri che divorai (alcuni introvabili), quadernetti scritti a penna da Marcolla in una grafia di altri tempi in anni e decenni sui quali riflettei e meditai, le raccolte non complete ma ricchissime dei primi anni di National Review e del periodico Triumph(che conservo gelosamente) e carteggi con autori importanti di cui mi mise a parte.
Si aprì per me con Marcolla e grazie a Marcolla, tra l’altro, quella prospettiva decisiva sulla rivoluzione americana che in realtà non è stata affatto rivoluzionaria (addirittura il suo contrario), sulla tradizione del giusnaturalismo classico e cristiano di Edmund Burke (1729-1797) e (su questa scorta) su Stati Uniti così diversi da quelli liberal, illuministi e sovversivi che conoscevo o che pensavo di conoscere.
Marcolla mi preparò insomma all’incontro con Kirk di quel maggio 1989. Mi fidavo di Marcolla, ma ancora un po’ dubitavo. Kirk condusse la mia barca in porto.
A Milano, a cena dopo la sua conferenza pomeridiana, parlai con Kirk di tante cose. In realtà parlavo più io, essendo la riservatezza di Kirk ben nota (uomo dalla loquacità di una tartaruga, si descrive Kirk nella propria autobiografia) così come il suo parlare fatto spesso di frasi fulminanti, sapide e aforismatiche, ma pure sibilline, distillato di una sapienza atavica. In questa seconda caratteristica mi ricordava da vicino il peraltro gran conversatore Cantoni. Rivolsi a Kirk tante domande, forse decine. Kirk gustava la cena, convinto che squisitezza di pietanze e sublimità dei vini fossero segni tangibili di quella bellezza di cui ha ben parlato il filosofo inglese Roger Scruton (1944-2020) ‒ che definì Kirk il miglior discepolo americano di Burke ‒ e quindi affermazioni culturali, persino gesti spirituali. Kirk sembrava però a tratti non voler rispondere alla mia sete di più e di oltre. Schivava, glissava. Spostò la conversazione su altro, sul tabacco. Lo Straight Virginia, e lì restai fulminato: lo stesso blend del Capstan Blue dell’uomo che avevo imparato ad amare e a cui dovevo, da adolescente, il mio ritorno alla fede cattolica: J.R.R. Tolkien (1892-1973). Glielo dissi, e parlammo allora degli Inklings, quel sodalizio umano e culturale di Oxford che per Kirk era una delle pietre miliari del vero conservatorismo. Mi resi conto con un fremito allora che “Kirk era l’uomo”, e che forse (era solo una sensazione, ma fu forte), la mia vita avrebbe pure potuto cambiare in quell’istante.
Le mie domande? Kirk mi disse: «Perché non vieni a trovarmi a Mecosta, nei boschi del Michigan. Avremmo tempo per lavorare su quelle domande». Rimasi di stucco, ma andò esattamente così.
A Mecosta andai per la prima di diverse altre volte nel 1992. Nei mesi, negli anni intercorsi scrissi lunghe lettere (allora si usava così) a Kirk, subissandolo ancora, sempre di domande, chiedendo consigli di lettura, e frequentando sempre più assiduamente il buon Marcolla.
Kirk tornò in Italia nel 1991 e svolse ancora, per Alleanza Cattolica, una conferenza, a Milano, sulla politica estera degli Stati Uniti in quel frangente. Mi fu affidato il compito di introdurlo in pubblico. Stupendo, e spaventoso. Stetti male cinque minuti prima di parlare, ma poi andò benissimo, e il Signor Kirk, il Dottor Kirk era per me oramai un riferimento certo. Quando Annette, la moglie, anni dopo, prese a definirmi anche in pubblico «one of the family», capii molte cose che non si capiscono solo con l’intelletto e che non si riescono a esprimere mai con le parole.
Iniziò così una storia, bella, lunga, non ancora conclusa. Che (con altro) mi ha condizionato indelebilmente. Con Kirk ho studiato, l’ho assistito, abbiamo regato in canoa assieme sul fiume Chippewa nel Michigan, abbiamo visitato la splendida Mackinac Island, abbiamo guidato (lui no, ci mancherebbe) lungo le back-road del Michigan rurale, abbiamo disquisito di filosofia, politica e letteratura, di fiabe e di tradizioni, di mito e di storia. Con lui sono stato introdotto a persone e ad ambienti notevoli in giro per gli Stati Uniti.
Ora Kirk non c’è più. Ma non mi sembra affatto. Russell Kirk è stato, era ed è un argine maestro alla moda del tutto scorre. Conservatore, nel senso più meraviglioso dell’espressione. Talvolta gli parlo, come parlo ad altri morti che mi parlano. Grazie di avermi accolto.
Sabato, 21 novembre 2020