Giovanni Cantoni, Cristianità n. 420 (2023)
Trascrizione di un intervento tenuto nel 1980 da Giovanni Cantoni (1938-2020), fondatore di Alleanza Cattolica. Gli inserti fra parentesi quadre sono redazionali.
1. Al Pater è connessa la virtù teologale della speranza: si può dire che [questa preghiera] è l’elenco delle cose da sperare. Prima di commentare il Pater è bene soffermarsi sulla speranza.
[Joseph] Pieper (1904-1997) dice: «Un filosofo non potrebbe mai spiegare la speranza come virtù se non fosse pure un teologo cristiano. Perché, o la speranza è una virtù teologale oppure non è virtù. Lo diventa solo per mezzo di ciò che la rende virtù teologale» (1).
Che cos’è una virtù? Il Catechismo maggiore di Papa san Pio X (1903-1914) risponde: «La virtù è una qualità dell’anima, per la quale si ha propensione, facilità e prontezza a conoscere ed operare il bene» (2).
Ci sono le virtù naturali, cioè quelle che acquisiamo ripetendo atti buoni, [ovvero] l’abitudine a fare il bene — così come, di converso, il vizio è l’abitudine a fare il male — e vi sono le virtù soprannaturali — cioè quelle che non possiamo né acquistare, né esercitare con le sole nostre forze, ma ci vengono date da Dio — e sono le virtù proprie del cristiano, in modo eminente la fede, la speranza e la carità, che si chiamano «teologali» o divine perché hanno Dio per soggetto e per motivo.
Dunque, secondo Pieper, la speranza «[…] è virtù teologale oppure non è virtù». E questo è importante. Prendiamo per esempio la giustizia: quando la giustizia cessa di volgersi al bene, cessa pure di essere giustizia; la speranza, invece, no: può volgersi al male, senza con questo cessare di essere speranza. Alla speranza naturale manca quello che è proprio del concetto di virtù, cioè di essere talmente rivolta al bene da non poter rivolgersi al male: come diceva il catechismo, «una costante dell’anima a fare il bene».
Come si fa, allora, a dare questa costante all’anima, questa stabilità alla tendenza al bene che è necessaria per farla essere virtù? Riesco a farlo solo se la oriento verso Dio, attraverso Dio, cioè solo se diventa virtù teologale. La speranza è virtù solo se è virtù teologale, altrimenti non è più virtù. Il che equivale a dire: la speranza è tendenza al bene, cioè al vero compimento dell’essere, solo se trae origine nell’uomo dalla realtà della Grazia e si dirige alla felicità soprannaturale in Dio.
Ma allora — chiede qualcuno — la speranza naturale, il protendersi della speranza istintiva, che cos’è, a che cosa serve? Ecco, come tutte le cose di natura, anch’essa è materia «informabile», cioè, da formare, come qualcosa che aspetti un’impronta, e questa impronta la riceve proprio da questa giusta misura della virtù: quindi, anche la speranza naturale partecipa alla tendenza al bene attraverso questa impronta.
In questa partecipazione fanno da corredo due altre virtù, la magnanimità e l’umiltà: la prima fa da propellente, la seconda da limite, ed entrambe sono necessarie e solo apparentemente in contrapposizione.
Pensate a come l’opinione comune deturpi e stravolga queste virtù. La magnanimità è quasi dimenticata, l’umiltà viene subito associata a quell’atteggiamento di tiepidezza, di rispetto umano, che spesso suona falso, che spinge a nascondersi per farsi seguire meglio.
La magnanimità — che noi associativamente abbiamo molto a cuore — è il tendere dello spirito a grandi cose, «extensio animi ad magna» (3). E l’umiltà — che non è l’opposto della magnanimità ma il suo completamento — è l’atteggiamento dell’uomo al cospetto di Dio, non un atteggiamento di relazione da uomo a uomo: è il sapere e il riconoscere la distanza infinita fra Creatore e creatura; è, come ha detto qualcuno, il «valore proprio dell’uomo davanti a Dio».
È magnanimo chi osa grandi cose e se ne fa degno, è umile chi conosce e riconosce le proprie limitazioni nel raggiungimento di queste grandi cose.
Dunque, la speranza soprannaturale impronta la speranza naturale, che, a sua volta, acquista slancio dalla magnanimità e dalla coscienza dei propri limiti, dall’umiltà.
Dall’insieme della magnanimità e dell’umiltà nasce l’ordine dello sperare naturale, ordine ontologicamente esatto, perché la magnanimità colloca tale sperare nelle alte possibilità che la natura umana, da Dio «mirabilmente creata e ancor più mirabilmente riformata» (4), racchiude in sé. Mentre l’umiltà, dal canto suo, svela alla vista dell’infinita distanza dell’uomo da Dio i limiti di queste possibilità, preservandole da realizzazioni apparenti.
2. L’uomo — si dice — è pellegrino sulla terra, è di passaggio: verissimo e importantissimo. Lo «status viatoris» che indica la condizione dell’«essere per via» è un’idea basilare della dottrina cristiana della vita.
Il concetto opposto è quello di «status comprehensoris», cioè di chi ha compreso, ha raggiunto, non più viator, ma comprehensor, non più il cammino verso la beatitudine, ma il possederla. Non più la tensione, ma il compimento oggettivo conforme all’essere e solo subordinatamente la risposta soggettiva a questo compimento, che è la visione beatifica di Dio.
Lo «status viatoris» non è una designazione di luogo, ma designa invece la più profonda costituzione della creatura, il suo essere «non ancora», che finisce soltanto quando tutto è irrevocabile. Ma questo momento di irrevocabilità può sigillare non solo il compimento ma anche il non compimento, può rappresentare il fissarsi irrevocabile all’essere, ma anche il fissarsi irrevocabile al nulla: può rappresentare la salvezza o la dannazione.
La condizione del viator è sempre fra il nulla e l’essere compiuto. Ma la via del viator non è «un qua e un là» senza direzione, fra l’essere e il nulla: conduce all’essere e allontana dal nulla, dev’essere un senso unico che conduce alla realizzazione e non all’annientamento, sebbene la prima sia «non ancora» compiuta e la ricaduta nel nulla sia «non ancora» impossibile. L’uomo che conosce la sua condizione di viator deve riconoscere la propria condizione di natura, la sua profonda differenziazione ontologica di fronte a Dio, che è «Colui che è», mentre l’uomo non «è» già la propria essenza ma «diventa» la propria essenza (5).
Ecco, questo uomo che conosce e riconosce la propria condizione di viator, cioè il suo essere e non ancora essere, ha un’unica risposta conveniente a questa esperienza: la speranza, che è la virtù primaria congiunta allo «status viatoris», che è la virtù propria del non ancora. Che è una virtù soprannaturale, in cui — certo! — ha la sua importanza anche la componente naturale, cioè la forza propria dell’uomo al raggiungimento di ciò che spera, la beatitudine eterna, ma che nella sua soprannaturalità non deriva dal merito, ma dalla Grazia e, se nella condizione di viator manca la speranza, questa mancanza si presenta in due forme: la disperazione e la presunzione di chi supera il «non ancora» con il «non» e di chi lo supera con il «già», di chi anticipa il non compimento e di chi anticipa il compimento, di chi non crede più nella possibilità di compiersi e di chi presume, a mezza via, di essere già arrivato, di «possedere», di «essere».
Il cristiano che dispera della vita eterna non solo annulla il carattere di «via» della sua esistenza naturale, ma rinnega la «via» reale, apparsa in figura d’uomo per condurci al compimento e alla felicità eterna: Cristo stesso. La disperazione è una decisione senza Cristo. La presunzione, invece, impedisce la realizzazione della speranza soprannaturale, non riconoscendo che la resistenza terrena nello «status viatoris» è, in senso stretto, la «via» al compimento finale: considerando la vita eterna come qualcosa che «in principio» è già data.
Nella condizione di viator, allora, né disperazione, né presunzione, ma speranza. Speranza soprannaturale, che vuol dire anche giovinezza, essere giovani, sempre. La speranza naturale è legata alla giovinezza fisica e sfiorisce con essa. I giovani hanno sempre speranza, perché il «non ancora» è molto piccolo rispetto al «già». Ma quando il «non ancora» diventa passato, diventa «già» e «non più»: è la vecchiaia, e con la vecchiaia muoiono le speranze, ma quelle naturali! Perché la speranza soprannaturale è l’opposto, non è legata alla giovinezza fisica, ma dona all’uomo un «non ancora» che è superiore al declinare della speranza naturale, dona all’uomo tanto avvenire che il passato di una vita anche lunghissima e ricchissima appare come «poco passato».
La virtù teologale della speranza è la forza di tendersi verso un «non ancora» che si amplia tanto più smisuratamente quanto più gli siamo vicini. È «l’eterna giovinezza» dei nostri santi e si capisce sant’Agostino [d’Ippona (354-430)] quando dice che Dio «[…] è allo stesso tempo più antico di tutte le cose in quanto è l’Essere più antico di tutte le cose, ed è più nuovo di tutte le cose in quanto è sempre il medesimo dopo tutte le cose» (6). La giovinezza dell’uomo che tende alla vita eterna è indistruttibile.
Nel libro di Isaia è scritto: «Egli dà forza allo stanco / e accresce il vigore a colui che è spossato. / I giovani si affaticano e si stancano; / i più forti vacillano e cadono; / ma quelli che sperano nel Signore acquistano nuove forze, / si alzano a volo come aquile, / corrono e non si stancano, / camminano e non si affaticano» (7).
La speranza, dunque. Ma chi è l’incarnazione della nostra speranza? È Cristo! Cristo è i1 reale fondamento della speranza: san Tommaso [d’Aquino O.P. (1225-1274)] dice che Cristo è entrato per noi all’interno del Tabernacolo e ha fissato là la nostra speranza (8). Cristo, fondamento della nostra speranza, ma anche reale compimento della nostra speranza. E proprio Cristo ci ha insegnato la preghiera che più innalza la nostra speranza a Dio: il Pater. È vero: qualunque preghiera è l’estrinsecazione e la proclamazione della speranza. Preghiera e speranza sono congiunti.
3. Da questo punto di vista il Pater è la preghiera per eccellenza. Sappiamo tutti che è la preghiera insegnata e raccomandata da Gesù Cristo. Sul monte degli Ulivi gli apostoli gli chiesero: «Signore, insegnaci a pregare» (9). E Gesù insegnò loro il Padre nostro. Perdonate la battuta, ma è davvero la preghiera «doc»! Come può non essere perfetta, se ce l’ha insegnata proprio Colui al quale la rivolgeremo?
Ma dal nostro punto di vista che cos’è il Pater? È la sintesi delle nostre speranze, anzi l’elenco delle nostre speranze. Ma è un elenco ordinato: sette domande rivolgiamo al Padre, ma in ordine. Prima quelle che riguardano i beni spirituali, poi le altre. E prima ancora il riconoscimento del nostro essere creature e Lui il Creatore.
Ecco: «Padre nostro che sei nei cieli» è la ricapitolazione sintetica, mirabilmente sintetica: è il chiodo cui appendiamo il quadro.
— «Padre nostro» e, quindi, «noi figli» e, quindi, subordinati e, quindi, con dei doveri: dobbiamo lodarlo, servirlo e riverirlo, dobbiamo onorarlo, imitarlo, fare quanto ci ordina e accettarne pazientemente i castighi che avremmo meritato. Quindi: prima Lui, poi noi. A che distanza? Infinita! Perché Lui è nei cieli e noi siamo qui!
— «Che sei nei cieli»: ed ecco che subito i termini e le distanze si chiariscono. In chi prega subito nasce l’idea della gloria in cui abita la divinità; subito nella mente di chi prega sovviene la potenza di Colui che lo ascolta. Un Dio che è nei cieli, nell’infinito, con la vista acutissima di chi può considerare le cose da molto in alto: onnisciente, onnipotente, eterno.
Ma non paura nei confronti di questo Dio o, meglio, non solo paura: anche fiducia. Perché quell’Essere infinito che noi preghiamo è anche nostro Padre e i padri sono sempre vicini ai figli e quelle distanze infinite si accorciano di colpo. E «i cieli» sono anche le anime dei giusti, cioè degli uomini santificati dalla Grazia, e il nostro Padre che è nei cieli è anche lì, vicino a noi, vicino a uomini come noi e, se lo vogliamo, anche dentro di noi.
Fissato il chiodo, appendiamo il quadro: ci troviamo sette domande, ordinate come abbiamo detto. Noi ci fermeremo a meditare sulle prime tre: «sia santificato il Tuo nome», «venga il Tuo regno» e «sia fatta la Tua volontà, come in cielo così in terra».
E lo faremo con un taglio che privilegia il nostro essere associativo.
— «Sia santificato il Tuo nome», «venga il Tuo regno», «sia fatta la Tua volontà» è anche un programma politico, nel senso buono del termine: evidentemente, speriamo in una società ordinata e lo chiediamo al Padre. Un ordine! Che cos’è l’ordine? È l’armonica disposizione del molteplice intorno all’uno, di ogni cosa intorno al suo principio. E ogni società tradizionale si fonda su un principio e su un ordine. Un principio che è lo stesso principio divino che spiega l’universo, un ordine che per essere riferito a questo principio non è solo un ordine sociale, ma è un ordine sacro, una gerarchia.
«Padre nostro che sei nei cieli» è il principio che spiega l’universo, il chiodo che regge un quadro. Il principio che spiega la grandezza di Dio e la nostra limitatezza, il suo stare nei cieli e il nostro stare in terra. La nostra condizione di creature e la Sua condizione di Creatore. E poi l’ordine riferito a questo principio: «sia santificato il Tuo nome», «venga il Tuo regno», «sia fatta la Tua volontà». La gerarchia, l’ordine non solo sociale, ma anche sacro.
Il sottotitolo di un libro in circolazione in questi giorni, dello storico francese Georges Duby (1919-1996), dal titolo Lo specchio del feudalesimo (10), dice: Sacerdoti, guerrieri e lavoratori.
Appunto: «sia santificato il Tuo nome», «venga il Tuo regno», «sia fatta la Tua volontà». È l’organizzazione della società conformemente al volere di Dio e, come dice Dante Alighieri (1265-1321): «È ottimamente disposto tutto ciò che attua i disegni del primo agente, che è Dio» (11). È la società perfetta, ovviamente della perfezione che le umane costruzioni possono raggiungere. È la società che rispetta la gerarchia dettata da Cristo. E il rispetto della gerarchia nella società è, dunque, anche il rispetto del piano divino riguardo alla maniera di essere di tutto il creato. È alla gerarchia che deve tendere l’uomo, se vuole essere veramente sé stesso, se vuole rispettare la sua natura, fare la volontà divina.
La società tradizionale è, dunque, la società che rispetta la gerarchia voluta da Dio. «Padre nostro che sei nei cieli» è il principio intorno al quale, anzi sul quale, si costruisce la società feudale. È la verità — dato, la verità — preesistente, che è una verità metafisica, attorno a cui si aggrega, ordinatamente, il corpo sociale.
— «Sia santificato il Tuo nome»: il sacerdozio.
Alcuni uomini sono chiamati a garantire questa verità-dato, a conservarla, a trasmetterla. Rinunciano ai legami materiali con il mondo e tessono attraverso il rito e la preghiera legami con l’invisibile: è questa l’autorità spirituale.
— «Venga il Tuo regno»: altri uomini consacrano le loro forze alla difesa della comunità; i giudici dai nemici interni e i guerrieri da quelli esterni, e rendono così possibile la celebrazione del culto. Essi vivono nel mondo e, dunque, nel tempo e nella storia. Attraverso la famiglia e la proprietà propagano nel tempo e nella storia la loro umanità e il loro sangue: è il potere temporale.
— «Sia fatta la Tua volontà»: altri uomini, infine, provvedono con la loro pratica alla sopravvivenza materiale della comunità e provvedono a fornire il pane e il vino per il rito, che altri celebrano e altri difendono.
Sant’Anselmo d’Aosta (1033/1034-1109) parlava dei tre ordini di uomini, paragonando alle pecore i sacerdoti, ai cani i guerrieri, ai buoi i produttori. Dio è per sant’Anselmo come un «pater familias» (12). «Padre nostro», appunto, che ha a sua disposizione delle pecore da cui trarre la lana e il latte per nutrirsi, dei buoi per lavorare la terra, dei cani per difendere le pecore e i buoi dai lupi. Alle tre qualità di questi animali — la mansuetudine, la laboriosità e la fedeltà — corrispondono le qualità dei tre ordini di uomini che Dio ha voluto sulla terra: orantes, defensores, agricultores. E di queste tre vocazioni, quella dei sacerdoti si realizza nella vita contemplativa, mentre quelle dei guerrieri e dei produttori si realizzano nella vita attiva.
E allora capiamo meglio il dettato di Cristo.
«Sia santificato il Tuo nome», prima delle altre cose. Perché, come il perenne prevale sul transitorio, il permanente sul contingente, così la vita contemplativa «semplicemente è migliore della vita attiva». Spetta ai sacerdoti illuminare l’azione del guerriero perché la sua azione divenga ascesi e la sua guerra divenga guerra santa. Spetta ai sacerdoti fondare le norme del lavoro affinché in esso i produttori possano trovare la loro realizzazione spirituale.
Sui due cardini della contemplazione e dell’azione la società tradizionale snoda il suo ritmo. Sacerdozio e regno: dalla tensione di questi due poli — che mèdiano il rapporto dell’uomo con l’invisibile — nasce l’equilibrio della vita civile nella società tradizionale. È un equilibrio che non c’è più, perché non c’è più la gerarchia, non c’è più società ordinata, perché la Rivoluzione, che tutto ha sovvertito, sembra dilagare. Può essere fermata? Sì! Perché si dice che la speranza è «l’ultima a morire» e, dopo quanto si è detto sulla speranza, sappiamo che, se morisse la speranza, moriremmo noi con essa, perché saremmo dei dannati.
Ogni uomo è viator, in bilico fra l’essere e il nulla. Ma finché è viator, per ogni uomo è sempre presente la possibilità della conversione. E lo stesso vale per la società, che è l’organizzazione degli uomini: per ogni società è sempre possibile la Restaurazione. Come? Attraverso la Contro-Rivoluzione, che è la restaurazione dell’ordine naturale e cristiano. Quell’ordine ha un chiodo, un dato preliminare: «Padre nostro che sei nei cieli», e si articola in quelli che operano per la santificazione del Suo nome, in quelli che lottano per la venuta del Suo regno, in quelli che vivono facendo la Sua volontà.
E noi chi siamo? Dove siamo? È chiaro: la nostra vocazione ci ha portato fra quelli che lottano per la venuta del Suo regno, fra i defensores, fra i guerrieri che difendono sia chi produce il pane e il vino, sia chi li trasforma nel Corpo e nel Sangue di Cristo.
E per noi non dovrà mai essere buio, perché vicino a noi dovrà sempre risplendere la luce della speranza. E saremo sempre giovani, per tutta la vita, perché la speranza soprannaturale ci proporrà sempre un futuro infinito, e quindi infinitamente più grande di qualsiasi pur lungo passato.
Giovanni Cantoni
Note:
1) Josef Pieper, Sulla speranza, 1935, trad. it., Morcelliana, Brescia 1953, p. 15.
2) Cfr. San Pio X, Catechismo maggiore,15a ed., Ares, Milano 2010, n. 856.
3) «Magnanimitas ex suo nomine importat quandam extensionem animi ad magna», cioè: «La magnanimità nel suo stesso nome implica una tendenza dell’animo verso grandi cose» (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, IIa-IIae, q. 129 a. 1).
4) Qui l’autore ricorda la preghiera che, nelle Messe secondo il Missale Romanum del 1962, viene recitata all’Offertorio, mentre il celebrante versa alcune gocce d’acqua nel calice: «Deus, qui humánae substántiae dignitátem mirabíliter condidísti, et mirabílius reformásti…». La preghiera è antichissima: il suo uso liturgico è precedente alla riforma di Papa san Pio V (1566-1572), infatti la si trova già nel Sacramentario Leoniano, risalente al secolo VI, come orazione festiva di Natale (cfr. monsignor Mario Righetti (1882-1975), Manuale di Storia liturgica, volume III, Ancora, Milano 1956, p. 266).
5) Cfr. J. Pieper, Sulla speranza, cit., pp. 7-10.
6) Sant’Aurelio Agostino, La genesi alla lettera, l. VIII, 26,48.
7) Is 40, 29-31.
8) «L’Apostolo […]con il santo dei santi, che con il velo veniva distinto dalle cose sante, intende lo stato della gloria futura. Perciò vuole che in esso sia fissata l’àncora della nostra speranza, anche se resta ancora velato ai nostri occhi. […] È lì che fissò la speranza il nostro precursore quando vi è entrato» (Tommaso d’Aquino, Super epistolam ad Hebraeos, c. 6, lect. 4, v. 19, n. 325).
9) Lc 11, 1.
10) Trad. it., Laterza, Roma-Bari 1998.
11) Dante Alighieri, Monarchia, con testo latino a fronte, a cura di Maurizio Pizzica, introduzione di Giorgio Petrocchi, Rizzoli, Milano 1989, libro I, cap. VIII, p. 179.
12) «Tra gli uomini si possono distinguere tre ordini: quello degli uomini di preghiera, quello degli agricoltori, quello dei guerrieri. Dio ha stabilito questi tre ordini nel nostro mondo, per far adempiere funzioni differenti, così come un capo famiglia vuole che nella sua casa ci siano pecore, buoi e cani molto grandi. Egli, infatti, alleva pecore perché gli producano latte e lana, buoi per lavorare le sue terre e cani per difendere le pecore e i buoi dai lupi. […]Allo stesso modo Dio tratta i differenti ordini degli uomini, che Egli ha istituito perché esercitino in questo mondo funzioni diverse. Ha destinato alcuni, chierici e monaci, a pregare per gli altri e a nutrili, come dolci pecore, con il latte della predicazione, con la lana del loro buon esempio. Altri, invece, come i contadini, sono destinati a provvedere, con il loro lavoro, analogo a quello dei buoi, al sostentamento di se stessi e degli altri. Alcuni, infine, come i cavalieri, Dio li ha destinati a dispiegare la forza e a difendere tanto gli uomini di preghiera quanto i lavoratori dei campi dall’attacco dei nemici come dai lupi» (Anselmo d’Aosta, De humanis moribus per similitudines, testo latino con trad. it. a fronte in Idem,Nel ricordo dei discepoli. Parabole, detti, miracoli, a cura di Inos Biffi, Aldo Granata, Costante Marabelli, Davide Riserbato, Jaca Book, Milano 2008, pp. 12-163 [pp. 127 e 129]).