Di Fady Noun da AsiaNews del 16/01/2024
Beirut (AsiaNews) – Privo di un capo dello Stato da ben 14 mesi, schiacciato sotto il peso demografico dei rifugiati siriani e da un conflitto al confine meridionale con Israele, il Libano è in procinto di auto-distruggersi? Entro il 2038, i libanesi rappresenteranno solo il 52% della popolazione, secondo un recente studio sulla situazione demografica del Paese dei cedri e sulla sua probabile evoluzione pubblicato su L’Orient-Le Jour l’11 gennaio scorso. Redatto dall’ex ministro del Lavoro Charbel Nahas il documento evidenzia la “volontà di ignoranza” di uno Stato che, privo della chiave di volta (la presidenza) – alla scadenza del mandato di Michel Aoun il 31 ottobre 2022 – si è frammentato in diversi centri decisionali. Una frammentazione di poteri e strutture che, a fatica, cercano di gestire il Paese cercando di mantenere una legalità di facciata.
Primavera araba, immigrazione siriana
Gli autori di questo studio dai contenuti allarmanti avvertono che uno degli obiettivi principali è quello di attirare l’attenzione dei responsabili e delle istituzioni governative sulla differenza dei tassi di fertilità tra le due popolazioni. Infatti, l’attuale numero di bambini rifugiati siriani di età compresa tra uno e 4 anni è il doppio di quello dei bambini libanesi.
L’attuale squilibrio demografico risale al periodo 2010-2020. Un primo elemento di svolta si registra nel 2012, con l’emergere della cosiddetta “Primavera araba” in Siria poi degenerata in guerra civile (e per procura) fra milizie ribelli ed esercito fedele al presidente Bashar al-Assad. Il Libano ha subito lo shock dell’arrivo massiccio di profughi siriani e del loro insediamento incontrollato ai quattro angoli del Paese, con i responsabili completamente ignari delle conseguenze di questa invasione demografica. Negli anni successivi, questi rifugiati hanno portato con sé una marea di aiuti umanitari, in particolare da parte della Banca mondiale e dell’Unione Europea. Purtroppo, e contro la volontà dei libanesi, questi aiuti erano destinati a mantenerli in loco fino a quando la ricostruzione della Siria, colpita dalle sanzioni americane (e occidentali) e in attesa di un cambio di rotta del regime, non avrebbe reso sicuro il loro ritorno. Svolta che non è mai avvenuta.
Gli shock migratori
Certo, questo shock migratorio non è il primo a riguardare il Paese dei cedri e la regione mediorientale. Tuttavia, l’afflusso massiccio e sfrenato di siriani in Libano dal 2012 in poi ricorda con le dovute proporzioni quello dei palestinesi dopo la spartizione della Palestina e la creazione dello Stato di Israele nel biennio 1948-49. Con il protrarsi della crisi siriana, vi è il forte rischio che la presenza di questi rifugiati, come quella dei palestinesi di allora, diventi permanente.
Secondo l’attuale ministro degli Affari sociali del governo di Beirut, Hector Hajjar, in Libano vi sono attualmente 2,1 milioni di siriani, ovvero 200mila famiglie, mentre i libanesi sono circa cinque milioni. Questo dato non corrisponde ai 3,7 milioni indicati in altre tabelle. Ed è proprio questa discrepanza a diventare specchio delle paure di una società, che sembra avere sempre più paura della realtà e delle possibili conseguenze.
Gli autori dello studio, che ha alimentato ulteriori preoccupazioni e tensioni, ritengono che la crisi siriana e il crollo finanziario hanno messo fine a un sistema economico nato dalla combinazione del boom petrolifero della seconda metà del XX secolo e della guerra civile. Gli eventi stanno accadendo “esattamente come in un sistema economico basato sull’esportazione di risorse naturali e sul consumo delle loro controparti, ma nel caso del Libano è la società stessa a essere consumata”, si legge in un passaggio, che prosegue rimarcando: “Questo sistema è stato istituzionalizzato negli accordi intercorsi tra i signori della guerra e i miliardari [che hanno fatto fortuna] con i proventi del petrolio, che speravano di perpetuarlo” mantenendo al minimo il ruolo regolatore dello Stato.
È proprio questo che teme il vicario patriarcale maronita, Samir Mazloum, che denuncia ad AsiaNews lo “sgretolamento dello Stato libanese”, lo stallo delle elezioni presidenziali e i piani di sostituzione. Il tutto in un momento storico in cui l’arrivo massiccio e imprevisto di decine di migliaia di rifugiati siriani costringe le autorità libanesi a raccogliere sfide di ogni tipo: educative, di sicurezza, sanitarie ed economiche. Mons. Mazloum teme anche l’ingresso illegale di estremisti musulmani in Libano, con un ulteriore fenomeno di radicalizzazione. “Le armi – avverte il vescovo – hanno iniziato a comparire! Depositi di armamenti sono stati scoperti dall’esercito nella Bekaa e nell’Akkar. Certo, si tratta di armi singole, ma non si sa mai”.
Mons. Mazloum deplora poi il vuoto istituzionale alla guida dello Stato e le carenze amministrative che sta causando nei sistemi di sicurezza e di giustizia, in un momento in cui, dall’8 ottobre, Hezbollah ha impegnato in via unilaterale le forze in una “guerra a bassa intensità” con Israele. Contestato dal campo politico cristiano, paralizzato da un’odiosa faida tra i suoi leader, nonché dal patriarca maronita e dal Mufti sunnita della Repubblica, questo conflitto “di sostegno” ad Hamas a Gaza ha già causato l’esodo di circa centomila libanesi dai villaggi di confine.
Khalaf: un colpo di Stato
“Il Libano non appartiene più a se stesso” esclama il deputato Melhem Khalaf, che da diversi mesi si è rinchiuso in Parlamento per chiedere l’elezione del presidente della Repubblica e vede nella riluttanza di alcuni del tandem sciita ad agevolare “un vero e proprio colpo di Stato”. Del resto è ormai un dato di fatto che, di fronte alle crisi regionali sorte in seguito alla spartizione della Palestina, l’unità interna del Libano sembra essere sempre più scossa. Un elemento visibile nella nascita di Hezbollah dopo l’invasione israeliana del 1982, quando sembrava sul punto di ripartire l’intero processo di ricostruzione di uno Stato libanese.
Da allora questo partito – legato a doppio filo a Teheran – si è andato trasformando in uno Stato nello Stato, parassitando la politica di difesa e gli affari esteri del Paese, nonché il suo apparato economico e giudiziario. A tutti questi fardelli si aggiunge oggi il peso della presenza dei rifugiati siriani, accolti in modo sconsiderato. Alain Bifani, ex direttore generale delle Finanze, che ha coordinato la stesura del studio in questione, sostiene che si tratta di un campanello d’allarme: “Non possiamo permettere – aggiunge nella nota conclusiva del lavoro di Charbel Nahas, che raccomanda misure concrete per fermare l’emorragia di partenze – che il Libano si autodistrugga”.