Massimo Introvigne, Cristianità n. 132 (1986)
Un mito proposto con arroganza da Fidel Castro, e sostenuto dalla complicità del domenicano brasiliano Frei Betto, di fronte alla testimonianza del poeta cubano Armando Valladares.
Al centro di un grande scontro propagandistico
Cuba, il GULag sconosciuto
Negli ultimi mesi l’opinione pubblica occidentale è stata presa d’assalto da una offensiva propagandistica senza precedenti volta a riproporre uno dei miti più cari alla sinistra internazionale degli anni Sessanta, che pareva ormai definitivamente tramontato: il mito di Cuba libre, della rivoluzione di Fidel Castro che coniuga felicemente il comunismo e il carattere latino dando vita a un regime marxista lontano dal grigiore sovietico nell’atmosfera variopinta della fiesta latinoamericana. Destinatario privilegiato dell’improvviso risveglio della propaganda filo-cubana è stato in particolare il mondo cattolico, che si è trovato di fronte, in pochi mesi, alle aperture del governo de L’Avana alla Chiesa, all’incontro nazionale ecclesiale cubano ENEC, alle ricorrenti voci di una visita del Papa a Cuba e, infine, a una operazione editoriale internazionale di vasta portata con la pubblicazione in numerosi paesi di una sensazionale intervista a Fidel Castro realizzata dal frate domenicano brasiliano Carlos Alberto Libânio Christo, più noto come Frei Betto. Nel marzo del 1986 l’intervista è uscita anche in Italia per i tipi delle Edizioni Paoline (1), preceduta da una excusatio non petita di otto pagine dove l’editore intenderebbe giustificare le ragioni della sua pubblicazione. In questa premessa si ammette che l’intervista «è così ingenuamente trionfalistica sulla situazione cubana da lasciare perplesso il lettore attento» e non si esclude che «potrebbe trattarsi d’un abile tentativo di tender la mano alla Chiesa per puntellare un regime isolato e deluso da troppe promesse mancate». Ma è lo stesso editore a lasciare perplesso, per dire il meno, il «lettore attento» quando scrive che l’intervista «viene a mettere in crisi i cristiani troppo dogmaticamente anticomunisti» – come pure «i comunisti dogmaticamente anticristiani» -, e accenna alla «rivoluzione cristiana del Nicaragua» sottolineando l’aggettivo (2).
E il lettore – forse anche quello disattento – ha per la verità le migliori ragioni per rimanere perplesso. Il tono dell’intervista, infatti, rivela da parte di Frei Betto una adesione senza riserve alla politica e alle idee del leader cubano che sconfina non di rado nell’adulazione senza ritegno: quando il frate domenicano brasiliano confessa che nelle calde notti de L’Avana lo «inonda una fraterna ammirazione per Fidel» (3), l’uomo «che le canta chiare in barba allo zio Sam» (4), è difficile evitare il paragone – absit iniuria verbis – con le pagine sull’«Uomo della Provvidenza» a cui una certa retorica anche clericale aveva abituato in Italia in anni non troppo lontani. Le risposte di Fidel Castro non aggiungono nulla di veramente nuovo a quanto si conosce circa il consueto atteggiamento marxista nei confronti della religione, e lo stesso editore ammette, sempre nella premessa, che possono sembrare «persino scontate» (5): Ernst Bloch e Antonio Gramsci devono essersi fermati prima de L’Avana, se è vero che il barbuto leader del castrismo – incurante degli strumenti più raffinati messi a punto dal pensiero gramsciano e blochiano – fa ancora riferimento all’immagine ottocentesca di Gesù Cristo «primo rivoluzionario» in lotta contro le strutture reazionarie dell’impero romano. Quello che invece è davvero sorprendente è l’atteggiamento del frate domenicano intervistatore, che non si limita a formulare domande ma, spesso, imposta anche le risposte, tiene autentiche conferenze, interviene, discetta per pagine intere sulla «teologia della liberazione», sui «cristiani per il socialismo», sulla malizia dei vescovi del Nicaragua che si rifiutano di condannare le «truppe mercenarie» della Resistenza schierate «per assassinare i contadini, compresi i bambini» (6). Dopo essersi felicitato con sé stesso per essere, come domenicano, confratello di Giordano Bruno (7), Frei Betto conclude in bellezza che «il dio che negate voi marxisti leninisti è lo stesso che nego io» e che, «dal punto di vista evangelico, la società socialista, creando condizioni di vita umane per il popolo, realizza, senza saperlo, ciò che noi credenti chiamiamo il progetto di Dio nella storia» (8). Forse è troppo perfino per Fidel Castro, che per tutto il volume sembra resistere energicamente ai tentativi del frate domenicano brasiliano di fargli prendere una posizione precisa contro i documenti del Magistero cattolico in tema di «teologia della liberazione» – il libro è dedicato anche a padre Leonardo Boff O.F.M., «sacerdote, teologo e soprattutto profeta» (9) -; poco interessato anche agli attacchi di Frei Betto contro «la rivista “Trenta Giorni”, portavoce ufficiale della nuova destra della Chiesa in Italia» (10), il leader cubano arriva a rispondere seccamente che preferisce «evitare di esprimere giudizi» su «questioni che riguardano la Chiesa e la sua politica interna» (11). Nonostante tutto, è difficile non simpatizzare con Fidel Castro quando fa sapere al frate brasiliano – invitato al Palazzo della Rivoluzione – che non sarà ricevuto se si presenterà, come al solito, in blue jeans: se proprio non vuole vestirsi da domenicano, almeno si metta la giacca e la cravatta! Frei Betto confida che per un momento pensa a «declinare l’invito» per protesta «contro il formalismo socialista» (12); poi ci ripensa, si provvede di una giacca di fortuna e non priva il mondo della «storica» intervista.
Se si tiene presente che Frei Betto ha ricevuto in Brasile incarichi ufficiali dal suo ordine e da vari vescovi, il volume-intervista, se non aggiunge molto a quanto si sa su Fidel Castro, costituisce uno straordinario documento sul «caso Brasile» nella Chiesa, e una illustrazione per il drammatico intervento alla seconda assemblea straordinaria del Sinodo dei Vescovi, del 1985, del cardinale Eugenio de Araújo Sales, arcivescovo di Rio de Janeiro. Molti religiosi, ha ammonito il porporato brasiliano, «hanno affievolito il rispetto per il Papa e si oppongono direttamente o indirettamente alla Curia Romana» per cui «sembra che i Superiori maggiori spesso non governino con efficacia»; «ci sono seminari e scuole teologiche dove vengono insegnati gravi errori»; «ci sono anche dei casi in cui alcuni pastori della Chiesa si mostrano deboli, o addirittura [sembra] che sostengano degli errori o sembrano difendere quelli che hanno pubblicato dottrine false» (13). Dopo la lettura dell’intervista di Frei Betto nessuno potrà più sostenere che si tratta di un pessimismo esagerato.
Che l’intervista a Fidel Castro sia arrivata in libreria in Italia, e in altri paesi, nel marzo del 1986 non è, tuttavia, casuale. Da una parte si tratta – dopo le denunce precise e continue dei vescovi del Nicaragua – di presentare al mondo cattolico un nuovo esempio, cubano questa volta, di felice convivenza fra cristianesimo e Rivoluzione. Dall’altra, l’offensiva propagandistica filo-cubana vuole esorcizzare – dove è possibile in anticipo – uno dei più gravi rischi che, proprio dal punto di vista propagandistico, il comunismo internazionale corre negli ultimi anni. Si tratta della pubblicazione delle memorie del poeta cubano Armando Valladares, che ha trascorso oltre ventidue anni nelle carceri di Fidel Castro, nel 1985 in Spagna (14), poi nel gennaio del 1986 a Parigi, in Francia (15). In Francia il volume Mémoires de prison ha destato subito una impressione notevolissima, è entrato nelle liste dei best seller, ha fatto acclamare il suo autore come un nuovo Aleksandr Solzenicyn, e il diffuso Le Figaro-Magazine ha dedicato all’uscita dell’opera un ampio servizio (16).
Nato nel 1937, oscuro funzionario del governo rivoluzionario cubano, arrestato nel 1959 per avere espresso l’idea che il comunismo di Fidel Castro è incompatibile con la sua fede cristiana, liberato nel 1982 dopo una lunga campagna internazionale in suo favore, quando ormai tre volumi di poesie composti in carcere e fatti uscire con peripezie rocambolesche dai penitenziari cubani lo avevano reso noto in tutto il mondo, Armando Valladares rappresenta oggi, per la propaganda comunista, un pericolo potenzialmente maggiore rispetto a molti «dissidenti» sovietici anzitutto perché gli orrori che denuncia paiono ancora più estremi di quelli dell’«arcipelago GULag»; poi perché egli afferma e mostra che stanno continuando ancora oggi; quindi perché si verificano a Cuba, dove il marxismo ha sempre cercato di presentarsi con un volto più «umano» che in Europa o in Asia. Negli anni che hanno preceduto la sua liberazione, la propaganda castrista ha tentato di presentare Armando Valladares come un ex membro della polizia politica sotto il precedente regime del dittatore Fulgencio Batista; ma la falsificazione si è rivelata talmente scoperta e grossolana – nella presunta «tessera» prodotta non era esatta neppure la data di nascita – da essere ben presto abbandonata.
Dal 1959 al 1982 Armando Valladares percorre tutti i principali luoghi di reclusione per detenuti politici a Cuba, compresi i celebri campi di concentramento di Boniato e dell’Isola dei Pini, e la sinistra prigione-fortezza chiamata La Cabaña, costruita dagli spagnoli all’ingresso del porto de L’Avana. La vita dei detenuti politici trascorre fra le celle comuni – o le baracche dei campi di concentramento – e le terribili celle disciplinari dove si viene trasferiti per ogni minima infrazione ai regolamenti e, soprattutto, quando si rifiutano i «piani di riabilitazione». Il terrore comunista di Cuba non si accontenta di imporre ai prigionieri di ubbidire; chiede loro anche di credere, di dichiararsi «riabilitati» e convinti all’adesione al comunismo; per chi accetta, le condizioni di vita migliorano e la pena viene spesso diminuita; per chi rifiuta, si aprono le porte delle celle disciplinari. È impossibile riassumere, anche solo per sommi capi, la testimonianza allucinante di Armando Valladares sul destino di chi, come lui, non ha mai accettato la «riabilitazione». La sorte dei fucilati – molti, cattolici, muoiono nei primi anni del regime recitando il rosario o gridando «Viva Cristo Re!» (17) – è, tutto sommato, considerata con invidia da chi rimane in vita nelle celle disciplinari. Il comunismo cubano non si limita a togliere la vita, anche se non mancano nelle Mémoires de prison lunghe liste di oppositori fucilati o «suicidati»: vuole soprattutto spezzare la volontà. Il primo strumento di cui si serve è la fame: nel campo dell’isola dei Pini per tutti i detenuti politici il cibo consiste in un bicchiere di acqua e zucchero al mattino, un pugno di riso e piselli a mezzogiorno e brodo con farina di mais alla sera. Il riso e i piselli sono deteriorati e «formicolano di vermi»: i prigionieri dapprima cercano di mettere i vermi da parte, poi rinunciano, considerando che dopo tutto mangiare i vermi è per loro l’unico modo di assumere «proteine animali» (18). I cucinieri, detenuti per reati comuni, vengono incitati a «testimoniare il loro spirito rivoluzionario» infierendo sui cibi per i prigionieri politici: così questi ultimi trovano nell’acqua zuccherata del mattino «sapone di Marsiglia», nel brodo «escrementi di vacca», «pezzi di vetro» e «topi morti»; infine, vengono direttamente avvelenati con dosi massicce di sostanze lassative mescolate ai piselli (19).
Più ancora della fame, i detenuti politici temono la nudità: una nudità totale – l’unica alternativa per chi rifiuta l’uniforme blu, riservata ai «pentiti» che hanno chiesto la «riabilitazione» -, che espone al freddo e soprattutto alla vergogna; per umiliare gli oppositori le guardie li costringono a presentarsi nudi ai rari colloqui con le loro spose o fidanzate (20). L’acqua è razionata all’Isola dei Pini, a La Cabaña, a Boniato, ed è difficile lavarsi; i servizi, privi di scarichi, si intasano per mesi, si diffondono l’epatite virale e altre malattie. Secondo Armando Valladares la mancanza di igiene è forse il peggiore tormento per le vittime del comunismo cubano: nelle celle disciplinari dell’Isola dei Pini – tre metri per uno, con un buco nel terreno come unico «servizio» – «dopo parecchie settimane senza potermi lavare – racconta lo scrittore – il mio corpo si è coperto di una crosta di grasso nerastro» su cui «minuscoli funghi hanno cominciato a proliferare». Dall’angolo «dove si trovava la latrina intasata centinaia di piccoli vermi appiccicaticci davano l’assalto ai muri o ricoprivano il pavimento». Senza acqua né carta igienica, con le sole mani per pulirsi in qualche modo, il maggior rischio di epatite virale era «toccare il cibo con le mani»; ma anche le posate venivano spesso rifiutate e allora, «per non prendere il cibo con le mani luride, piene di escrementi», continua Armando Valladares, «mangiavo come un cane, immergendo il viso nella scodella»: «ero diventato più animale che uomo» (21). Per chi protesta, è pronta una punizione peggiore: i guardiani rovesciano nella cella, dall’alto, addosso al condannato, un bidone di venti litri pieno di acqua gelida, urina ed escrementi (22). Oltre ai vermi, prosperano nelle celle luride insetti di ogni genere e topi di fogna: una notte, prima di accorgersi dell’attacco, Armando Valladares perde una parte di un dito, morsicata da un grosso ratto (23). Quando finalmente, ormai in condizioni disperate, lo scrittore esce dalle celle disciplinari – dove sarà rinchiuso più volte – per tornare al regime – migliore, ma non troppo – delle celle «normali», e dopo mesi può finalmente lavarsi, deve «raspare via la crosta di luridume che mi copriva il corpo con una scatola di conserva tagliata a metà per farne una raspa. Era uno spettacolo inaudito, incredibile: vedevo questa crosta di immondizia arrotolarsi sulla lama della scatola come una sorta di scorza» (24). Il sistema penitenziario comunista di Cuba sembra avere una vera ossessione per gli escrementi: il primo lavoro forzato a cui i detenuti politici vengono adibiti consiste nell’immergersi nei canali delle fognature per sbloccarli, togliendo con le mani dal fondo i detriti più grossi. «Immersi nel magma fetido fino al petto o al collo», i detenuti sono picchiati se non si chinano e si immergono nella fogna per pulirne il fondo; molti, prima di rialzarsi, inghiottono liquame ed escrementi (25). Tuttavia, quando Juan Rivero, il comandante del campo, li minaccia di far loro mangiare con le mani luride il magro pranzo, uno di questi eroi sconosciuti trova la forza di risollevarsi e gridare: «Juan Rivero, abbasso il comunismo!». Allora le guardie si lanciano sui detenuti, li coprono di colpi e li costringono a gettarsi nella «laguna», il centro del sistema di fognature a cui lavorano: una «gigantesca palude di escrementi» su cui regnano «sciami innumerevoli di mosche» (26). Alla sera, i prigionieri politici non sempre possono riposare: dal Vietnam i loro aguzzini hanno importato la tortura delle «verghe Hô Chi Minh» che consiste nel pungere sistematicamente le vittime con un bastone a punta aguzza per impedire loro di dormire (27).
Chi desideri conoscere tutte le privazioni e le torture di cui sono tuttora vittime i prigionieri politici a Cuba deve leggere il volume intero: in una situazione di privazione totale ogni necessità diventa un dramma; il mal di denti – è solo un esempio fra molti – «può fare diventare pazzi» quando ogni tipo di cura viene negato: e qualcuno si macella orribilmente per strapparsi da solo un dente malato (28). Su tutte le carceri regna un clima di violenza continua e bestiale. Periodicamente, ovunque i guardiani aprono le porte delle celle e infieriscono sui detenuti con catene, baionette e bastoni; quasi sempre lasciano dietro di sé morti o feriti gravi. Armando Valladares descrive i pestaggi nella prigione di Boniato: terribili non solo per le loro conseguenze fisiche – un detenuto aveva «una tale infiammazione» alla testa che «si sarebbe detto che portasse una cuffia», altri urinavano sangue (29) -, ma per la tortura psicologica dell’attesa nelle ultime celle, mentre gli aguzzini «visitano» le celle precedenti. «Prima ancora che le guardie entrassero nella loro cella, alcuni dei miei compagni di sventura non potevano più trattenersi […] cominciavano a lanciare, urla»; «ho invidiato mille volte – confessa lo scrittore – i prigionieri della prima cella: gli aguzzini entravano, picchiavano, ma senza che i prigionieri dovessero sopportare anzitutto la tortura mentale dell’attesa» (30). Con il passare degli anni alle torture si aggiungono gli esperimenti biologici sui detenuti, coordinati da medici sovietici e della Repubblica Democratica Tedesca: su un prigioniero, per esempio, viene sperimentato un sistema diuretico che gli fa perdere «venticinque chili in cinque giorni»; altri, con appositi medicinali, vengono «gonfiati e sgonfiati a volontà come palloni»; alcuni – di cui Armando Valladares indica nomi e cognomi – muoiono (31).
Forse non morirete, aveva detto ai detenuti un capitano della polizia politica cubana, ma «non sarete mai più uomini» (32). Una folla di uomini, di donne, di vecchi compagni di Fidel Castro disillusi, di sacerdoti cattolici come padre Angel Loredo e perfino di bambini, come il dodicenne Robertico incarcerato per avere rubato una pistola dalla macchina di un alto funzionario (33), una moltitudine di persone torturate, avvilite, negate nella loro umanità testimonia, dalle pagine delle memorie del poeta cubano, che, nonostante tutto, l’apparente trionfatore è sconfitto, che il comunismo ha perso la sua battaglia più importante: dopo anni di prigionia gli oppositori sono ancora uomini, perché continuano a non piegarsi e a resistere. Dal volume di Armando Valladares si ricava anche un’altra lezione: v’è un solo modo per frenare questi orrori, ed è parlarne il più possibile. Solo il timore dell’opinione pubblica internazionale ha costretto il comunismo cubano a liberare alcuni detenuti come Armando Valladares; e oggi il poeta cubano inonda instancabilmente i governi e le organizzazioni internazionali di liste impressionanti di nomi e di fotografie di uomini meno noti di lui – come il suo amico Orlando García Placencia, per giorni «appeso in posizione fetale per obbligarlo a urinarsi sul viso» e al momento della pubblicazione del libro «sempre incarcerato, nudo, nella prigione del Combinato dell’Est» (34) – che hanno il diritto di non essere dimenticati. Armando Valladares è convinto che solo una informazione aperta e completa giovi alle vittime del comunismo cubano, e disapprova l’atteggiamento di quella parte della gerarchia cattolica di Cuba che tace sugli orrori delle prigioni e dei campi, pensa di potere meglio aiutare i prigionieri politici, in maggioranza cattolici, negoziando in silenzio su singoli casi, e perfino lancia pubblici proclami di fedeltà al regime; accanto alla «Chiesa del silenzio» il poeta cubano vede nel suo paese anche «quella della complicità» (35).
È difficile, dall’Europa, giudicare situazioni politiche ed ecclesiali poco note e complesse; sarebbe sbrigativo condannare sommariamente sia chi non ha ritenuto di scegliere la strada difficile ed eroica della resistenza a oltranza, sia chi – avendola scelta, come Armando Valladares – manifesta con parole amare e severe la sua delusione verso uomini e istituzioni che gli sembrano avere preferito il compromesso. Vi sono uomini, invece, che occorre avere il coraggio di denunciare pubblicamente e fin da ora: sono coloro che – senza trovarsi nello «stato di necessità» in cui forse si trovano certi ecclesiastici e fedeli cubani – dall’Europa, o dal Brasile, volutamente ignorano gli orrori e le torture e inneggiano senza ritegno e senza vergogna al sanguinario regime di Fidel Castro. Chiunque avrà letto le memorie di Armando Valladares – di cui si deve auspicare al più presto una edizione italiana – saprà che cosa pensare di queste incredibili affermazioni di Fidel Castro e di chi se ne fa propagandista e complice: «[…] contro i torturatori e gli assassini creammo nei nostri combattenti una profonda coscienza del rispetto della vita umana, della persona, e il rifiuto dell’arbitrarietà, dell’ingiustizia, della violenza fisica contro il prigioniero e le persone in genere.
«Non vincemmo la guerra solo combattendo, ma anche con la politica adatta nei confronti dei prigionieri». Non è mai successo, continua il leader comunista, «che la Rivoluzione abbia commesso un assassinio, abbia torturato un uomo o lo abbia fatto sparire» (36). Del resto, aggiunge Fidel Castro, «con tutta franchezza, ritengo il nostro sistema mille volte più democratico del sistema capitalista o imperialista dei paesi capitalisti avanzati, compresi quelli della NATO che saccheggiano il mondo […] mi dispiace se ho offeso qualcuno, ma lei mi obbliga a parlare con chiarezza e sincerità». «Fa bene, Comandante, sono virtù cristiane», risponde – imperturbabile – Frei Betto (37).
Massimo Introvigne
Note:
(1) Cfr. FIDEL CASTRO, La mia fede. Cristianesimo e rivoluzione, intervista a cura di Frei Betto, con una premessa all’edizione italiana, trad. it., Edizioni Paoline, Torino 1986., pp. XVI-336.
(2) Cfr. ibid., pp. IX-XVI.
(3) Ibid., p. 327.
(4) Ibid., p. 18.
(5) Ibid., p. XII.
(6) Ibid., p. 52.
(7) Cfr. ibid., p. 211.
(8) Ibid., p. 215.
(9) Ibid., p. VII.
(10) Ibid., p. 265.
(11) Ibid., p. 255.
(12) Ibid., p. 15.
(13) CARD. EUGENIO DE ARAÚJO SALES, arcivescovo di Rio de Janeiro, Intervento in scriptis alla seconda assemblea straordinaria del Sinodo dei Vescovi, in L’Osservatore Romano, 1-12-1985.
(14) Cfr. ARMANDO VALLADARES, Contra toda esperanza, Plaza & James, Barcellona 1985.
(15) Cfr. IDEM, Mémoires de prison, trad. francese, Albin Michel, Parigi 1986, pp. 540.
(16) Cfr. IDEM, Un seul crime: être chrétien. Mon enfer dans les GOULags de Castro, a cura di Jacques Bonomo e Patrice de Plunkett, in Le Figaro-Magazine, n. 12890, 8-2-1986, pp. 15-20.
(17) Cfr. IDEM, Mémoires de prison, cit., p. 28
(18) Cfr. ibid., p. 68.
(19) Cfr. ibidem.
(20) Cfr. ibid., p. 334.
(21) Ibid., p. 193.
(22) Cfr. ibid., p. 186.
(23) Cfr. ibid., p. 190.
(24) Ibid., p. 200.
(25) Cfr. ibid., p. 276.
(26) Cfr. ibid., pp. 277-278.
(27) Cfr. ibid., p. 187.
(28) Cfr. ibid., p. 91.
(29) Cfr. ibid., p. 380.
(30) Ibid., pp. 378-379.
(31) Cfr. ibid., p. 396.
(32) Ibid., p. 390.
(33) Cfr. ibid., p. 484.
(34) Cfr. ibid., pp. 516-517
(35) Cfr. ibid., p. 373.
(36) F. CASTRO, op. cit., pp. 180-181.
(37) Ibid., p. 303.