Giovanni Cantoni, Cristianità n. 222 (1993)
«Crollo del comunismo» e nazionalsocialismo fra elezioni, epurazioni, repressioni e la dea «velina»
Fra i temi del dibattito politico-culturale nell’autunno del 1993 ha avuto giustamente parte di rilievo quello relativo al cosiddetto «crollo del comunismo», un argomento alimentato giorno dopo giorno dalle notizie provenienti dai paesi già oltre la Cortina di Ferro. Tre accadimenti hanno non solo sollecitato, ma «eccitato» tale riflessione: anzitutto, la tornata elettorale svoltasi in Polonia nel mese di settembre e il suo esito; quindi, la lezione magistrale tenuta sempre in settembre da Aleksandr Isaevic Solzenicyn a Schaan, nel principato del Liechtenstein, in occasione del conferimento allo scrittore russo della laurea honoris causa da parte dell’Accademia Internazionale di Filosofia di Vaduz (1); finalmente, la cosiddetta «battaglia di Mosca», nel mese di ottobre. Nella comune degli interventi è stato sottolineato come, nel 1989, si sia parlato troppo in fretta e troppo frettolosamente di tale crollo; e questa volta l’osservazione sembra tardiva, ma vale la formula «meglio tardi che mai».
Prima dei fatti moscoviti, delle diverse voci del dibattito ha tentato sintetica illustrazione il professor Luciano Canfora, docente di Filologia Classica all’Università di Bari, nella rubrica La condizione umana, da lui tenuta sul Corriere della Sera. La nota è, a sua volta, sintetizzata nella conclusione, espressivamente — ma solo espressivamente — felice: «Si blatera spesso della sostanziale affinità nazismo/comunismo. A chi ancora propaga questa sciocchezza è utile ricordare che i fascismi dopo la sconfitta non sono mai più ritornati al potere per via elettorale» (2).
Prendo in esame l’ultima affermazione e osservo, anzitutto, che la «via elettorale», proprio in virtù del riferimento al nazismo — rectius nazionalsocialismo — non può costituire «prova del nove» di nessuna legge storica socio-politica del tipo di quella enunciata, dal momento che il nazionalsocialismo è andato al potere proprio per tale via, senza brogli e con manipolazioni della pubblica opinione proprie di ogni informazione partitica, comunque — certo non per autolimitazione dei nazionalsocialisti, ma per ragioni cronologiche — inferiori a quelle realizzabili con le più sofisticate tecniche propagandistiche — basti il riferimento allo strumento televisivo — molto più di mezzo secolo dopo.
Pur con questa riserva sia generica che specifica, bisogna riconoscere che, in qualche modo, l’esito elettorale costituisce espressione tendenziale, per quanto grossa, dell’orientamento sociale. E poi il professor Luciano Canfora parla di «ritorno al potere», non di «andata». Allora, almeno quanto al «ritorno», è vero l’asserto da lui enunciato con aria di sfida? Certamente il fatto appare in questi termini, ma la sua evidenza si attenua, per dire il meno, se non scompare, e la sua interpretazione si trasforma in falso quando la descrizione del fenomeno venga integrata da osservazioni ulteriori.
Anzitutto — e soprattutto — ci si deve chiedere se i diversi esiti elettorali da parte dei cosiddetti «fascismi» e del comunismo siano stati conseguiti nelle stesse condizioni, cioè coeteris paribus, diversamente l’asserto perde significato prima che forza probatoria.
Dunque, secondo la ricostruzione implicita nell’affermazione del professor Luciano Canfora, i cosiddetti «fascismi» e il comunismo vanno al potere, poi vengono sconfitti, quindi i fascismi non tornano al potere per via elettorale, il comunismo sì. Se la descrizione della sequenza fosse adeguata, l’asserto potrebbe reggere. Ma — come ho detto — tale descrizione abbisogna di essere integrata almeno in un punto, in quanto amputata, quindi carente, di una fase non insignificante: infatti, fra l’abbattimento e la semplice riproposizione elettorale — vittoriosa o meno che sia — si situa una fase ingiustamente trascurata dal sofista socialcomunista, quella dell’epurazione e della legislazione repressiva. Non entro nel merito della liceità, dei caratteri e dei limiti delle due pratiche ricordate: l’epurazione come pratica di «purificazione ideologica» volta a quanto sopravvive del passato; la legislazione repressiva come pratica volta al presente e al futuro. Molto semplicemente, chiedo se le due sequenze tollerano ancora di essere paragonate, cioè se sopravvive l’indispensabile coeteris paribus, qualora vengano descritte nei termini seguenti: «I cosiddetti “fascismi” e il comunismo vanno al potere, poi vengono sconfitti; quindi, nei paesi già soggetti a regime fascista si procede a più o meno radicali epurazioni nonché alla promulgazione di una legislazione repressiva della ricostituzione dei partiti fascisti, mentre nei paesi già soggetti a regime comunista non si procede a nessuna epurazione né alla promulgazione di una legislazione repressiva della ricostituzione dei partiti comunisti: i fascismi non tornano al potere per via elettorale e il comunismo sì». Infatti, in quale paese già oltre la Cortina di Ferro è stato celebrato un processo paragonabile a quello di Norimberga? In quale paese già oltre la Cortina di Ferro vi è stata epurazione, non dico paragonabile a quanto praticato in Germania dopo la seconda guerra mondiale e sulla scia di tale processo e — in minore rispetto a questo esempio — in Italia, sempre nello stesso periodo? In quale paese già oltre la Cortina di Ferro è stata introdotta una legislazione vietante la sostanziale ricostituzione del partito comunista?
Rebus sic stantibus, l’asserto del professor Luciano Canfora circa la diversità fra nazionalsocialismo e comunismo, sulla base degli esiti elettorali seguenti la loro caduta, è falso. Ma, se tali esiti non possono essere addotti come prove della diversità, l’affermazione della loro affinità non è assolutamente una «sciocchezza», come vorrebbe far credere il sofista socialcomunista; comunque — ancora — gli esiti elettorali non possono essere addotti a prova del contrario.
Quindi, poiché gli esiti elettorali sono sotto gli occhi di tutti, dopo aver identificato la differenza nell’assenza di epurazione e di legislazione repressiva, l’esame va portato sulla veridicità del «crollo del comunismo», sulla sua natura e sulla sua portata, nonché sulla condizione dei paesi già oltre la Cortina di Ferro dopo il 1989.
È possibile immaginare una vera sconfitta senza epurazione e senza prevenzione? Se si produce una sconfitta senza epurazione e senza prevenzione, è malizioso sospettare che si tratti piuttosto di una metamorfosi, di una realtà che lo stesso professor Luciano Canfora evoca con il termine «camaleontismo» (3)?
In attesa di un esame adeguato relativamente ai paesi che sono stati soggetti a «socialismo reale», qualche segnale si può rilevare dall’osservazione dell’Italia, «[…] perché — mi sia consentita l’autocitazione — l’Italia, per chi volesse accorgersene, rappresenta il tipo del paese a regime socialcomunista gramsciano, cioè è un paese nel quale il marxismo non si è incarnato visibilmente in istituti, ma in cultura. Se, dove si sono prodotti istituti, vi sono Case del Popolo da abbattere e una classe politica da sostituire, dove si è perseguita, e realizzata, l’egemonia culturale, vi è poco di fisico da togliere di torno, e piuttosto si dovrebbe mandare a casa un’intera intellighenzia… […] Ma tant’è: questa intellighenzia continua a mietere vittime da tutte le cattedre di educazione permanente, da quelle universitarie e liceali […] alle poltrone editoriali e massmediatiche» (4); quindi, l’Italia è — stata? — un paese sottoposto a regime socialcomunista, benché sui generis, cioè non a «socialismo reale», bensì a «gramscismo reale». E, relativamente all’Italia e all’assenza di epurazione e di prevenzione, non devo cercare lontano la prova di quanto asserisco, cioè l’assenza di epurazione e di prevenzione come spiegazione di «ritorni» elettorali. Infatti, giovedì 7 ottobre, lo stesso professor Luciano Canfora, sempre sul Corriere della Sera, commentando con durezza e con ironia i commenti a quanto accaduto a Mosca, notava: «[…] coloro cui è demandato, in “liberal-democrazia”, l’imbottimento dei crani non rispondono né all’imperativo morale, né alla elementare coerenza (che chiamasi anche salvataggio della rispettabilità della propria faccia): rispondono, dietro elevato compenso, alla dea “velina”» (5).
Se il docente sa che quanto scrive non viene pubblicato né da un foglio del samizdat e neppure da Liberazione, si può parlare di «crollo del comunismo», quando i suoi esponenti conservano la disponibilità dei pulpiti maggiori dei mass media? Non so se, a oriente, il «socialismo reale» sia crollato e, in caso affermativo, in che misura ciò si sia verificato; certo, a occidente, il «gramscismo reale» non è crollato: infatti, Luciano Canfora docet.
Note:
(1) Cfr. Aleksandr Isaevic Solzenicyn, Terzo millennio, trad. it., in Panorama, n. 1432, 26-9-1993, pp. 98-107.
(2) Luciano Canfora, Per chi soffia il vento dell’Est, in Corriere della Sera, 23-9-1993.
(3) Ibidem.
(4) Augusto Pinochet Ugarte «docet», e il gramscismo c’è e batte un colpo, in Cristianità, anno XX, n. 211, novembre 1992.
(5) L. Canfora, Gli albori della democrazia, in Corriere della Sera, 7-10-1993.