Lug 5, 2019 | Fascicolo 1 – 2019, Freedom of Expression of Thought, Gender Stereotypes, Homotransnefativity, Libertà di pensiero, Omotransnegatività, Pluralism., Quotas for Gays, Quote gay, Stereotipi. Dal Centro Studi Livatino. Foto da articolo
Francesco Farri
Dottore di ricerca – Università La Sapienza di Roma
Avvocato in Firenze
CONSIDERAZIONI SUL PROGETTO DI LEGGE REGIONALE DELL’EMILIA ROMAGNA CONTRO L’”OMOTRANSNEGATIVITÀ”*
Sommario: 1. Introduzione – 2. Le disposizioni di principio – 3. Le politiche attive – 4. I controlli – 5. La spesa pubblica
1. Introduzione
Il progetto di legge regionale n. 7159, presentato all’Assemblea Regionale dal Consiglio Comunale di Bologna[1], contro l’omotransnegatività e le violenze determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere è un testo normativo composto da 8 articoli, oltre a due conclusivi in materia di copertura finanziaria e di valutazione sull’attuazione della legge, che possono essere concettualmente suddivisi in quattro gruppi.
Un primo gruppo, che sarà esaminato nel par. 2, è quello delle disposizioni “di principio”, che comprende essenzialmente l’articolo 1 e che la relazione illustrativa aiuta a interpretare.
Un secondo gruppo, che sarà esaminato nel par. 3, è quello delle disposizioni che potrebbero definirsi di “politiche attive”, ma in verità anche di “omologazione” o di “normalizzazione”, contenendo l’indicazione di una serie di misure di politica attiva mediante le quali la Regione si propone di implementare la propria visione delle questioni legate all’orientamento sessuale e di debellare le visioni dissidenti. Si possono comprendere in tali gruppi gli articoli 2, 3, 5 e il secondo comma dell’art. 8.
Un terzo gruppo, che sarà esaminato nel par. 4, è quello delle disposizioni che potrebbero definirsi di “controllo” o, più icasticamente, di “polizia” nel senso proprio del termine di ius politiae, di polizeistaat[2], ossia di predisposizione di un apparato amministrativo tale da garantire l’ottemperanza alle norme espressive dei fini indicati dall’amministrazione stessa. A tale gruppo si ascrivono le disposizioni di cui agli articoli 7 e 8, comma 1.
Infine, vi è un gruppo di disposizioni che possiamo definire di “mera spesa pubblica”, in quanto si limitano a destinare somme a vantaggio della causa LGBT. Si tratta degli articoli 4 e 6 del progetto di legge, su cui ci si soffermerà brevemente nel par. 5.
Durante l’esame in commissione, il progetto di legge in questione è stato fatto oggetto di ben 24 emendamenti, sui quali tuttavia le votazioni non sono state ancora avviate al momento in cui si scrive. Conseguentemente, si terrà conto nel prosieguo sia del testo originario, sia del testo che risulterebbe laddove gli emendamenti venissero approvati. In proposito, può subito dirsi che, pur valendo indubbiamente a migliore il testo originario, gli emendamenti non appaiono comunque sufficienti a risolvere le criticità che affliggono il progetto di legge e che sono radicali, strutturali e superabili soltanto mediante
2. Le disposizioni di principio
2.1. Le disposizioni di principio rendono chiaro come il proposito della legge sia «promuove[re] e realizza[re] politiche, programmi ed azioni finalizzati a … prevenire e superare le situazioni, anche potenziali, di discriminazione e omotransnegatività, quali comportamenti di avversione, dileggio, violenza verbale, psicologica o fisica».
Al centro della finalità della legge vi è, dunque, un concetto – quello di “omotransnegatività” – innovativo per il linguaggio legislativo, indeterminato nei contenuti e ideologicamente orientato.
Proponendosi di combattere la “negatività” verso il fenomeno omosessuale, infatti, lo spettro semantico del lemma richiede un approccio “positivo” verso il fenomeno omosessuale che, come evidente, non si traduce unicamente nella stigmatizzazione dei comportamenti attivi di discriminazione e violenza, ma anche di tutti quei comportamenti non sufficientemente “positivi” e “propositivi” verso le realtà coinvolgenti omosessuali. Volendo esemplificare, non è semanticamente “omotransnegativo” soltanto chi insulta una persona perché omosessuale, ma anche chi – ad esempio – sostiene che le coppie omosessuali non possano accedere a certi istituti giuridici (come il matrimonio) poiché li considera – sulla base di un pensiero giuridicamente razionale – riservati a coppie di sesso diverso. Anche questo pensiero, infatti, non può considerarsi “positivo” verso il fenomeno omosessuale e, come tale, ricade pienamente nello spettro semantico della “omotransnegatività”, quindi tra i comportamenti e i pensieri che la proposta di legge regionale intende contrastare e possibilmente debellare.
A conferma di questa lettura, va osservato come la pur vaghissima definizione che l’art. 1 cerca di offrire si basa, ancor prima che sui concetti di violenza (ai quali è riconducibile anche il “dileggio”, nella misura in cui esso si diversifichi dal diritto di satira garantito sotto l’egida dell’articolo 21 della Costituzione)[3], sul concetto di “avversione”. A meno di non voler pensare che la proposta di legge ambisca a scandagliare l’animo di ciascuno per sindacare come la pensi in cuor suo su certi argomenti, l’avversione percepibile nel mondo giuridico è quella che si esterna tramite comportamenti di critica, di contrarietà, di contrasto a certi fenomeni. Si conferma, quindi, che il contrasto alla “omotransnegatività” implica per sua natura il contrasto, non soltanto – e giustamente[4] – a chi usa violenza nei confronti di persone omosessuali o le fa oggetto di trattamenti differenziati privi di fondamento giuridicamente razionale (poiché è così che deve intendersi il concetto di discriminazione)[5], ma anche a chi manifesta contrarietà rispetto a qualsivoglia forma di istanza proveniente dal contesto omosessuale.
Correlativamente, il concetto di “omotransnegatività” implica la decisione, da parte della Regione, a favore di uno specifico orientamento ideologico (quello espresso dal mondo LGBT) e il contrasto a tutte le posizioni che tale orientamento avversano o criticano. Il riferimento a situazioni “anche potenziali” di “omotransnegatività” eleva a potenza l’effetto in questione, insieme con l’indeterminatezza e la portata espansiva pressoché illimitata del concetto stesso di “omotransnegatività”.
L’ente pubblico, quindi, non si fa più garante del pluralismo del pensiero, non si fa più regolatore delle molteplici istanze culturali provenienti dalla società democratica, ma scende in campo per sposarne una e dire che tutte le altre sono sbagliate e da contrastare. Ci si pone, quindi, ben oltre rispetto ai principi di pluralismo ideologico e culturali cui sono informati i principi supremi della nostra Costituzione[6], sponsorizzando un’omologazione del pensiero, sul modello del pensiero unico, e la normalizzazione delle posizioni di dissenso. La lettura della relazione illustrativa appare emblematica in tal senso. Si considera la promozione delle istanze omosessuali come “una causa di civiltà”, appellandosi a un presunto e indimostrato «aumento della violenza fisica e psicologica contro le persone omosessuali e transessuali», senza rilevare che tale emergenza in Italia non può dirsi sussistere[7] e, soprattutto, senza considerare che la nostra Costituzione Repubblicana rispecchia una cultura spesso diversa da quella proposta dal mondo omosessuale, visto che conferisce – ad esempio –rilievo espresso negli articoli 3, 37 e 51 al sesso biologico (così presumendo una coincidenza con esso del ruolo sociale della persona, ossia di quella che in alcuni testi sovranazionali viene indicata come identità di genere) e visto che collega il concetto di famiglia alla società naturale fondata sul matrimonio (art. 29), con la conseguenza – chiarita dalla Corte Costituzionale (sent. n. 138/2010) – che «le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio».
In un quadro del genere, soltanto le ridotte competenze regionali in materia possono indurre qualche remora a qualificare come illiberale e autoritaria una proposta di legge, come quella in esame, che sceglie una delle possibili culture presenti nella società civile per preferirla alle altre e farla prevalere su esse.
2.2. Né sarebbe sufficiente, per migliorare il quadro sopra tratteggiato, espungere o modificare il termine di “omotransnegatività” dalla intitolazione e dall’art. 1 della legge, come hanno proposto gli emendamenti presentati dalla stessa relatrice di maggioranza.
Anzitutto va osservato, come meglio si dirà esaminando il secondo gruppo di disposizioni, che è l’intero impianto della legge a rispecchiare il carattere ideologico e antipluralista così icasticamente rappresentato dal lemma “omotransnegatività” adottato da chi ha proposto la legge stessa. È l’intero impianto della legge, infatti, a richiedere lo svolgimento di politiche attive volte a diffondere le istanze del mondo omosessuale e a scoraggiare i dissenzienti dal continuare a pensarla diversamente. Per cui non basta cambiare la parola simbolo di tale approccio per evitare le gravi conseguenze dell’approccio stesso.
Inoltre, va ricordato che per combattere i comportamenti attivi di violenza e discriminazione sono già presenti nell’ordinamento strumenti più che adeguati, ossia in particolare la repressione penale[8]. Per cui o la legge è inutile, e quindi incostituzionale per violazione del principio di razionalità[9], oppure vuole dire qualcosa di più. Ed è proprio questo qualcosa in più, ossia l’implementazione del pensiero unico omosessualista che la legge si pone come obiettivo, che non può essere in alcun modo condiviso.
Infine, va osservato che, nelle proposte di emendamento, all’eliminazione del concetto di “omotransnegatività” e del riferimento all’avversione verso le realtà omosessuali fa da contraltare l’introduzione del concetto – altrettanto innovativo – di “stereotipi discriminatori” che, in verità, non appare meno vago e più rassicurante di quello originario. Infatti, il proposto nuovo comma 2 bis dell’art. 2 definisce gli stereotipi discriminatori, al cui contrasto e alla cui prevenzione è diretta tutta la legge, come «pregiudizi che producono effetti lesivi della dignità, delle libertà e dei diritti inviolabili della persona, limitandone il pieno sviluppo». Ben si vede come la questione attenga pur sempre alla dimensione e del giudizio individuali e, pertanto, ponga i medesimi problemi di compatibilità con l’art. 21 Cost. sopra evidenziati con riferimento al testo originario: in questa prospettiva, si comprende agevolmente come il richiamo che il medesimo nuovo comma 2 bis effettua al «pieno rispetto della libertà di pensiero, di educazione e di espressione costituzionalmente garantiti a tutta la cittadinanza» abbia carattere meramente formale e di stile, poiché è la stessa definizione di stereotipo che viene fornita a incidere sulle libertà appena menzionate. Inoltre, la fattispecie dello “stereotipo discriminatorio” appare costruita in termini intrinsecamente vaghi e, come tali, suscettibili di far ricadere nel proprio alveo anche giudizi e pensieri che corrispondono specificamente ad alcune architravi del disegno costituzionale e all’esercizio di libertà costituzionalmente garantite. Si pensi, ad esempio, al caso dell’opinione secondo cui una coppia di persone dello stesso sesso non possa avere bambini: corrisponde, essa, o meno alla fattispecie dello stereotipo discriminatorio disegnata dalla legge regionale? Non vi è dubbio che la negazione dell’accesso alla filiazione possa essere presentata come lesiva di una (pseudo) libertà “riproduttiva” delle persone omosessuali e, pertanto, ricadere nell’ambito dei pregiudizi che la legge regionale si propone di contrastare. Si pensi, ancora, al caso dell’opinione secondo cui una coppia di persone dello stesso sesso non possa accedere al matrimonio: corrisponde, essa, o meno alla fattispecie dello stereotipo discriminatorio disegnata dalla legge regionale? Non vi è dubbio che la negazione dell’accesso al matrimonio possa essere presentata come lesiva di alcune (pseudo) libertà della persona e, pertanto, ricadere nell’ambito dei pregiudizi che la legge regionale si propone di contrastare. Si pensi, infine, al caso della credenza religiosa secondo cui gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso costituiscono peccati gravi: corrisponde, essa, o meno alla fattispecie dello stereotipo discriminatorio disegnata dalla legge regionale? Non vi è dubbio che la negazione dell’accesso al matrimonio possa essere intesa come lesiva della dignità delle persone omosessuali e, pertanto, ricadere in pieno nell’ambito dei pregiudizi che la legge regionale si propone di contrastare. Sennonché si tratta, come evidente, di tre ordini di pensieri che traggono il proprio fondamento direttamente in altrettanti principi costituzionali[10]. Appare, quindi, chiaro come neppure le proposte di emendamento permettano di esprimere un giudizio giuridicamente positivo sulla legge: è, in verità, la Costituzione Italiana la prima fonte di quelli che la proposta di legge regionale indica come “stereotipi” potenzialmente discriminatori e si propone di combattere e superare. Contrastare chi avversa posizioni che vogliano superare tali “stereotipi” significa contrastare chi si fa portatore delle istanze culturali su cui si basa la nostra Costituzione.
3. Le politiche attive
Il cardine della legge, come si è detto, è costituito da una serie di politiche attive che la Regione si impegna a compiere per inculturare la popolazione residente in Emilia Romagna e scongiurare le opinioni dissenzienti. Queste politiche attive interessano i versanti centrali del rapporto delle persone con il mondo giuridico esterno alla propria sfera domestica: il lavoro, la scuola, lo sport, la sanità, l’assistenza, le telecomunicazioni.
3.1. Per quanto riguarda il lavoro, si prevede al comma 1 dell’articolo 2 che Regione ed enti locali «adottano interventi in favore delle persone discriminate in ragione dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere, anche mediante la promozione di specifiche politiche … per l’inserimento lavorativo». La formula utilizzata non è ben comprensibile, ma sembra preludere all’introduzione di una forma di riserva di posto di lavoro nelle amministrazioni territoriali alle persone “discriminate” perché omosessuali. Non è neppure comprensibile come debbano essere individuate le persone “discriminate” destinatarie di tali misure, se cioè debbano intendersi tali per definizione tutti gli omosessuali, come induce a ritenere la relazione illustrativa e come altri articoli del progetto di legge espressamente affermano, oppure le persone che abbiano denunciato atti specificamente discriminatori, magari all’osservatorio regionale di cui all’articolo 7, che così diventerebbe una sorta di ufficio di pre-collocamento, oppure le persone offese da comportamenti illeciti accertati dalla magistratura. L’assoluta vaghezza della clausola utilizzata non permette affatto di circoscrivere le misure in questione al solo ultimo caso menzionato, lasciando amplissima discrezionalità alle amministrazioni.
Sempre relativamente al lavoro, l’articolo 2[11] apre all’introduzione delle “quote gay” nel personale delle amministrazioni regionali e locali, all’introduzione nei codici di comportamento del personale di clausole che impongono al dipendente di rinnegare pubblicamente il sostegno a ogni “stereotipo” (nel senso anzidetto), e all’introduzione di corsi di formazione obbligatori per i dipendenti per debellare tali “stereotipi”. Siamo al centro della propulsione ideologica e della natura antipluralista della proposta di legge: se si vuole lavorare in Regione o nelle amministrazioni, bisogna essere “gay friendly” e deve farsi pubblica abiura delle opzioni culturali che, fermo l’ovvio rispetto per la dignità di ogni persona, avversano le istanze omosessualiste. Poco male se tali opzioni culturali trovano il loro fondamento nella Costituzione o comunque in culture ben più radicate di quella omosessuali sta e oggetto di specifica protezione costituzionale, come ad esempio quella religiosa e in particolare cattolica, con riferimento alle quali è la Costituzione stessa a garantire espressamente il diritto di “propaganda” (art. 19 Cost.). Per necessità familiare, nella specie lavorativa, dovranno abbandonarsi.
Infine, si osserva come l’ampiezza della formulazione della legge non escluda affatto che tali misure (quote gay, codici di comportamento e corsi di formazione anti-stereotipo) possano essere imposti anche a datori di lavoro privati che intendano intrattenere rapporti con le pubbliche amministrazioni regionali e locali.
3.2. Per quanto riguarda la scuola, l’art. 3 della proposta di legge è chiaro nell’aprire all’introduzione di corsi di formazione obbligatori anti-stereotipi per gli insegnanti e all’introduzione nelle scuole “di ogni ordine e grado” di progetti gender.
A quest’ultimo riguardo è bene sottolineare come il richiamo che il comma 1 dell’articolo in questione effettua al ruolo educativo dei genitori non valga affatto, per come è formulato, a introdurre il principio del consenso dei genitori alla partecipazione dei figli minori ai progetti gender: si parla, infatti, di “progettualità che in tal senso coinvolgano anche i genitori”. I genitori non devono essere sentiti per il consenso, ma essere coinvolti essi stessi (“in tal senso”) nei progetti rieducativi. La proposta di emendamento n. 9 corregge tale macroscopico aspetto di violazione dell’art. 30 Cost., ma non toglie l’assunzione di un impegno da parte della Regione a generalizzare l’introduzione nelle scuole dei corsi gender, così massimizzando le prospettive di indottrinamento delle giovani generazioni.
La norma non circoscrive espressamente la propria portata applicativa alle scuole pubbliche, ma afferma che tali corsi e progetti saranno introdotti nell’ambito delle competenze regionali e “d’intesa con l’ufficio scolastico regionale” (nella versione emendata, si usa l’analoga espressione “in collaborazione con” tale Ufficio). Non è certo che le scuole non statali paritarie siano del tutto escluse dall’àmbito applicativo della norma: si ricorda, invero, che il riconoscimento di parificazione è di competenza statale, ma deve essere richiesto proprio all’ufficio scolastico regionale. Non è quindi possibile escludere che si rinvengano interstizi per richiedere una forma di introduzione di tali corsi anche nelle scuole paritarie.
Per concludere sull’articolo 3, deve infine osservarsi come non sia possibile immaginare in modo giuridicamente razionale in cosa si risolva «l’equa partecipazione allo sport, contrastando stereotipi di genere l’abbandono sportivo» (concetti che già comparivano nell’art. 1, c. 4, lett. c della l.r. n. 8/2017), cui è dedicato il comma 2 dell’articolo stesso. Forse si tratta di garantire, ad esempio, che gli uomini transessuali o anche solo transgender possano gareggiare in sport femminili: le statistiche porrebbero così l’Emilia Romagna all’avanguardia in termini di successi negli sport “femminili”, ma si porrebbe certamente un problema gravissimo per il movimento dello sport femminile visto che, in esso, le donne risulterebbero certamente svantaggiate rispetto ai competitor transgender, viste le strutturali diversità di conformazione fisica.
3.3. Per quanto riguarda i servizi sanitari, socio-sanitari e socio-assistenziali, l’articolo 5 impegna gli enti pubblici coinvolti nel settore a fornire “sostegno” in favore delle persone omosessuali, per il sol fatto di essere omosessuali. In cosa possa consistere questo sostegno non è specificato, ma si possono immaginare ad esempio ipotesi di riserva di posti letto in case di riposo o agevolazioni tariffarie per gli omosessuali, misure che non appare possibile escludere neppure con la riformulazione proposta dall’emendamento n. 13. Anche per il personale delle strutture sanitarie e assistenziali saranno, poi, introdotti corsi di formazione gender.
3.4. Infine, il comma 2 dell’art. 8 incarica il Comitato Regionale per le Comunicazioni (Corecom) di «garantire adeguati spazi di informazione e di espressione in ordine alla trattazione delle tematiche» legate all’omosessualità. Si è di fronte, in poche parole, al tentativo di introduzione di quote gay anche nei mass media e di ciò si è accorto pure il Corecom, che in una deliberazione del 13.02.2019 ha suggerito quanto meno di espungere il riferimento agli spazi “di informazione” e di introdurre il lemma “anche” quando si parla della garanzia di spazi di espressione delle tematiche omosessualiste, così dando conto che lo spazio di espressione dovrebbe essere garantito anche a tematiche e opinioni diverse. Come ben si comprende, tuttavia, le modifiche proposte dal Corecom non risultano sufficienti a fornire adeguate garanzie che la legge non sia utilizzata per compiere l’opera di indottrinamento, cui è preordinata, anche sfruttando il grande potere che in tal senso possono rivestire i mass media. A maggior ragione, quindi, non appaiono sufficienti le correzioni proposte dall’emendamento n. 20, che recepisce il parere del Corecom, ma omette di espungere il riferimento alla garanzia di apposti spazi di informazione, che potrebbero tradursi, ad esempio, in rubriche obbligatorie sulle “news dal mondo gay” da inserire nei notiziari regionali.
4. I controlli
Se le misure finora descritte disegnano il versante ideologico e antipluralista della proposta di legge, le disposizioni del terzo gruppo – che abbiamo definito di “controllo” o di “polizia” – lasciano intravedere prospettive ancor più inquietanti.
4.1. L’articolo 7 prevede la schedatura presso l’osservatorio regionale già previsto dalla l.r. n. 6/2014 dei “dati” relativi ai casi di «fenomeni legati alla discriminazione e violenza dipendente dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere in Emilia-Romagna».
Non è chiaro se con il predetto concetto si intendano soltanto i fenomeni di discriminazione e violenza, cui espressamente si riferisce l’articolo, o anche i fenomeni di semplice avversione (i quali pure rientrano nel concetto di “omotransnegatività” che – come visto – la legge mira parimenti a debellare) o di “stereotipo”. L’impressione è che sia vera la seconda interpretazione, perché non vi sarebbe bisogno di una nuova previsione legislativa regionale per disciplinare il monitoraggio dei casi di violenza e discriminazione, visto che essi risultano già monitorati per effetto della l.r. n. 6/2014 oltre che degli ordinari casellari penalistici. Allora, se la nuova previsione ha un senso[12] vuol dire che essa va oltre le ipotesi da ultimo richiamate, ciò che del resto appare conforme – come si è detto – al complessivo tessuto della legge stessa.
Ora, appare fin troppo evidente che è manifestamente contrastante con il principio costituzionale di libera manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) la schedatura delle persone in ragione del proprio pensiero (in specie, in ragione delle proprie opinioni culturali che, nell’ovvio rispetto per le persone omosessuali, siano però tuttavia contrarie alle rivendicazioni LGBT). La schedatura da parte della pubblica autorità, infatti, per sua natura induce remore nel compiere il comportamento schedato ancorché non illecito e, quindi, qualora esso abbia ad oggetto le opinioni personali, induce remore a esprimere liberamente tali opinioni[13]. Oltre a ciò, si osserva come la proposta di legge non escluda affatto che i dati raccolti nella schedatura possano essere utilizzati per negare l’erogazione di beni e servizi agli schedati. Non vi sarebbe da meravigliarsi, ad esempio, di una successiva deliberazione la quale disponga che gli alloggi popolari vengano assegnati di preferenza a persone non schedate come omofobe, oppure di un provvedimento che neghi l’autorizzazione all’utilizzo di spazi pubblici da parte di associazioni schedate come omofobe.
4.2. Se la carica illiberale di una previsione di questo genere appare davvero molto elevata, quella del comma 1 dell’articolo 8 non lo è di meno. La disposizione, infatti, attribuisce al Corecom una funzione di «rilevazione sui contenuti della programmazione televisiva e radiofonica regionale e locale, nonché dei messaggi commerciali e pubblicitari, eventualmente discriminatori». Mentre per le pubblicità la legge regionale specifica la finalità di tale controllo, ossia quello di segnalare il fatto alle autorità nazionali competenti laddove il fornitore del servizio pubblicitario avesse aderito a un codice di condotta che nel caso di specie si assume violato, la legge stessa non determina affatto quale sia la finalità del controllo dei contenuti della programmazione, né opera riferimenti sul punto ad altre norme di legge. Talché si ha difficoltà a rimanere rassicurati dal parere del Corecom, secondo cui la proposta di legge in questione avrebbe “natura meramente ricognitiva” e non assegnerebbe ad esso nuove funzioni, poiché se le competenze regionali in materia non fossero limitate, la vaghezza della norma non varrebbe di per sé certo ad escludere la richiesta di interventi lato sensu censorei sui contenuti non sufficientemente gay friendly.
5. La spesa pubblica
L’ultimo gruppo di disposizioni, infine, attiene a misure di mera spesa a vantaggio delle “vittime” di omofobia (art. 6) e delle manifestazioni culturali che si facciano portatrici delle rivendicazioni del mondo omosessuale (art. 4).
È naturale che la Regione abbia ampia discrezionalità nello scegliere i progetti da finanziare e le condizioni sociali che ritiene meritevoli di particolare sostegno e finanziamento. Si tratta di scelte schiettamente politiche, per cui vi è un solo strumento per far sì che – ad esempio – la spesa pubblica sia indirizzata verso il sostegno alle famiglie numerose piuttosto che verso associazioni che promuovo istanze e pratiche del mondo omosessuale: questo strumento è il voto popolare.
* Contributo sottoposto a valutazione. Relazione annotata, la cui sintesi è coincisa con l’intervento svolto in occasione del convegno “Sì alle leggi per la famiglia. No alla legge sulla omotransnegatività”, tenuto a Bologna l’11 aprile 2019 e organizzato dai Consiglieri Regionali Michele Facci (Mov. Nazionale per la Sovranità), Andrea Galli (FI), Daniele Marchetti (Lega), Giancarlo Tagliaferri (FdI).
[1] Si ricorda che, secondo l’art. 18 dello Statuto Regionale dell’Emilia Romagna, possono farsi promotori di progetti di legge regionale considerati “di iniziativa popolare”, non soltanto gruppi di cittadini elettori, ma anche “uno o più Consigli comunali che, singolarmente o complessivamente, rappresentino una popolazione di almeno cinquantamila abitanti”
[2] Ossia come «complesso di interventi in grado di disciplinare comportamenti e condotte, con un contenuto educativo dei comportamenti quotidiani» (B. Sordi – L. Mannori, Storia del diritto amministrativo, Roma-Padova, 2004, 136).
[3] Sul tema cfr., per tutti, F. Mantovani, Profili penalistici del diritto di satira, in Dir. informaz. e informatica, 1992, p. 295 ss.; E. Lopez, Sui limiti di liceità del diritto di satira, in Dir. fam., 1994, p. 198 ss.; G. Corasaniti, Libertà di sorriso, in Dir. informaz. e informatica, 1989, p. 539 ss. Del resto, appare evidente che il rilievo giuridico del dileggio ha luogo quando esso provochi una forma di sofferenza nel destinatario, per cui esso rientra pienamente nell’egida protettiva dei reati di violenza previsti dal codice penale e, in particolare, nella fattispecie dei reati di violenza-fine quali la minaccia (art. 612 c.p.) e gli atti persecutori (art. 612-bis). Inoltre, fino al 2016 l’ordinamento ha ritenuto illecita anche la semplice ingiuria (art. 594 c.p.), mentre successivamente ha operato una valutazione di irrilevanza penale della stessa in via generalizzata, rimettendo per tutti i casi di ingiuria la tutela al versante del risarcimento dei danni civilistico.
[4] Cfr., per un inquadramento delle fattispecie, la precedente nota 3.
[5] È infatti assodato che il principio di uguaglianza richieda di trattare in modo uguale situazioni uguali, ma richieda altresì e corrispondentemente di trattare situazioni diverse in modo diversificato in ragione degli elementi di differenza: come icasticamente rilevato dalla dottrina (cfr., per tutti, A. Celotto, Art. 3, 1° comma, in R. Bifulco – A. Celotto – M. Olivetti, Commentario alla Costituzione, I, Torino, 2006), «eguaglianza vuole dire massima universalità possibile delle norme, ma non può significare che il contenuto delle leggi debba sempre essere identico per tutti, in quanto la vera uguaglianza impone che situazioni analoghe non siano trattate in modo dissimile e che situazioni diverse non siano trattate nello stesso modo, a meno che una differenziazione sia obiettivamente giustificata. In quest’ottica, è stata superata la concezione liberale dell’eguaglianza, che semplicemente voleva leggi dirette a tutti, per giungere ad una visione flessibile del principio, in quanto – nello Stato pluriclasse – le differenziazioni normative sono possibili, anzi necessarie, purché non sfocino nell’arbitrarietà”. Del resto, fin dalla sentenza n. 53/1958 la Corte Costituzionale ha chiarito che “il principio di eguaglianza è violato quando il legislatore assoggetta ad una indiscriminata disciplina situazioni che esso stesso considera e dichiara diverse».
[6] Sul tema si rinvia, tra i molteplici contributi dedicati all’argomento, alla collettanea Il pluralismo sociale nello Stato democratico, Milano, 1980 e, ivi, in particolare ai contributi di U. De Siervo, Il pluralismo sociale dalla Costituzione repubblica ad oggi: presupposti teorici e soluzioni nella Costituzione Italiana.
[7] Risultano dall’osservatorio della polizia di Stato 213 denunce in 8 anni, per una media di meno di 30 denunce all’anno in tutta Italia, incluse quelle per furti, ossia per condotte tipicamente disomogenee rispetto a quelle mosse da moventi discriminatori, e senza considerare che in molte delle denunce la matrice discriminatoria è stata presto dimostrata essere manifestamente insussistente, come talvolta riportato anche dalla stampa.
[8] Si rimanda alla precedente nota 3 e si ricorda come possa ritenersi tornare certamente applicabile, in caso di reati mossi da moventi di avversione l’omosessualità, l’aggravante dei motivi abietti e futili di cui all’art. 61, n. 1 c.p.
[9] Sarebbe, infatti, certamente irrazionale una legge priva di effetti pratici.
[10] In particolare, l’art. 2 Cost. come fondamento della protezione della dignità della persona (così come interpretato da Corte cost., sent. n. 272/2017, secondo cui “la maternità surrogata, che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”), l’art. 29 Cost., (in base al quale “le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio”: cfr. Corte cost., sent. n. 138/2010) e l’art. 19 Cost., che riconosce la libertà di professare liberamente e far propaganda della propria fede religiosa.
[11] Nella formulazione originaria, sia nel comma 1 che nel comma 2 (dove si parla di “pari opportunità”), nella formulazione emendata essenzialmente nel comma 1 (che riferisce l’inserimento lavorativo degli omosessuali non più specificamente alle persone vittime di discriminazione, ma più in generale nell’àmbito degli interventi testi a contrastare atti e comportamenti discriminatori), mentre al comma 2 è stato quanto meno espunto il riferimento alle “pari opportunità”.
[12] E i generali canoni interpretativi richiedono di presumere che sia così, dovendosi infatti interpretare la norma giuridica potius ut valeat quam ut pereat.
[13] Ciò oltre a costituire violazione del diritto alla riservatezza, con riferimento a dati sensibili quali sono quelli di cui si discute in questa sede.