FRANCESCO PAPPALARDO, Cristianità n. 299 (2000)
1. L’analisi storiografica
Da Ruggiero II d’Altavilla (1095-1154) — re di Sicilia dal 1130 — a Francesco II di Borbone (1836-1894) — re delle Due Sicilie fino al 1861 —, le terre del Mezzogiorno d’Italia sono state unite nella stessa realtà statuale, ordinata sempre, tranne le brevi parentesi repubblicane del 1647-1648 e del 1799, nella forma monarchica.
Gli studiosi si sono chiesti a lungo se la storia del Regno di Napoli sia stata un’autentica storia nazionale o soltanto la storia dei sovrani e degli ordinamenti succedutisi in quelle terre nel corso dei secoli. Benedetto Croce (1866-1952), influenzando in modo significativo il dibattito storiografico, ha sostenuto con forza questa seconda tesi, ritenendo che una nazione sia “[…] una personalità morale, una coscienza, e questa volontà e coscienza non si formarono davvero nell’Italia meridionale se non nel moto spirituale del quale il Giannone [Pietro, 1676-1748] fu tra i primi e principali autori, e il Genovesi [Antonio, 1713-1769] il più diretto e pratico educatore e maestro” (1). In questo modo la storia gloriosa e plurisecolare di queste contrade viene ridotta in larga misura a quella del ceto intellettuale settecentesco — ritenuto l’unica forza attiva in senso nazionale e l’artefice di tutto quanto di grande e di nobile è stato compiuto nel regno — ed è letta solo come un lungo prologo all’unificazione politica della penisola.
In realtà, gl’illuministi e i liberali napoletani non ebbero mai la posizione egemone che Croce attribuiva loro e non furono in grado di rappresentare le esigenze concrete della popolazione, con un limite alla loro azione che si rivelò decisivo sia nella sconfitta del 1799, quando l’armata della Santa Fede abbattè con vasto concorso popolare l’effimera Repubblica giacobina di Napoli, sia dopo la realizzazione dell’unità d’Italia, nel 1861, quando essi non seppero fare altro che accettare la dissoluzione della nazione napoletana nel mortificante coagulo dello Stato unitario. Giuseppe Galasso è stato il primo a sottolineare l’anomalia di “[…] una tradizione politica e culturale che fino all’ultimo non riesce a farsi espressione di tutta la nazione, che per fare il bene del suo paese deve marciare contro di esso. […] Che cosa è questo ethos (per così dire) che non riesce a diventare kratos e che non ha mai raccolto intorno a sé, in modo stabile e organico, l’anima del paese? E come restringere ad esso la tradizione nazionale napoletana se proprio esso ha dovuto, in ultima analisi, dissolversi nel più vasto ambito della nazione italiana per vedere affermati prima e consolidati poi i valori etici e gli ideali politici ai quali si ispirava?” (2).
In effetti, l’analisi degl’istituti dell’amministrazione centrale e periferica del regno, della sua struttura economica, della configurazione e della dialettica di forze politiche e di ceti sociali, porta lo storico napoletano alla conclusione che già in età angioina — nel secolo XIV — si consolidarono tutti quegli elementi di carattere unitario e nazionale che erano presenti, in forma embrionale, nella monarchia normanna e sveva, e che dunque si deve guardare alla nazione napoletana come a uno dei “mosaici minori nel più grande mosaico della nazionalità italiana” (3), che ebbe per secoli un’autonoma logica di sviluppo e le cui vicende non vanno concepite semplicemente come funzionali a un’inevitabile unità. Questa nazione ha le sue radici remote nella vigorosa sintesi, realizzata dopo il secolo VI, fra tradizioni autoctone, cultura greco-romana e apporti germanici, e la sua ossatura giuridica nell’amministrazione normanna, che, fra i secoli XI e XII, ha dotato il Mezzogiorno di due nuove istituzioni destinate a segnarne le vicende fino a metà Ottocento: la monarchia unitaria e il feudalesimo. Pertanto, la storia del Regno di Napoli, come quella del Regno di Sicilia, non può essere considerata estranea agl’interessi e ai sentimenti dei suoi abitanti, che invece, attraverso la consapevole accettazione, conservazione ed elaborazione del patrimonio di valori civili e spirituali ricevuto in eredità dai padri, cioè di una civiltà, diedero vita a quello “spirito nazionale”, il cui fondamento, significativamente — nota ancora Galasso — “[…] non poggiava sulla devozione verso la Casa regnante o sul lealismo verso la città dominante, bensì su una presa di coscienza ab antiquo dell’autonomia e della personalità propria dei due regni” (4).
Tuttavia, l’unione forzata in un grande Stato, nel 1861, ha determinato, prima ancora della spoliazione economica, la dispersione di una parte rilevante delle inestimabili ricchezze culturali del regno, che da quella data, ridotto a provincia e identificato solo come “Mezzogiorno”, è diventato oggetto di studio e di analisi da parte di scienziati sociali, di antropologi e di politici, costituenti la categoria dei “meridionalisti”, una specie del particolare genere dei “sudologi” (5). Costoro hanno decretato che il Mezzogiorno è in ritardo, perché è rimasto indietro rispetto al resto della penisola; è sottosviluppato, perché non è cresciuto come ci si aspettava; è malato, a causa di una malformazione congenita o di un virus acquisito.
2. Le origini della Questione Meridionale
“Fuori dall’ottica risorgimentale e nazionale, e da quella meridionalistica — scrive lo storico campano Mario Del Treppo —, il cliché della marginalità del Sud in ogni momento della sua storia, e della sua conclamata inferiorità — politica, economica, civile — mai riscattata, nemmeno dall’opera del Risorgimento, è destinato a dissolversi” (6). Infatti, la rappresentazione del Mezzogiorno come un blocco unitario di arretratezza economica e sociale non trova fondamento sul piano storico, ma ha genesi e natura ideologiche.
I primi a diffondere giudizi falsi sugli inferiori coefficienti di civiltà di quell’area sono gli esuli napoletani che, nel decennio 1850-1860, con la loro propaganda antiborbonica non solo contribuiscono a demolire il prestigio e l’onore della dinastia, ma determinano anche una trasformazione decisiva nell’immagine del Sud, riproponendo secolari stereotipi sul “paradiso abitato da diavoli” (7). Dopo il 1860, l’intreccio di brigantaggio e di legittimismo borbonico spinge la classe politica unitaria a individuare nelle province annesse il luogo da cui proviene la più grave minaccia interna all’esistenza del Regno d’Italia e ad assegnarsi la missione d’inserire nella nuova compagine statale l’ex regno napoletano, anche a costo di cancellarne l’identità storica. “La differenza tra il Mezzogiorno, preso in blocco, e il resto del paese — scrive lo storico siciliano Giuseppe Giarrizzo — si configura come polarità simbolica di barbarie e civiltà, di borbonismo e liberalismo, di stile di vita “feudale” nel Sud, e borghese nel Nord — una polarità esasperata dal contrasto mitico tra la difficile natura del Centro-Nord e la naturale disposizione del suolo e clima meridionali alla fertilità e agli agi” (8).
Il meridionalismo diventa la griglia interpretativa attraverso cui accostarsi alla storia del Sud, che è ridotta alla storia della Questione Meridionale, cioè l’insieme dei tentativi compiuti dallo Stato italiano per sanare la lacerazione sociale e morale conseguente all’incontro-scontro fra realtà disomogenee. Questo contrasto —ricondotto spesso a un confronto dialettico fra due realtà geografiche, il “Nord” e il “Sud”, che polarizza e banalizza la complessa trama della storia italiana — è associato dal politologo Ernesto Galli della Loggia “[…] alla percezione di una diversità etico-antropologica così radicale da farne il punto critico per antonomasia della problematica identità nazionale italiana” (9) ed è definito dall’antropologo Carlo Tullio Altan come “uno scontro di civiltà” (10), cioè un urto fra differenti modelli culturali e forme diverse d’organizzazione sociale, che dopo l’Unità sarà affrontato soprattutto come un problema di sviluppo economico ineguale o di ritardo civile.
3. Le interpretazioni economiche
L’elaborazione della Questione ha inizio con la denuncia politica della Destra storica dopo le elezioni del 1874, che con l’apporto decisivo del voto delle élite meridionali portano al potere la Sinistra di Agostino Depretis (1813-1887), e si manifesta in una ricca letteratura, da Le lettere meridionali dello storico Pasquale Villari (1826-1917), pubblicate nel 1875 (11), alle indagini del pubblicista Leopoldo Franchetti (1847-1917) sulle Condizioni economiche ed amministrative delle province napoletane. Appunti di viaggio, dello stesso anno (12), e all’inchiesta del barone Sidney Costantino Sonnino (1847-1922) su I contadini in Sicilia, del 1876 (13).
Da Villari all’ideologo Antonio Gramsci (1891-1937) il Mezzogiorno viene letto soprattutto nei termini di un grande problema sociale e, pur nella diversità delle interpretazioni, l’analisi prende le mosse abitualmente dalla sua condizione materiale. Per il primo meridionalismo, definito “classico”, la Questione Meridionale consiste nella mancata integrazione dell’economia del Sud nel processo di sviluppo capitalistico, mentre per le correnti d’ispirazione marxista — e anche per lo storico Rosario Romeo (1924-1987), che “aggiorna” il meridionalismo liberal-democratico — questa integrazione è avvenuta secondo le modalità con cui il capitalismo, nella sua fase avanzata, rende funzionale al suo sviluppo l’economia dei paesi arretrati: “[…] è giocoforza ricordare che, proprio in virtù del sacrificio imposto per tanti decenni alla campagna e al Mezzogiorno, un paese povero di territorio e di risorse naturali e sottoposto ad una fortissima pressione demografica come l’Italia è riuscito, unico tra quelli dell’area mediterranea, a creare un grande apparato industriale e una civiltà urbana altamente sviluppata” (14).
In ogni caso la lettura del Sud in termini d’arretratezza ha come riferimento il modello economico liberale, nato dalla rivoluzione industriale del secolo XVIII, e un’impostazione culturale idealistica, che giudica la storia del Mezzogiorno secondo il parametro della crescita della “coscienza civile”, che sarebbe giunta a maturazione solo grazie al Risorgimento, interpretato come la marcia ineluttabile verso una superiore civiltà politica, compiuta dagli esponenti liberali del regno contro l’incomprensione e l’ostilità della “plebe”. Il Meridione d’Italia viene valutato, dunque, in ragione della sua devianza da quei modelli e viene descritto in termini d’individualismo e di carente spirito civico, di arretratezza tecnologica e di resistenza alla modernizzazione, di corruzione e di clientelismo, utilizzando le dicotomie Nord/Sud, sviluppo/sottosviluppo e progresso/arretratezza come indicatori del livello raggiunto rispetto a una scala ideale da percorrere. Peraltro, i termini “sottosviluppo” e “arretratezza”, da oltre cent’anni al centro delle discussioni sulla Questione Meridionale, non richiamano categorie per l’analisi scientifica ma si presentano piuttosto come espressioni allusive e ideologicamente evocative, contenenti un’implicita carica moralistica.
In realtà, nel 1860 la società “napoletana” viene incorporata in un sistema più ampio, nel quale erano presenti i germi di uno sviluppo di tipo capitalistico e di una trasformazione della monarchia amministrativa in un regime liberale, cioè i germi di un “altro” modello di sviluppo: infatti, gli studi più recenti sull’economia meridionale pongono l’accento sul fatto che le strutture socio-economiche delle diverse aree del Mezzogiorno hanno avuto origine da un insieme di risposte razionali a fattori umani e fisici (15). Tale contesto determina la subordinazione economica e politica del Sud nei confronti delle altre parti d’Italia, anche a causa della “sistematica e non graduata demolizione d’un’immensità di istituzioni, d’interessi, di amministrazioni” (16) — denunciata dal giurista Pasquale Stanislao Mancini (1817-1888) —, che aveva prodotto “una lesione troppo estesa e profonda” (17).
I temi del meridionalismo saranno enfatizzati, a partire dai primi decenni del secolo XX, dal nuovo ceto politico locale allo scopo di rivendicare ingenti provvidenze pubbliche e di porsi come mediatore nella loro distribuzione. Si dà il via a una legislazione speciale con un susseguirsi di leggi particolari a favore di singole aree o regioni — i provvedimenti del 1904 per la Basilicata e “per il risorgimento economico della città di Napoli”, quelli del 1906 per tutto il Mezzogiorno continentale, e quelli del 1907 per la Sardegna —, che favoriscono quel meccanismo della rivendicazione nei confronti dello Stato, prevalentemente di opere pubbliche, con cui i gruppi del ceto politico meridionale costruiscono i propri strumenti di mediazione fra i bisogni collettivi e il potere centrale.
Dopo la seconda guerra mondiale (1939-1945), la Questione Meridionale viene affrontata con una politica d’interventismo statale, caratterizzata da ingenti trasferimenti di risorse verso il Sud, destinate prevalentemente a fini non produttivi, che contribuiscono a determinare la scarsa specializzazione delle attività produttive nel Mezzogiorno, rendono gracile l’iniziativa imprenditoriale e in parte alimentano il circuito perverso politica-affari-criminalità.
4. Le interpretazioni sociali e culturali
L’atteggiamento dei primi meridionalisti è influenzato pesantemente da una concezione positivistica della scienza e da un’interpretazione evoluzionistica della storia, intesa come progressione attraverso una serie di stadi di civilizzazione. Il dualismo civiltà-barbarie permea la loro visione, nella quale il Sud non è più un campo geografico ma una metafora che rimanda a un’entità mitica e immaginaria, dove si possono ritrovare sia criminalità, residui feudali e superstizione, sia tradizioni popolari, folclore ed esotismo. Arretrato o pittoresco, il Sud diventa più che mai diverso e l’idea del Mezzogiorno si forma in negativo, come mancanza rispetto a un modello ideale (18).
Il pessimismo dello scrittore e uomo politico Giustino Fortunato (1848-1932), secondo il quale per il Mezzogiorno “[…] qualunque sacrificio valeva bene il prezzo d’entrata nel mondo della civiltà” (19), si sposa perfettamente — sul finire del secolo XIX — con il positivismo antropologico, e non meno pessimista, dello psichiatra Cesare Lombroso (1835-1909) e del sociologo Alfredo Niceforo (1876-1960), assai influenti nell’ambito del Partito Socialista Italiano, che vedono la ragione dell’inferiorità meridionale in una costituzionale e irreparabile inferiorità razziale. I preconcetti di certi studiosi, alcuni dei quali stranieri, servono ad alimentare una letteratura d’impostazione discutibile, diffusa soprattutto nel mondo protestante, secondo cui “[…] la vita religiosa del Sud — come nota l’etnologo Ernesto De Martino (1908-1965) — sta in fondo come pretesto sin troppo scoperto per condurre la polemica anticattolica” (20).
Nel secondo dopoguerra la fioritura degli studi sociologici sul Mezzogiorno porta all’elaborazione di opinabili categorie interpretative — come quelle di “paganesimo perenne” e di “cultura subalterna”, riferite al mondo contadino dallo scrittore Carlo Levi (1902-1975) (21) e dall’antropologo Alfonso Maria Di Nola (1926-1997) (22) —, oppure alla lettura della specificità meridionale nei termini di una vocazione quasi antropologica a una religiosità elementare e superstiziosa, come per De Martino (23), o, ancora, alla presentazione del Sud come deposito di mentalità pre-moderne, caratterizzato dall’assenza di senso civico dei meridionali: è il caso del sociologo statunitense Ernest C. Banfield, teorico del così detto “familismo amorale” (24), cioè il comportamento rivolto unicamente a perseguire il bene della propria ristretta cerchia familiare, e del politologo, pure statunitense, Robert D. Putnam, che individua la prevalenza di un associazionismo “orizzontale” e democratico al Nord e di reti relazionali “verticali”, gerarchiche e deferenti — incarnate nella Chiesa e nella mafia — al Sud (25). La categoria dell’arretratezza ricompare come nodo ineliminabile della storia del Mezzogiorno, in relazione alla sua subordinazione economica o alla sua struttura sociale e culturale, entrambe legate a presunti, secolari condizionamenti.
Anche in ambito ecclesiale si diffonde, sul finire del secolo XIX, una valutazione distorta o quanto meno superficiale della religiosità meridionale, giudicata rozza e superstiziosa in documenti stilati da ecclesiastici, come le relazioni preparate per l’Opera dei Congressi e dei Comitati Cattolici (1874-1904) dal sacerdote veneto Gottardo Scotton (1845-1916) (26) e dal redentorista modenese Ernesto Bresciani (1838-1919) (27). Queste prese di posizione alimentano le affermazioni di presuli, come il pugliese mons. Nicola Monterisi (1867-1944), vescovo di Monopoli e poi arcivescovo di Chieti e di Salerno, sull’esistenza di una questione meridionale ecclesiale (28), e hanno come conseguenza l’imposizione alle diocesi meridionali di vescovi originari dell’Italia Settentrionale, i quali cercano di sradicare l’antica pietà del popolo, obbligando sacerdoti e fedeli a seguire modelli di vita religiosa sperimentati felicemente in altre parti d’Italia, ma estranei alle consuetudini delle popolazioni dell’Italia Meridionale.
Studi non preconcetti hanno consentito, però, di sfatare il luogo comune di una cristianizzazione superficiale delle regioni meridionali e d’individuare in alcune sopravviventi pratiche magiche — ritenute comunemente parte integrante della religiosità delle popolazioni rurali — solo il relitto di arcaiche strutture psicologiche e religiose (29). È così possibile formulare giudizi più equilibrati sulla religiosità “napoletana” — il cui rappresentante più genuino è sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787) —, contraddistinta non solo e non tanto dalla spettacolarità del culto e da forme appariscenti di devozione, quanto e soprattutto dall’ortodossia e dalla fedeltà alla Cattedra di Pietro, oltre che da una delicatezza e da una profondità innegabili e da una spiccata tendenza alla comprensione e alla solidarietà umana.
Anche il grande rilievo assunto dalla famiglia nella società meridionale — così come in tutte le altre regioni d’Italia, dove la socialità, secondo lo storico Marco Meriggi, “[…] si sgrana quasi naturalmente in un ventaglio di famiglie, molto più che in una miscela di individui” (30) — non è più ritenuto un sintomo di arretratezza, anzi proprio questa tenace caratteristica sociale ha rappresentato un limite quasi invalicabile all’espansione soffocante dello Stato unitario e il più sicuro antidoto nei confronti dell’individualismo politico ed economico. “Per quale ragione — si chiede lo storico Piero Bevilacqua — […] il legame familiare, la parentela, l’amicizia, la pratica consuetudinaria del dono, l’attaccamento al luogo natìo, il ruolo della madre nella vita sociale, il culto dei santi e dei morti dovrebbero costituire delle tare storiche della società meridionale, l’ostacolo culturale che le ha impedito e le impedisce di approdare alla modernità?” (31).
Il Sud, dunque, non è un’area arretrata o sottosviluppata, o un Nord mancato, ma piuttosto una società dotata di una forte personalità storica e di un’inconfondibile fisionomia, in cui si sono riconosciute per lunghissimo tempo tutte le sue componenti sociali. Il Sud non è neppure una periferia d’Europa, caratterizzata da una lunga separazione dal mondo civile o da note di subalternità o di arcaicità, né è il luogo di coltura della “napoletanità”, intesa come un isolato universo antropologico e culturale. Al contrario, la civiltà del Mezzogiorno è stata una delle molteplici versioni della civiltà cristiana occidentale ed è vissuta per secoli in uno stretto rapporto con l’”altra Europa” — presente ovunque nel continente durante l’età moderna e collocata idealmente “sotto i Pirenei” dal giurista e storico spagnolo Francisco Elías de Tejada y Spínola (1917-1978) (32) —, che per molto tempo ha rappresentato la sopravvivenza di un’area di Cristianità e ha costituito un limite all’espansione della modernità, intesa come insieme di valori globalmente alternativi al cristianesimo e alla sua incidenza politica e sociale, e ha costituito un luogo di resistenza all’aggressione rivoluzionaria.
5. Conclusioni
Negli ultimi centocinquant’anni il popolo italiano ha subìto un processo di alienazione della propria identità e della propria tradizione, romana e cattolica — che avevano vivificato e modellato nel corso dei secoli i costumi, la mentalità e il comportamento degli abitanti della penisola —, da parte di quello che il sociologo delle religioni Massimo Introvigne chiama “[…] partito anti-italiano. Per questo partito “fatta l’Italia” non si trattava soltanto di “fare gli italiani”; si trattava piuttosto di fare l’Italia contro gli italiani, o di disfare il tradizionale ethos italiano radicato nel cattolicesimo” (33).
Il Mezzogiorno, in particolare, è stato aggredito contemporaneamente, e da più parti, da fermenti incalzanti di trasformazione, ma s’è mostrato per lungo tempo impermeabile alla modernità. Dunque, non il particolare modo di essere del popolo “napoletano”, ma il tentativo diffuso di annientarne la personalità e di dissolverne l’eredità ha innescato un processo di alienazione culturale, mentre il progressivo venir meno dei punti di riferimento sociali e istituzionali ha aperto la strada allo sviluppo della criminalità organizzata, la cui forza non è il radicamento nel Mezzogiorno — dove tutt’al più ha riattivato i circuiti classici della delinquenza locale, ampliandone le cerchie — ma l’incontro con fenomeni nuovi e poco “meridionali”, come il commercio internazionale di droga e di armi e la lotta per il controllo di enormi risorse finanziarie.
A partire soprattutto dalla seconda metà degli anni 1950 una nuova frana emigratoria — dopo la grande emigrazione transoceanica che aveva visto oltre cinque milioni di persone lasciare il Mezzogiorno fra il 1876 e il 1914 — ha prodotto la disarticolazione definitiva dell’antica organizzazione sociale e territoriale. Il Sud è passato negli ultimi quarant’anni con grande velocità da una società prevalentemente rurale a una realtà fortemente “modernizzata”, con una vera rivoluzione negli standard di consumo e negli stili di vita, nella mentalità e nella cultura. Il trasferimento massiccio dall’agricoltura al terziario di masse ingenti di persone prive di cultura industriale e di formazione adeguata ha comportato, fra l’altro, l’urbanizzazione selvaggia delle città meridionali e l’inefficienza dei pubblici servizi, i cui organici gonfiati hanno costituito in molti casi l’unica risposta all’affluente offerta di lavoro delle regioni meridionali. Con l’assimilazione dei comportamenti proposti dal modello consumistico, ritenuto superiore a quello tradizionale, l’identità del Mezzogiorno si sta dissolvendo nel crogiolo dell’omologazione, favorita dalla scuola, dai partiti politici e dai grandi mezzi d’informazione.
È tempo di procedere a un inventario di quanto sopravvive dell’antica civiltà napoletana dopo la così detta “grande trasformazione” e di studiare le radici, i modelli di socialità e la cultura che hanno caratterizzato questa parte d’Italia. Bisognerà studiare, dunque, le famiglie più che un moralistico familismo, i problemi dell’agricoltura più che un’astratta civiltà contadina, la struttura degl’insediamenti abitativi più che il parassitismo urbano, la produzione e gli scambi economici più che la generica nozione di arretratezza, le organizzazioni di mafia più che lo sfuggente ethos mafioso, nella consapevolezza che la soluzione della Questione Meridionale passa attraverso la rinascita religiosa e civile del Mezzogiorno e il ricupero delle sue radici storiche e nazionali, da tempo conculcate e disprezzate.
Francesco Pappalardo
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* Relazione, riveduta e annotata, svolta al convegno sul tema 1799-1999. Dalla Santa Fede alla Questione Meridionale. Cronache di una resistenza, tenuto a Napoli, nella Sala Capri dell’hotel Santa Lucia, il 27-11-1999, e promosso dall’ISIN, l’Istituto per la Storia delle Insorgenze, in collaborazione con Alleanza Cattolica e con l’associazione Opportunità Europa (cfr. Cristianità, anno XXVIII, n. 297, gennaio-febbraio 2000, pp. 29-30).
(1) Benedetto Croce, Storia del Regno di Napoli, 1924, Laterza, Bari 1980, pp. 162-163.
(2) Giuseppe Galasso, Considerazioni intorno alla storia del Mezzogiorno d’Italia, in Idem, Mezzogiorno medievale e moderno, Einaudi, Torino 1965, pp. 13-59 (pp. 26-27).
(3) Idem, L’Italia come problema storiografico, Introduzione alla Storia d’Italia da lui diretta, UTET, Torino 1979, p. 179.
(4) Idem, Considerazioni intorno alla storia del Mezzogiorno d’Italia, cit., p. 41.
(5) Cfr. il termine è in Carmine Donzelli, Mezzogiorno tra “questione” e purgatorio. Opinione comune, immagine scientifica, strategie di ricerca, in Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali, anno IV, n. 2, Roma maggio 1990, pp. 13-53 (p. 14).
(6) Mario Del Treppo, Realtà, mito e memoria di Napoli aragonese, in Ilaria Zilli (a cura di), Fra spazio e tempo. Studi in onore di Luigi De Rosa, vol. I. Dal Medioevo al Seicento, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995, pp. 361-382 (p. 377).
(7) Cfr. B. Croce, Il “paradiso abitato da diavoli”, in Idem, Uomini e cose della vecchia Italia, Laterza, Bari 1927, serie prima, pp. 68-86; sugli effetti deleteri della propaganda antiborbonica degli esuli, cfr. Marta Petrusewicz, Come il Meridione divenne una Questione. Rappresentazioni del Sud prima e dopo il Quarantotto, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 1998, da cui traggo il titolo di questo studio.
(8) Giuseppe Giarrizzo, Mezzogiorno senza meridionalismo. La Sicilia, lo sviluppo, il potere, Marsilio, Padova 1992, p. XV.
(9) Ernesto Galli della Loggia, L’identità italiana, il Mulino, Bologna 1998, p. 65.
(10) Carlo Tullio Altan, Il brigantaggio post-unitario. Lotta di classe o conflitto di civiltà?, in Omar Calabrese (a cura di), Italia moderna. Immagini e storia di un’identità nazionale, vol. I, Electa, Milano 1982, pp. 99-117 (p. 114).
(11) Cfr. Pasquale Villari, Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia, Guida, Napoli 1979.
(12) Cfr. Leopoldo Franchetti, Condizioni economiche ed amministrative delle province napoletane. Appunti di viaggio, Laterza, Roma-Bari 1985.
(13) Cfr. Sidney Costantino Sonnino, I contadini in Sicilia, Vallecchi, Firenze 1925.
(14) Rosario Romeo, Risorgimento e capitalismo, Laterza, Bari 1959, p. 197.
(15) Cfr. Robert Lumley e Jonathan Morris (a cura di), Oltre il meridionalismo. Nuove prospettive sul Mezzogiorno d’Italia, 1997, trad. it., Carocci, Roma 1999; in particolare M. Petrusewicz, Il tramonto del latifondismo (pp. 31-50); e Paolo Macry, La metropoli meridionale. Circuiti redistributivi nella Napoli del XIX secolo (pp. 67-87).
(16) Pasquale Stanislao Mancini, Discorso parlamentare dell’8 dicembre 1861, in Atti del Parlamento italiano. Sessione del 1861. 2° periodo. Discussioni della Camera dei Deputati, Botta, Torino 1862, pp. 212-225 (p. 220).
(17) Ibid., p. 218.
(18) Cfr. Gabriella Gribaudi, Le immagini del Mezzogiorno, in R. Lumley e J. Morris (a cura di), op. cit., pp. 89-111.
(19) Giustino Fortunato, La questione meridionale e la riforma tributaria, 1904, in Idem, Il Mezzogiorno e lo Stato italiano. Discorsi politici (1880-1910), Laterza, Bari 1911, vol. II, pp. 311-373 (p. 323).
(20) Ernesto De Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, il Saggiatore, Milano 1996, p. 29.
(21) Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, 1945, Mondadori, Milano 1968, pp. 103-105 e 119-120.
(22) Cfr. Alfonso Maria Di Nola, Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, Boringhieri, Torino 1976.
(23) Cfr. E. De Martino, Sud e magia, 1959, Feltrinelli, Milano 2000.
(24) Cfr. Ernest C. Banfield, Le basi morali di una società arretrata, 1958, trad. it., il Mulino, Bologna 1976.
(25) Cfr. Robert D. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, trad. it., Mondadori, Milano 1993.
(26) Cfr. Silvio Tramontin, Movimento cattolico e azione sociale in Italia meridionale all’epoca della presidenza Paganuzzi (1891), in Società, religiosità e movimento cattolico in Italia meridionale, La Goliardica, Roma 1977, pp. 55-109.
(27) Cfr. Idem, Osservazioni di un padre redentorista sulla situazione del cattolicesimo in Italia meridionale (1901), ibid., pp. 285-289.
(28) Cfr. mons. Nicola Monterisi, Trent’anni di episcopato. Moniti ed istruzioni, Pisani, Isola del Liri (Frosinone) 1950.
(29) Cfr. un esame della ricerca storica sull’argomento in G. Galasso, La storia socio-religiosa e i suoi problemi, in Idem, L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, nuova edizione accresciuta, Argo, Lecce 1997, pp. 439-458.
(39) Marco Meriggi, Milano borghese: circoli ed elites nell’Ottocento, Marsilio, Padova 1992, p. 149.
(31) Piero Bevilacqua, Presentazione a Mario Alcaro, Sull’identità meridionale. Forme di una cultura mediterranea, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. VII-XXVII (p. IX).
(32) Cfr. Francisco Elías de Tejada y Spínola, La monarchia tradizionale, ed. it., Edizioni dell’Albero, Torino 1966, pp. 29-32.
(33) Massimo Introvigne, L’”ethos” italiano e lo spirito del federalismo, con presentazione di Pierferdinando Casini, Gruppo Parlamentare Centro Cristiano Democratico. Camera dei Deputati-Di Giovanni, San Giuliano Milanese (Milano) 1995, pp. 20-21.