ALFREDO MANTOVANO, Cristianità n. 197-198 (1991)
Nella crisi istituzionale in atto, che fa reclamare modifiche incisive della Costituzione anche da posizioni autorevoli, il settore che con maggiore frequenza appare al centro delle discussioni è quello della giustizia, e dei riflessi che l’amministrazione della giustizia ha oggi in Italia sull’ordine pubblico e sulla sicurezza dei consociati. Sono almeno quattro gli aspetti della questione che contribuiscono a far crescere l’attenzione nei confronti del mondo giudiziario, piuttosto che verso altri ambiti di rilievo pubblico: a. l’oggettivo incremento della criminalità di ogni tipo e a ogni livello; b. l’inadeguatezza della risposta dello Stato nel suo complesso, sia quanto alla normativa, sostanziale e procedurale, in vigore, sia quanto agli organici, alle strutture e ai mezzi materiali; c. la concitazione, la confusione e le polemiche che, ai vertici delle istituzioni, hanno connotato, nella primavera e nell’estate del 1991, il modo di affrontare i guai del settore; d. le proposte, di recente formulate e dibattute, per avviare i problemi a soluzione.
L’omicidio Scopelliti: un “avvertimento” emblematico sotto il profilo della “qualità” del crimine
L’aumento della criminalità ha conosciuto negli ultimi anni, se non addirittura negli ultimi mesi, una particolare accelerazione, tale da essere percepita e percepibile senza difficoltà dai non addetti ai lavori, quanto meno negli aspetti salienti. Il fenomeno ha assunto caratteri che è eufemistico qualificare allarmanti sia dal punto di vista qualitativo, sia da quello quantitativo, sia con riferimento all’estensione geografica e al forte radicamento in alcune zone del territorio nazionale.
L’omicidio del dottor Antonino Scopelliti, sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione, avvenuto nel pomeriggio del 9 agosto 1991 nelle vicinanze di Reggio Calabria, rivela in modo emblematico il livello qualitativo cui è giunta la delinquenza organizzata; e lo rivela più ancora dell’uccisione, avvenuta a Palermo il 29 agosto, di Libero Grassi, titolare di un’azienda tessile, “reo” di non essersi piegato al racket delle estorsioni, ma anzi di averlo pubblicamente denunciato.
Infatti, mentre l’assassinio dell’imprenditore palermitano si inquadra nella logica, più volte collaudata, di dimostrare che nessuno può resistere alle pretese della mafia, il “caso Scopelliti” presenta aspetti singolari: la vittima infatti non era un giudice di merito — tale era invece la funzione di magistrati eliminati in un passato anche recente: si pensi al dottor Rosario Livatino —, non svolgeva cioè indagini che preoccupassero questo o quel clan criminale, né componeva collegi giudicanti chiamati a pronunciarsi in prima o in seconda istanza. Il suo compito era quello di sostenere le ragioni della pubblica accusa innanzi a un giudice che si occupa istituzionalmente non già del merito, bensì soltanto della legittimità.
Allora la ragione della sua eliminazione va cercata, secondo le ipotesi formulate dagli inquirenti, nella circostanza che entro pochi mesi egli avrebbe dovuto occuparsi, innanzi alla prima sezione penale della Corte di Cassazione, del cosiddetto maxiprocesso — celebrato nei primi due gradi del giudizio a Palermo — a carico di una parte rilevante della criminalità mafiosa della Sicilia Occidentale, e concluso con significative condanne per associazione a delinquere di stampo mafioso. È noto che la prima sezione, presieduta dal dottor Corrado Carnevale, ha più volte annullato, per vizi di forma, le decisioni di importanti e complessi giudizi per quel tipo di reato e per i delitti a esso collegati; la morte del dottor Antonino Scopelliti, conosciuto dai colleghi come magistrato preparato, equilibrato e rigoroso — e perciò, nell’ottica mafiosa, temibile per l’efficacia dell’impegno professionale —, suona come una sinistra, tragica minaccia nei confronti di chi ora si dovrà occupare del processo in Cassazione.
Per la prima volta un “avvertimento” punta così in alto, se si tiene conto che, come si è detto, la Corte di Cassazione non può incidere su alcuno degli elementi di fatto raccolti nelle sedi di merito, essendo a essa ciò istituzionalmente precluso, ma esprime valutazioni sotto il profilo della stretta legittimità. Peraltro l’”avvertimento” è stato lanciato in un territorio estraneo al dominio diretto di coloro che si presume fossero interessati all’omicidio: questo è avvenuto infatti nel Reggino, che è sotto il controllo della ’ndrangheta, mentre il giudizio del quale il dottor Scopelliti doveva occuparsi ha come imputati esponenti di Cosa Nostra. Ciò dimostra pure — ed è reso drammaticamente eloquente dal risultato raggiunto — la capacità di collegamento fra realtà criminose del tutto diverse.
Però, se è vero che questo episodio ha caratteri di esemplarità, esso — sotto il profilo della qualità raggiunta dal crimine — è tutt’altro che isolato; segue, come si è detto, a distanza di pochi mesi l’omicidio del dottor Rosario Livatino, a sua volta preceduto da numerosi assassini di magistrati e di esponenti delle forze dell’ordine, e si inserisce in un lungo elenco di morti ammazzati, fra i quali anche non pochi politici locali: l’ultimo a cadere, in ordine di tempo, il 28 settembre, è stato, nel centro di Misterbianco, in provincia di Catania, Paolo Arena, segretario cittadino della Democrazia Cristiana.
In taluni casi la consumazione degli omicidi avviene con modalità particolarmente efferate, delle quali i mass media non mancano di descrivere i dettagli; va segnalato pure il “salto di qualità” che sembra connotare altri gravi delitti: dal traffico di stupefacenti, il cui rilevante spessore è facilmente desumibile dai chilogrammi e, in certi casi, dalle centinaia di chilogrammi di droga sequestrata, alla consistenza sempre maggiore raggiunta dalle richieste di estorsione.
Né vanno trascurate, sempre quanto all’aspetto qualitativo del crimine, la sensibile propensione a commettere illeciti di qualsiasi tipo da parte degli amministratori locali — il 15% dei quali, per un totale di 17.000, secondo la più recente denuncia dell’Alto Commissario per il Coordinamento della Lotta alla Mafia (1), risulterebbe sottoposto a procedimento penale —, e il collegamento, emerso in numerosi casi, fra gli stessi politici locali e la delinquenza organizzata; nella sola Campania, a fine aprile del 1991, circa 50 amministratori sono stati segnalati a tale titolo al ministro degli Interni; per lo stesso motivo in Calabria più di un consiglio comunale, a cominciare da quello di Taurianova, è stato sciolto d’autorità; a Catania, nel mese di giugno, sono state emesse 52 ordinanze di custodia cautelare, fra l’altro, per reati elettorali e di associazione di tipo mafioso contro politici — fra i quali anche un ex deputato regionale e numerosi consiglieri comunali — e pregiudicati della zona: nelle indagini è rimasto coinvolto anche l’on. Aristide Gunnella, deputato al Parlamento e, fino a quel momento, esponente di rilievo del Partito Repubblicano Italiano, nei cui confronti il magistrato ha proposto istanza di autorizzazione a procedere; sono infine del settembre del 1991 le notizie sulle rivelazioni del “pentito” della mafia Rosario Spatola, che coinvolgerebbero esponenti di primo piano della politica nazionale, e sull’invio di un’informazione di garanzia a Enzo Leone, assessore socialista alla presidenza della Regione Sicilia, per il reato di associazione a delinquere connesso con brogli elettorali.
Le cifre del crimine
I dati che illustrano l’aspetto quantitativo della crescita della criminalità sono, se possibile, ancora più preoccupanti. Se già erano significative in proposito le cifre esposte nella relazione letta innanzi alla Corte di Cassazione in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario 1991 (2), e tuttavia non erano aggiornate, in quanto facevano stato della situazione fino a tutto il 1989, è difficile trovare aggettivi per qualificare quelle fornite dall’ISTAT nel marzo del 1991 (3), relative ai delitti denunciati dagli organi di polizia giudiziaria nel 1990, posti a confronto con quelli dell’anno precedente.
Sono cresciuti i reati tipici della delinquenza organizzata — rapine: più 23,9%; estorsioni: più 18,7%; sequestri di persona: più 10,4%; omicidi volontari, consumati o tentati: più 11,3% —, e sono aumentati anche i furti — più 21,5% —, che nel 1990 hanno raggiunto la cifra di 1.605.329: una cifra che, ovviamente, riguarda solo i furti denunciati, poiché, come è noto, non sono poche le vittime di questo reato che rinunciano anche a segnalarlo alla polizia giudiziaria, e che illustra la estrema diffusione di un illecito che non cessa di sollevare allarme sociale, ed è spesso il punto di partenza verso più impegnativi percorsi criminali.
Regioni “a rischio” e controllo del territorio
Se è vero che “[…] vige ormai nella società tutta e a tutti i livelli una trasgressività diffusa” (4), in alcune zone dell’Italia la presenza della criminalità assume forme di vero e proprio controllo del territorio; basta ricordare che il 70% dei reati che si commettono nel nostro paese sono consumati nelle quattro regioni più “a rischio”: Campania, Puglia, Calabria e Sicilia (5). Allo scopo di esaminare l’argomento, dal 12 al 20 novembre 1990, a Roma, per iniziativa del presidente della Repubblica, sono state convocate conferenze di rappresentanti del Parlamento, del Governo e del Consiglio Superiore della Magistratura con i magistrati delle zone particolarmente colpite dalla criminalità organizzata, con l’inspiegabile esclusione della Puglia, i quali hanno tenuto relazioni sulle aree di rispettiva competenza. La convocazione di tali conferenze intendeva rappresentare uno dei primi atti di risposta dello Stato all’emergenza del crimine seguito all’omicidio del dottor Rosario Livatino, e doveva fornire materiale di valutazione e proposte per Governo e Parlamento. Nell’occasione, il dottor Giuseppe Viola, presidente della Corte d’Appello di Reggio Calabria denunciava la situazione del suo distretto: “[…] lo Stato è quotidianamente perdente e soccombente in questo confronto frontale con la realtà mafiosa che si sta progressivamente ampliando fino a realizzare il controllo totale del territorio” (6). E proseguiva: “Oggi come oggi, il controllo del territorio, geograficamente, è solo un obiettivo, un’aspirazione, non un momento ed un risultato dell’azione dello Stato. […] la mafia, si è sostenuto, non è ordinamento giuridico, non è perciò autorità sovrana, perché, pur disponendo della componente umana e di quella dell’”imperio”, mancherebbe dell’elemento del territorio. Orbene, questa tesi è ormai superata, perché la mafia dispone ormai del territorio, perché si sta totalmente sostituendo allo Stato nel controllo del territorio” (7). E ancora: “Si è parlato dei possibili rimedi: arriva il giudice di pace. […] vorrei, in chiave paradossale e provocatoria, dirvi, comunicarvi, che noi un giudice di pace forse l’abbiamo di già, ed è il nostro mafioso del quartiere, il mafioso del rione, del piccolo paese, il boss della zona che convoca e “compone” con prodotti di giustizia che non hanno niente a che fare con quelli dei nostri Tribunali, per la rapidità e l’efficacia: ci sono solo sentenze definitive, che nessuno ovviamente si sogna di appellare o contestare” (8).
Qualche elemento di dettaglio dimostra la fondatezza di queste pesanti affermazioni. “Nel territorio di Palmi — testimonia il dottor Agostino Cordova, procuratore della Repubblica della cittadina in provincia di Reggio Calabria — la criminalità è esclusivamente mafiosa, nel senso che la mafia ha assunto il totale controllo su di esso e che anche i reati comuni sono controllati dalla mafia. Su 33 Comuni esistono 27 cosche principali ed oltre 50 sottocosche, per cui non occorre dire altro. Di reati tipicamente mafiosi, su 67 omicidi avvenuti sinora (nell’anno), ben 60 sono iscritti a carico di ignoti” (9).
“[…] la giustizia penale ha abbandonato il territorio”, confermava il dottor Vincenzo Schiano di Colella Lavina, procuratore generale presso la Corte d’Appello di Napoli; “[…] in Campania sono circa 100 i clan camorristici, con circa 6.000 affiliati; a questi vanno aggiunti i familiari, i parenti, i fiancheggiatori, e in genere tutti coloro che vivono intorno a questi clan”” (10). Gli faceva eco, dopo poche settimane, il dottor Vincenzo Paino, procuratore generale presso la Corte d’Appello di Palermo: “[…] risulta aumentata l’infiltrazione delle organizzazioni mafiose nei vari settori economici” (11); e forniva qualche cifra: 173 omicidi nel suo distretto dal 1° luglio 1989 al 30 giugno 1990, contro i 139 del periodo precedente e 97 omicidi tentati contro 77.
Al consolidamento della presenza criminale in zone già da decenni interessate dai fenomeni malavitosi organizzati si aggiunge oggi il radicamento della delinquenza organizzata in zone che fino a qualche anno fa ne erano immuni. Fra queste il Salento: a maggio si è concluso a Lecce il dibattimento a carico dei 134 appartenenti alla cosiddetta Sacra Corona Unita, con una sentenza che ha riconosciuto l’esistenza nella zona dell’organizzazione criminosa. Le cifre dell’incidenza dell’illecito sono eloquenti e tali da non richiedere commento: nel periodo compreso fra il 1° luglio 1989 e il 30 giugno 1990, nelle province di Lecce, Brindisi e Taranto, vi sono stati complessivamente 316 fra omicidi e tentati omicidi; nei dodici mesi precedenti il dato totale era pari a poco più della metà: 164 (12); dieci anni prima, e cioè fra il 1° luglio 1979 e il 30 giugno 1980 omicidi e tentati omicidi erano stati in tutto 19 (13).
La risposta dello Stato
Di fronte a questa reale emergenza lo Stato non solo non ha accresciuto la sua capacità reattiva, né ha posto in opera una seria e organica azione di contrasto — di per sé certo non risolutiva in termini assoluti, ma importantissima per arginare e per circoscrivere le dimensioni del fenomeno —, ma ha oggettivamente e in modo sensibile abbassato la guardia, dimostrando nel suo complesso una diminuita capacità rispetto al passato: “[…] la risposta giudiziaria resta debole per il perdurare di antiche carenze e il sorgere di difficoltà nuove” (14): ciò vale sia sotto il profilo normativo che relativamente alle risorse umane e ai mezzi materiali.
Il codice dello scandalo
“Il nodo da sciogliere, una volta per tutte, è quello dell’esistenza di una legislazione, di basi normative contraddittorie, convulse, occasionali; una congerie spesso inestricabile e incomprensibile anche per dotti giuristi. Basti pensare che sono state emanate ben 14 normative per la modifica delle disposizioni in materia di termini di custodia cautelare” (15): così parlava nel mese di giugno, riferendosi in specie alle disposizioni sulle scarcerazioni, ma estendendo il discorso all’intero complesso di leggi penali, sostanziali e procedurali, il ministro di Grazia e Giustizia, on. Claudio Martelli. “La cosa più importante — ha osservato il dottor Vincenzo Macrì, giudice per le indagini preliminari al Tribunale di Reggio Calabria — è la stabilità dei riferimenti normativi. Secondo me hanno nuociuto e pesato di più nei fallimenti, negli insuccessi, se non vogliamo parlare di fallimento della strategia giudiziaria, non tanto le carenze degli uffici, le carenze di personale, quanto la confusione che si è creata da più di dieci anni a questa parte dal punto di vista normativo, a seguito del susseguirsi di tutta una serie di norme a sensi alternativi, che hanno creato un quadro di riferimento instabile e insicuro” (16).
Confusione e incertezza regnano sovrane in ogni ambito di intervento legislativo: da quello procedurale a quello sostanziale, alle norme che regolano l’organizzazione degli uffici. Quanto alla procedura, l’evento sicuramente più sconvolgente degli ultimi anni, quello che ha prodotto gli effetti maggiormente negativi sul piano della risposta giudiziaria al dilagare del crimine, è stato l’entrata in vigore, il 24 ottobre 1989, del nuovo codice di procedura penale (17).
Per avere un’idea della portata devastante che ha avuto la nuova normativa processuale basta una breve rassegna, tutt’altro che esaustiva delle critiche che provengono da più parti, delle espressioni, e talora solo degli aggettivi, usati da autorevoli magistrati, che in sedi istituzionali hanno fornito valutazioni sugli effetti della sua applicazione: “Una verifica spregiudicata delle informazioni che provengono dai vari distretti giudiziari […] disegna un quadro abbastanza sconfortante dello stato in cui versa la giustizia penale a poco più di un anno dall’entrata in vigore del nuovo codice di procedura” (18).
Il nuovo processo: il miglior regalo alla malavita
Il dottor Giustino Iezzi, procuratore generale presso la Corte d’Appello di Catania, dopo aver detto del “dissesto in cui è lasciata la giustizia penale”, aggiunge che si delinea “quasi il quadro di un naufragio” (19), mentre il dottor Vincenzo Chiriacò, procuratore generale presso la Corte d’Appello di Lecce, indica “il settore penale in stato di vero e proprio collasso” (20). Il dottor Francesco Belmonte, procuratore generale presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria, capoluogo della regione italiana probabilmente più “a rischio”, afferma che “[…] l’impatto [del nuovo codice di procedura penale] è stato devastante: perché lo strumento suddetto è improntato a un formalismo esasperato, eccessivo; e perché c’è un garantismo ancora più esasperato” (21).
Ancora più esplicito il dottor Domenico Blasco, presidente del Tribunale per i Minorenni di Catanzaro, il quale ha definito il nuovo codice “[…] il regalo migliore che uno Stato super garantista dei diritti dei delinquenti, ma molto meno attento alle esigenze di tutela della collettività, potesse fare alla criminalità, sia comune che organizzata” (22), in quanto esso “[…] non solo non consente di fronteggiare men che adeguatamente la delinquenza comune, ma fa addirittura venir meno la teorica possibilità di perseguire giudizialmente terroristi o mafiosi, vanificando anche le eventuali ed ipotetiche misure di ordine pubblico che lo Stato dovesse in proposito intraprendere” (23); la conclusione è che “[…] alla prova dei fatti, come del resto era facile prevedere, questo nuovo codice di procedura penale si è rivelato un autentico fallimento” (24).
Perfino fra coloro che avevano caldeggiato l’introduzione delle nuove norme, e che fino a non molto tempo addietro ne avevano difeso la validità, vi è chi è costretto dall’evidenza a tornare sui propri passi; per esempio, il dottor Adolfo Beria d’Argentine si è così espresso in un’intervista: “Parlo della mia esperienza di ex Procuratore generale di Milano. Nel capoluogo lombardo con il nuovo codice l’attività della Procura si è di fatto paralizzata” (25).
Un atteggiamento tutt’altro che benevolo verso il nuovo codice sembrerebbe — il condizionale è d’obbligo — potersi cogliere anche in un intervento del capo dello Stato, e precisamente nel discorso, sul quale tornerò più avanti, pronunciato il 10 maggio 1991 alla Festa della Polizia di Stato: “E c’è guerra — ha detto nell’occasione il presidente della Repubblica — e nella guerra nessuno credo che prima di sferrare un’offensiva si rivolga al pubblico ministero, ed il pubblico ministero si rivolga al Gip, chiedendo: vorrei sapere se il 1° battaglione dei paracadutisti è autorizzato dal Gip su richiesta del p.m. ad attaccare a quota 650″ (26).
È evidente il riferimento alla farraginosità e all’esasperato formalismo che è proprio del nuovo processo; anche se, subito dopo, l’on. Francesco Cossiga ha proseguito il discorso non già sulla procedura penale, ma sulla ridefinizione del ruolo del pubblico ministero, e in altre occasioni — pure di recente — ha difeso il nuovo codice di procedura penale come scelta di civiltà, dalla quale è impensabile recedere, anche solo parzialmente.
Se si vuole riassumere in un unico dato la impossibilità con le nuove norme di perseguire la delinquenza organizzata, è sufficiente riprendere la cifre fornite dall’ISTAT, e constatare che, mentre — come ho ricordato — sono notevolmente aumentati, nelle percentuali già indicate, i reati tipici della criminalità associativa, sono risultate in calo le denunce per il delitto di associazione di tipo mafioso: meno 35,3%. Non vi è contraddizione: infatti, come ha osservato il dottor Marcello Maddalena, già componente del Consiglio Superiore della Magistratura e ora procuratore della Repubblica aggiunto di Torino, “[…] ciò vuol dire solo che le forze dell’ordine non riescono neppure più a denunciare i partecipanti alle associazioni criminali, che però continuano ad esistere. Se infatti si può denunciare un omicidio, una rapina, una estorsione, un sequestro di persona commesso da “ignoti”, non ha senso — ed ovviamente non viene fatto — denunciare una “associazione a delinquere” composta di soli ignoti. E così i criminali organizzati stanno ottenendo uno dei loro obbiettivi: non essere denunciati per i reati associativi, con la sicurezza, per i loro vertici, di non essere poi neppure attinti per i delitti che costituiscono lo scopo dell’associazione, perché, senza il passaggio attraverso il reato associativo, è praticamente impossibile risalire fino a chi veramente tesse e regge le fila del mondo della criminalità organizzata” (27).
Le ragioni della paralisi
Senza esporre di nuovo i motivi principali che hanno condotto a questo fallimento (28), mi limito a ricordare che il punto nodale del nuovo processo è senza dubbio l’avere riservato al dibattimento il momento esclusivo, con poche tassative e non rilevanti eccezioni, di formazione della prova, con conseguente svalutazione dell’attività di indagine svolta fino a quel momento dal pubblico ministero, e ancor di più dalla polizia giudiziaria (29).
Ora, questo meccanismo rappresenta in concreto l’ostacolo principale all’efficacia della risposta giudiziaria di fronte al crimine; infatti in questo modo “[…] non si potrà più utilmente procedere per fatti di criminalità organizzata e di mafia, che normalmente richiedono mesi od anni di pazienti indagini, nel corso dei quali veniva faticosamente raccolto qualche elemento probatorio, che ora invece, ancorché acquisito, non ha più alcun valore. Mentre è soltanto utopistico sperare che in processi del genere la prova possa poi formarsi a distanza di tempo in dibattimento, in un confronto dialettico solo apparentemente paritario, ma in realtà sovrastato dalla terrificante presenza dell’imputato” (30).
“Il dibattimento pubblico in processi per gravissimi reati connessi con le organizzazioni criminali non è la sede adatta per la formazione in via esclusiva della prova. La presenza del pubblico e degli imputati nel dibattimento costituisce motivo d’intimidazione e di suggestione per i testimoni e per i collaboratori della Giustizia. I testimoni sono reticenti non tanto per connivenza, quanto per paura” (31).
È pur vero che il codice prevede correttivi: l’articolo 392 consente infatti che la testimonianza possa essere assunta dal Gip, il giudice per le indagini preliminari, senza attendere il dibattimento, “quando — così recita la norma —, per elementi concreti e specifici, vi è fondato motivo di ritenere che la persona sia esposta a violenza, minaccia […] affinché non deponga o deponga il falso”: è quello che si chiama “incidente probatorio”. Ma è anche vero che:
a. per utilizzare questo strumento vanno dimostrati gli “elementi concreti e specifici” della violenza o della minaccia; “ma è ben risaputo che le intimidazioni di stampo mafioso o camorristico […] non presentano mai “elementi precisi e concreti” della loro consistenza. Ce lo ha insegnato Alessandro Manzoni: egli ci ha raccontato che i bravi di Don Rodrigo hanno detto a Don Abbondio: “altrimenti …ehm” senza aggiungere nessun’altra parola minacciosa; l’intimidito Don Abbondio in dibattimento ritratterebbe e i “bravi”, i camorristi di allora, neanche oggi sarebbero condannati per quell’”ehm”” (32). In realtà, soprattutto quando si procede per reati per i quali gli imputati si sono avvalsi “della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva” — è questo il connotato essenziale dell’associazione di tipo mafioso, indicato dall’articolo 416 bis del codice penale —, l’intimidazione è in re ipsa e non avrebbe bisogno di dimostrazione, come invece è richiesto dalle nuove norme;
b. l’“incidente probatorio” è possibile al termine di un procedimento complesso, nel corso del quale l’imputato viene messo a conoscenza della richiesta del pubblico ministero. Egli ha quindi tempo e modo per sapere che una persona è pronta a testimoniare, e che intende farlo prima del dibattimento, e perciò è in grado di organizzare l’attività di “dissuasione”. Va infine ricordato che l’imputato ha diritto di assistere alla deposizione testimoniale: e già la sua presenza fisica può bastare a intimidire.
In realtà “[…] in zone mafiose, la formazione diretta della prova nel dibattimento è un’astrazione, dal momento che il sistema mafioso non consente che le prove arrivino nel dibattimento, così come è un’astrazione il rimedio dell’incidente probatorio, di cui debbono essere preavvisati i difensori: e le intimidazioni mafiose (a parte la connaturata omertà) non sono mai avvenute nelle udienze dibattimentali o incidentali, ma sempre prima. Per tali ragioni […] l’accertamento dei reati sulla base di prove testimoniali provenienti da privati, se prima era arduo, ora è pressoché impossibile” (33).
Inutile ricordare, per completare il quadro, che nessun incentivo è previsto per sollecitare la collaborazione dei cosiddetti “pentiti”, né per proteggere in modo adeguato testimoni particolarmente importanti. “Lo Stato — ha commentato amaramente il dottor Piero Giammanco, procuratore della Repubblica di Palermo, dopo l’omicidio di Libero Grassi — non difende neanche chi lo aiuta” (34).
Sia per il fallimento dei “riti alternativi” — e cioè del “giudizio abbreviato” e del “patteggiamento” —, che vengono praticati da una percentuale di imputati di gran lunga inferiore rispetto alle previsioni, sia per le lungaggini del dibattimento, derivanti pure dalla quasi totale assenza dalle aule giudiziarie della stenotipia, il dibattimento stesso è diventato il luogo dove i giudizi si arenano: se con il vecchio rito era possibile definire anche 10-15 processi per udienza, oggi non se ne riesce a concludere in media più di un paio, e non dei più impegnativi.
I conti “in rosso” della giustizia
La gran parte dei reati denunciati restano impuniti: dal 24 ottobre 1989 al 30 giungo 1990 sono state pronunciate in primo grado 19.724 sentenze di condanna dai pretori e 9.293 dai tribunali; per contro i Gip presso le preture hanno depositato 1.367.349 decreti di archiviazione e i Gip presso i tribunali 201.021 (35); l’evidente sproporzione fra le due coppie di dati dà la misura dell’estensione dell’area dell’impunità.
Effetto diretto del nuovo codice di procedura penale è anche il numero delle persone tratte in arresto, dovuto alle condizioni estremamente rigorose richieste per legittimare la custodia cautelare. Desta non poca meraviglia per ogni persona di buon senso che, a fronte dell’impennata delle cifre della criminalità, vi sia un parallelo forte decremento dei provvedimenti restrittivi della libertà che in qualche modo, se pure non esaustivamente, sono il sintomo della prontezza e della capacità di risposta dello Stato; se nel distretto di Milano si è passati dai 2.602 arresti del periodo dal 1° luglio 1988 al 30 giugno 1989 ai 1.565 arresti dei dodici mesi successivi (36), nel circondario di Locri la diminuzione degli arresti e dei fermi operati dalla polizia giudiziaria dopo il 24 ottobre 1989, rispetto a quelli che venivano eseguiti prima di quella fatidica data, è stata di circa l’80% (37).
Le nuove norme di procedura, con la costante previsione di termini ristretti e di autorizzazioni da chiedere a ogni passo, che costellano il cammino del pubblico ministero, impediscono poi di svolgere quelle indagini complesse, ramificate e coordinate che impongono le nuove e spesso sofisticate modalità operative della delinquenza. È ben noto infatti che il crescere vertiginoso dei profitti delle attività illecite fa sorgere per la criminalità il problema del loro reimpiego.
Di recente, con la legge n. 55 del 1990, sono state introdotte nel codice penale le figure dei reati di “riciclaggio” e di “impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita”, che sono sanzionate in modo severo. Si tratta di delitti il cui accertamento è particolarmente laborioso, difficile e tutt’altro che breve, essendo incentrato in modo quasi prevalente su verifiche documentali attraverso banche, società finanziarie e di investimento italiane ed estere, e case da gioco, su riscontri contabili e sull’esame e il coordinamento dei dati raccolti; è un tipo di indagine di fatto resa impossibile dall’inadeguatezza di uomini e di mezzi e dalle nuove norme procedurali, sia per i vincoli temporali sempre incombenti, sia per la molteplicità di adempimenti gravanti sul pubblico ministero, che spesso non consentono di avere a disposizione per le indagini più di una decina di giorni al mese, incluse le domeniche.
Il prezzo di questa inadeguatezza è l’incapacità di seguire le trasformazioni delle attività criminose, che tendono ad assumere, con sempre maggiore frequenza, apparenza di liceità, anche a livelli non elevati. Da qualche tempo al taglieggiamento dei negozianti si sostituisce il sorgere di esercizi commerciali, spesso di rilevanti dimensioni, gestiti direttamente dalle “famiglie” camorristiche e mafiose locali; è un processo che porta alla tendenziale eliminazione dal mercato dei commercianti di dimensioni piccole e medie, dapprima prostrati con le estorsioni, e poi “invitati” a chiudere al momento dell’arrivo del concorrente più grosso (38).
Se la polizia giudiziaria, e in particolare la Guardia di Finanza, che è il corpo con la maggiore esperienza nel settore, non è in grado nella maggior parte dei casi di venire a capo di questo genere di attività, è illusorio che possa riuscirvi il pubblico ministero, pur coordinando le forze a disposizione, per traffici di maggiore consistenza ed estensione geografica, o per l’illecita gestione di fondi e di contributi pubblici.
Minorenni con licenza di uccidere
Un discorso tutto particolare meritano poi, sia pure per cenni, le norme relative al processo penale per i minorenni, introdotte contestualmente alla riforma del codice di procedura penale, le cui conseguenze sono state così gravi da richiedere numerosi correttivi, introdotti dal cosiddetto “decreto anticriminalità”, convertito in legge dalle Camere nel luglio del 1991. Le nuove disposizioni prevedevano originariamente la possibilità di trattenere il minore in custodia cautelare solo per i reati puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a 12 anni: in pratica soltanto per gli omicidi e per i tentati omicidi.
Qualche dato significativo: dall’entrata in vigore delle nuove disposizioni e fino al 30 giugno 1990 nel distretto di Catania si sono registrati 38 ingressi di minorenni in istituto a seguito di provvedimenti restrittivi, a fronte dei 119 dello stesso periodo precedente (39). Nel distretto di Reggio Calabria, fra il 24 ottobre 1989 e il 12 novembre 1990 sono state disposte soltanto 7 custodie cautelari a carico di minorenni (40); e si tratta di due delle zone ove è maggiormente radicata e diffusa la delinquenza minorile.
Il “decreto anticriminalità” ha opportunamente abbassato il limite predetto ai reati puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a 9 anni, oltre che ai delitti di furto aggravato, di detenzione e porto di armi, e di spaccio di stupefacenti. Ha però mantenuto, sia pure con qualche limite, altri istituti, introdotti dalla riforma, come quello dell’accompagnamento a casa del minore che sia stato arrestato in flagranza di reato; si tratta di un meccanismo che non ha dato buona prova di sé: “[…] a Napoli le forze di polizia alle volte si astengono dal fermare un minore sorpreso a commettere un reato giacché in tal caso debbono condurlo al loro comando, identificarlo, verbalizzare l’accaduto e infine accompagnarlo nella sua abitazione che può anche trovarsi a notevole distanza dalla città capoluogo. Per eseguire l’accompagnamento occorre impiegare molte ore e può anche avvenire (come in realtà è accaduto) che il minore sia accolto dai familiari con rimproveri anche manuali per essersi fatto improvvidamente sorprendere dalle forze dell’ordine” (41).
Del pari produttivi di esiti negativi sono stati gli istituti della sospensione del processo e della messa in prova del minore che abbia consumato delitti, anche gravissimi, con conseguente estinzione del reato, e della sentenza di non luogo a procedere “se risulta la tenuità del fatto e la occasionalità del comportamento”, come recita l’articolo 27 del DPR n. 448 del 1988, che è stato poi dichiarato costituzionalmente illegittimo. “[…] nel distretto (specie nella città capoluogo) — si parla sempre di Napoli — i minori devianti, oltre a consumare per proprio conto i più comuni delitti contro il patrimonio (furti e rapine) vengono spesso reclutati dalle associazioni camorristiche per commettere estorsioni, per spacciare droga o addirittura come guardiaspalle o portatori di armi. Essi inoltre, quando sono fermati, consapevoli della loro sostanziale impunità assumono frequentemente atteggiamenti di aperta sfida nei confronti dei tutori dell’ordine rivolgendo ad essi frasi oltraggiose o comunque espressioni che mortificano chi compie il proprio dovere” (42).
Nel regno della confusione: la vicenda “esemplare” dei 40 mafiosi scarcerati
Se le nuove norme procedurali fossero “soltanto” iperformaliste e supergarantiste, la vicenda sarebbe già grave. Infatti “il processo penale ha un senso solo in quanto attraverso di esso si possa pervenire alla individuazione e alla condanna degli autori dei reati. Esso quindi deve tendere all’accertamento della verità sostanziale. Il nuovo codice di procedura penale ha invece sostituito alla verità sostanziale quella formale, quella che riesce a far valere una delle parti, al cui scontro assista un giudice terzo, attento solo a che quelle rispettino le regole del gioco” (43). Ma non si tratta solo di questo; ci si trova di fronte a disposizioni di legge che sono anche estremamente confuse e di ardua esegesi.
La vicenda, consumata fra il febbraio e il marzo del 1991, della scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia cautelare di 40 pericolosi boss mafiosi, già condannati in primo e in secondo grado a pene adeguate alla gravità dei delitti commessi, a seguito di un’ordinanza della 1a sezione penale della Corte di Cassazione, è emblematica di questa realtà. Nelle polemiche, dai toni anche accesi, che l’episodio ha sollevato, nessuno è arrivato a sostenere la totale illegittimità del provvedimento adottato dalla Cassazione; è vero invece che quel che ha fondato la decisione, e cioè il modo di calcolare i giorni “utili” ai fini della decorrenza del termine, è in sé discutibile, e lascia spazio a soluzioni di segno contrapposto. Tant’è vero che pochi giorni dopo il Governo ha emanato un decreto legge, successivamente convertito in legge dal Parlamento, con il quale ha fornito l’”interpretazione autentica” — in una direzione contraria a quella della Cassazione —, della norma del codice in base alla quale erano avvenute le scarcerazioni; e con ciò ha consentito che fosse disposto il rientro in galera dei mafiosi, che pochi giorni prima ne erano usciti.
Si è parlato in proposito di “mandato di cattura per decreto legge” (44), in quanto nella sostanza una norma è intervenuta a tamburo battente per annullare gli effetti di un provvedimento giudiziario che aveva scosso l’opinione pubblica. Il carattere esemplare della vicenda sta però non tanto nell’uscita e nel rientro dei boss in carcere, né nella singolare circostanza che il potere esecutivo si è valso in via d’urgenza dei poteri di quello legislativo per contrastare un provvedimento giudiziario, bensì, come è stato osservato, “[…] nel fatto che, persino in una questione semplicissima, quale quella dei giorni che vanno computati nella durata massima dei termini di carcerazione preventiva, i nostri legislatori sono riusciti a tirar fuori un insieme di norme così mal coordinate da giustificare interpretazioni opposte egualmente “legittime”” (45).
Dalla legislazione “alluvionale” alle denunce dei grandi “evasori” fiscali
A incrementare la confusione si sono poi aggiunte le più recenti riforme di diritto sostanziale: dall’inizio del 1990 fino a oggi sugli operatori del diritto si è abbattuto un diluvio di leggi che hanno innovato in modo significativo, e talora radicale, materie importantissime, come il regime delle circostanze attenuanti, la disciplina delle armi, quella sugli stupefacenti, i delitti contro la pubblica amministrazione, i reati tributari: in quest’ultimo caso, con un decreto legge presentato e decaduto più volte, e infine convertito in legge con numerose modifiche, che non ha apportato alcuna chiarezza alla disciplina del settore, e anzi ha introdotto elementi di ulteriore complicazione.
Né vengono lasciate sfuggire occasioni, nemmeno in periodo estivo e dai luoghi di villeggiatura, per confermare che la confusione e la superficialità sembrano essere i compagni di strada preferiti di interventi legati alle vicende giudiziarie. La querelle della “grazia” da concedere al fondatore delle Brigate Rosse, Renato Curcio, ha occupato e occupa sui mass media uno spazio sicuramente sproporzionato per eccesso rispetto al problema in sé, e agli altri — in primis quello della criminalità — che invece hanno nel contempo ricevuto minore attenzione; e tuttavia, per come è stata ed è animata dai principali protagonisti, essa rispecchia in pieno il modo consueto di affrontare a livello istituzionale i problemi della giustizia: come si fa infatti a parlare di “grazia”, che presuppone per essere accordata il carattere definitivo di tutte le condanne patite dal detenuto, quando nei confronti di Renato Curcio devono essere ancora esauriti tutti i gradi del giudizio per due processi nei quali risulta imputato? Come è possibile dare alla “grazia” un significato “politico” — di chiusura dei conti da parte dello Stato con il terrorismo —, quando essa è per sua natura un provvedimento che può essere sorretto solo da motivazioni umanitarie? Su quali basi si fonda l’affermazione che Renato Curcio è “uno che non ha ammazzato nessuno” (46), quando è invece ben noto che lo stesso Renato Curcio è imputato a titolo di concorso nell’omicidio di due militanti del Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale avvenuto a Padova, e che comunque è stato il fondatore e l’organizzatore di una realtà per la quale la lotta armata e l’eliminazione fisica dell’avversario non costituivano elementi casuali, ma modalità operative consuete? E ciò trascurando le doverose considerazioni di ordine morale e di opportunità politica che militano a sfavore della “grazia”.
La confusione sfiora la schizofrenia quando quelle stesse istituzioni — e le persone che le rappresentano —, che fanno sfoggio di generosità e di comprensione nei confronti dei protagonisti degli “anni di piombo”, e che mostrano un volto debole e garantista oltre ogni misura verso la delinquenza di ogni tipo, ritrovano poi vigore e forza reattiva, dimenticando ogni presunzione di innocenza, o di non colpevolezza fino alla definitività dei provvedimenti, allorché, a scadenze periodiche, vengono pubblicati gli elenchi nominativi dei denunciati per illeciti tributari.
Allora scompaiono tutte le cautele e, come è stato fatto nel mese di luglio del 1991 su iniziativa del ministero delle Finanze, vengono esposte alla vergogna persone il cui consulente fiscale ha omesso — come è accaduto per più casi, fra quelli pubblicizzati — l’annotazione di versamenti di poche migliaia di lire, a fronte di redditi dichiarati — e non contestati dagli uffici accertatori — di centinaia di milioni.
“Eppure — secondo il dottor Francesco Mario Agnoli, già componente del Consiglio Superiore della Magistratura e ora presidente di sezione al Tribunale di Ravenna —non solo gli elementi di accusa in materia fiscale sono, come dimostra l’esperienza, quasi sempre molto più labili che in materia penale, ma addirittura in alcuni casi i presunti “mostri”, inclusi come tali nell’elenco ministeriale, erano già stati discolpati prima ancora dell’affissione del loro nome alla colonna infame dell’evasione o dalla stessa amministrazione finanziaria […] o dalle commissioni tributarie di primo grado” (47). La media ordinaria, che indica nella misura del 60% i ricorsi contro gli accertamenti accolti dalle commissioni tributarie, illustra quanto siano fondate certe denunce (48); è un dato che però non fa recedere dal malcostume di qualificare lo stupratore colto in flagranza di reato come “presunto” autore di violenza carnale, fino a che non si esauriscano i gradi del giudizio, e l’autore di irregolarità formali nella dichiarazione dei redditi — tutte da dimostrare — come sicuro ed esecrando evasore (49).
Il “diniego di giustizia” nel settore civile
Non si può infine dimenticare — non ultima fra le ragioni di debolezza dello Stato sul piano giudiziario, soprattutto in certe zone del territorio — la condizione di quasi paralisi nella quale versa la giustizia civile, per cui il procuratore generale presso la Corte di Cassazione ha creduto di poter parlare di vero e proprio “diniego di giustizia” (50). “Ed è invero questo il terreno sul quale preme il quotidiano bisogno di tutela della gente, l’aspirazione alla certezza dei rapporti giuridici, la richiesta di protezione dei più semplici, ma anche dei più urgenti ed essenziali beni della vita. Una richiesta di protezione nella quale appunto si esprime quel bisogno diffuso di legalità che ogni cittadino avverte, in presenza dei più piccoli come dei più grandi soprusi, e che solo nell’esistenza di un sistema giurisdizionale dotato di un minimo grado di effettività può sperare di trovare sbocco” (51).
Con riferimento all’intero territorio nazionale, nei primi due gradi di merito la durata media di una controversia civile è complessivamente di 1.995 giorni (52). Questa cifra, già di per sé consistente, cresce a dismisura in alcuna aree geografiche: “[…] vi posso ricordare — chiedeva ai suoi ascoltatori il presidente della Corte d’Appello di Reggio Calabria — che il volume del contenzioso civile nel distretto è di circa 45 mila procedimenti? Posso ricordare che a fronte delle 25 mila cause civili che costituiscono il contenzioso dei tre Tribunali di Reggio Calabria, di Locri e di Palmi, abbiamo una pendenza di appena 968 processi in Corte di Appello? La prova clamorosa, cioè, della paralisi di primo grado, ed insieme la prova fotografica di un altro dato preoccupante: quello della “rinuncia” alla giustizia; perché, se il cittadino ha dovuto attendere 5, 6, 7 o 10 anni per ottenere la sentenza di primo grado, è certo che si guarda bene dall’affrontare l’avventura di un’altra attesa decennale in appello” (53).
Organici e mezzi: le cifre dell’impotenza
Se è vero che le carenze di organico — dei magistrati, del personale ausiliario e della polizia giudiziaria —, di qualificazione professionale e di mezzi materiali sono spesso enfatizzate, e dilatate nella loro importanza al punto che — talora in modo interessato, perché così si mira a deviare il discorso dal piano normativo — paiono le principali responsabili dei mali della giustizia, non può trascurarsi l’ovvia considerazione che la funzionalità sul piano del personale, oltre che su quello tecnico e organizzativo, è condizione importante per bene operare.
Uno sguardo rapidissimo alla situazione esistente, che riporti solo alcune delle annotazioni esposte in occasione delle conferenze romane sulla giustizia da coloro che occupano osservatori privilegiati, fa constatare che le carenze maggiori si riscontrano proprio nelle zone dove più incisiva dovrebbe essere l’efficacia operativa. Nel novembre del 1990, epoca alla quale si riferiscono tutti i dati che seguono — ma successivamente la situazione non è migliorata — il distretto di Caltanissetta, nel cuore della Sicilia, poteva contare su un organico della magistratura scoperto per il 34%; il Tribunale di Nicosia aveva un organico effettivo di due giudici, incluso il presidente, e per lavorare aveva necessità continua dell’applicazione di un magistrato appartenente a un altro ufficio (54). Nella Procura della Repubblica presso la Pretura di Messina su ogni sostituto procuratore gravava un carico personale di 10.000 fascicoli da esaminare, e in ordine ai quali prendere le decisioni, ed erano assenti 9 ausiliari su 15 (55).
La Corte d’Appello di Reggio Calabria poteva contare su 10 consiglieri rispetto ai 20 previsti dall’organico (56); gli uffici giudiziari compresi nel distretto di Catanzaro registravano vacanze di posti di magistrati nella misura media del 25% (57), con punte del 50% e oltre (58). “[…] sebbene il mio ufficio — spiegava il dottor Elio Costa, procuratore della Repubblica di Crotone —, che svolge anche le funzioni di procura circondariale, sia gravato di ben 41.000 procedimenti penali di cui 47 per omicidio, 14 per tentato omicidio, 47 per frodi comunitarie, 37 per rapina, 3 per associazione finalizzata allo spaccio di stupefacenti e tanti altri per estorsione e per reati contro la pubblica amministrazione, ha conservato, tuttavia, la stessa organizzazione strutturale, almeno con riferimento al personale di segreteria che aveva all’epoca in cui svolgeva soltanto funzioni di procura presso il Tribunale e si occupava di non più di 3.000 processi” (59).
Ma, probabilmente, la situazione quantitativamente più impressionante è quella della procura della Repubblica presso la Pretura di Napoli, dove “[…] arrivano in media 1.850 notizie di reato al giorno, le quali non riescono nemmeno ad essere registrate tutte, dal momento che l’ufficio è dotato di un organico non solo sottodimensionato, ma nemmeno interamente coperto (mancano ben 12 sostituti su un totale di 46)” (60).
Alla data del 19 ottobre 1990 nello stesso ufficio dovevano ancora essere registrate 370.000 notizie di reato; doveva cioè essere svolto il primo immediato adempimento che incombe ad horas allorché arriva l’informazione di un fatto illecito: la formazione del fascicolo e l’annotazione sul registro dell’ufficio. “[…] a Napoli — sono parole del dottor Augusto Coppola, procuratore della Repubblica presso la pretura del capoluogo campano —, per avere un certificato di chiusura di inchiesta sui furti delle auto i tempi sarebbero di dieci mesi contro ignoti, sicché il proprietario deve aspettare ben dieci mesi per avere un certificato. Quanto alla Pretura Circondariale, prima che venisse smantellata la struttura che oggi dovrebbe passare a noi, il certificato si otteneva in quarantotto ore” (61).
Il tutto avviene in uno Stato che all’amministrazione della Giustizia dedica appena l’1% del bilancio nazionale, nel quale invece trova posto ogni sorta di sprechi e di devoluzioni per attività prive di qualsiasi rilievo pubblico.
La volontà politica di “non” cambiare il nuovo processo
L’insieme di questi dati — riportati, lo ripeto, non in quanto singolari, bensì in quanto significativi di una realtà amplissima e ormai quasi generalizzata — rappresenta una sorta di sintetica relazione di un clamoroso fallimento. Se è lecito il paragone, cambiando quel che va cambiato, è ben noto che quando una realtà economica fallisce, il primo passo da compiere è l’inventario delle risorse disponibili, al fine di evitare una loro ulteriore dispersione, seguito immediatamente dall’analisi delle cause del tracollo, e dalla individuazione dei modi per non pregiudicare ulteriormente — e anzi, nella misura del possibile, soddisfare — le ragioni di coloro che hanno subìto pregiudizio. Di fronte all’emergenza della criminalità e al sostanziale fallimento della risposta dello Stato, è stata concretamente avviata una procedura di questo tipo da parte del Governo e del Parlamento?
È difficile dare una risposta affermativa. Negli ultimi mesi i provvedimenti normativi più significativi su questo terreno sono stati il “decreto anticriminalità”, presentato dal Governo nel novembre del 1990, il decreto cosiddetto “antiCarnevale”, che, come prima ricordavo, è intervenuto a impedire talune scarcerazioni per decorrenza dei termini, e il decreto legge n. 292, del 9 settembre 1991, approvato dal Consiglio dei Ministri il 6 settembre.
Quanto al primo (62), presentato come il segno più tangibile e completo dell’inversione di tendenza nella lotta al crimine, va osservato anzitutto che il Governo ha dovuto riproporlo per ben quattro volte, a partire dal mese di novembre del 1990, prima che, nel luglio del 1991, il Parlamento lo convertisse in legge; e ciò sicuramente non depone a favore di una volontà politica decisa da parte del legislatore. Nel merito, va dato atto che con questo decreto sono state introdotte significative restrizioni ai benefici per i detenuti, elargiti con troppa larghezza dalla riforma penitenziaria del 1975, e soprattutto dalle modifiche del 1986; apprezzabile è pure, fra l’altro, l’ampliamento dei casi nei quali può essere disposta la custodia cautelare, con particolare riferimento ai minorenni. Oltre a integrazioni delle norme che riguardano le misure di prevenzione e la disciplina degli appalti, qualche ritocco ha interessato le attività di indagine del pubblico ministero.
Quanto al decreto legge n. 292 — trascurando l’esame di quello “antiCarnevale” per la sua incidenza circoscritta —, le novità più importanti riguardano: a. l’estensione a delitti tipici della malavita organizzata — come la detenzione e il porto illegale di armi, e come la rapina e l’estorsione, anche nelle forme tentate — dei casi nei quali deve essere disposta la custodia cautelare in carcere, con una sorta d’inversione dell’onere della prova: cioè, il nuovo articolo 275 del codice di procedura penale prescrive che, mentre di regola vanno provati gli elementi a sostegno delle esigenze cautelari, verso chi sia indiziato di questi reati di maggiore gravità devono invece essere “acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”, diversamente si resta in carcere; b. l’esclusione, per i medesimi delitti, degli arresti domiciliari; c. il sensibile allungamento dei termini della carcerazione preventiva; d. la riproposizione delle norme sul trasferimento d’ufficio dei magistrati nelle zone più disagiate, già contenute in un decreto legge del maggio del 1991, poi decaduto per mancata conversione in legge; e. l’aumento del potere del procuratore generale di avocazione delle indagini per i reati di tipo mafioso.
I rilievi ai due decreti — quello del novembre del 1990 e quello del settembre del 1991 — attengono tuttavia non già a ciò che da essi è previsto, quanto a ciò che in essi non è contenuto. Nonostante il travagliato iter parlamentare del primo e il lungo tempo che si è avuto a disposizione per introdurre novità e rettifiche di maggiore peso, e nonostante i gravi delitti sulla scorta dei quali è stato presentato il secondo decreto, in entrambi i testi normativi è stato eluso il nodo centrale, rappresentato dal regime di formazione della prova previsto dal nuovo codice di procedura penale. E se, dopo l’entrata in vigore di quest’ultimo e i primi guasti derivanti dalla sua applicazione, il potere politico ha rimproverato alla magistratura di non aver segnalato in anticipo l’inopportunità della riforma, non si può dire che dopo siano mancati gli appelli provenienti dal mondo giudiziario tesi ad apportare sostanziali cambiamenti all’impianto strutturale del codice (63).
In occasione dell’apertura dell’anno giudiziario il procuratore generale presso la Corte di Cassazione prospettava “[…] l’esigenza di rivedere qualcuna delle linee portanti del nuovo sistema, esigenza per soddisfare la quale si imporrebbe l’assunzione del coraggio e della responsabilità di riprendere in mano qualcuno degli aspetti della legge-delega” (64). Nel corso delle conferenze del novembre del 1990 la gran parte dei magistrati che hanno formulato proposte per rendere più adeguata la risposta giudiziaria alla sfida criminale hanno illustrato elenchi sostanzialmente simili di modifiche urgenti da apportare alle disposizioni del nuovo codice, incentrate in modo particolare sull’ampliamento dei poteri di indagine del pubblico ministero, dei casi per i quali può essere disposta la custodia in carcere, e della possibilità di formare la prova prima del dibattimento, oltre che sullo snellimento di quest’ultimo, e sul regime delle impugnazioni.
Gli impegni presi in più occasioni dalle autorità politiche maggiormente interessate alle vicende giudiziarie non hanno però conosciuto alcuna traduzione concreta su questo terreno. E pare di capire che non ne avranno nel prossimo futuro, se è vero che, parlando a Palermo a poche ore di distanza dall’omicidio di Libero Grassi, il capo dello Stato ha dichiarato: “Sono dell’opinione che con questo codice di procedura penale si possa combattere il crimine, perché se lo si può fare in Inghilterra, in Germania, in Francia, negli Usa e in Canada, salvo a non riconoscere che la Sicilia è una terra particolare dove le leggi di civiltà giuridica non si devono applicare, si devono applicare le leggi di inciviltà giuridica” (65); il che, oltre a suscitare perplessità quanto al parallelo con le altre nazioni, dotate di sistemi processualpenalistici del tutto diversi da quello italiano, e reciprocamente diversificati, non fa comprendere la ragione della consultazione svolta nel novembre del 1990 con i magistrati delle regioni “a rischio”, che era stata promossa dallo stesso on. Francesco Cossiga, e dalla quale erano partite indicazioni integralmente opposte.
Le riforme annunciate
In compenso negli ultimi mesi l’incertezza e la confusione sono, se possibile, cresciute, per l’acuirsi di polemiche concitate, avviate e proseguite da personaggi istituzionalmente autorevolissimi, nel corso delle quali gli attacchi personali, spesso aspri, si sono alternati alla prospettazione di problemi effettivi; e questa tuttavia è stata seguita non già da una riflessione attenta, bensì da slogan, da battute ironiche, da ritrattazioni, da autoesaltazioni e da riproposizione delle medesime tematiche come se nulla fosse accaduto. Il tutto espresso ordinariamente per via di interviste rilasciate ai mass media, e quasi mai nelle sedi istituzionali.
E così, alla querelle avviata con toni forti dall’on. Francesco Cossiga il 10 maggio 1991, in occasione della Festa della Polizia di Stato, sui cosiddetti “giudici ragazzini”, e all’attacco dello stesso presidente della Repubblica contro il vertice dell’Associazione Nazionale Magistrati, che aveva mostrato, non senza ragioni, di non aver gradito quel discorso, ha fatto seguito lo scontro a distanza fra il capo dello Stato e il presidente della Corte Costituzionale, professor Ettore Gallo, avente come sfondo una diversità di opinioni sulle riforme istituzionali, e infine quello, più ravvicinato, fra il capo dello Stato e il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, on. Giovanni Galloni, concluso, dopo qualche difficoltà, con la riconciliazione fra i due.
Se però tutte le polemiche hanno trovato composizione, tranne forse quella fra il presidente della Repubblica e l’Associazione Nazionale Magistrati, va posta attenzione alle questioni sollevate nel corso di esse, che appaiono rivelative del modo di considerare e di avviare a soluzione, a certi livelli, i mali della giustizia; l’impressione che si ricava è che per molti esponenti politici tale soluzione coincide con il varo di ulteriori riforme, attinenti tuttavia in modo quasi esclusivo allo statuto della magistratura.
Quelle di cui, anche su impulso dei frequenti interventi dell’on. Francesco Cossiga, si è parlato di più sono: 1. la separazione della carriera inquirente da quella giudicante, con la fuoriuscita dalla magistratura del pubblico ministero, il quale verrebbe inquadrato alla dipendenze dell’esecutivo; 2. la facoltatività dell’azione penale, oggi — almeno formalmente — obbligatoria; 3. la modifica del sistema di reclutamento dei magistrati; 4. l’introduzione di forti limitazioni alla garanzia dell’inamovibilità del giudice; 5. la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura. Senza svalutare il peso delle altre, va detto che le prime due questioni, fra loro strettamente correlate, appaiono senz’altro le più importanti.
Il pubblico ministero alle dipendenze dell’esecutivo
“Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso [sic] di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia o contro il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza. A questo ragazzino io, come si dice in Sardegna, non affido nemmeno l’amministrazione della casa terrena, che sarebbe la casa a un piano che ha una sola finestra. Se poi, a differenza del nostro, in tutti i paesi del mondo si ritiene che il mestiere del giudice sia uguale a quello del Pm, allora diciamo che si vuole questo per avere più posti a disposizione nelle grandi città” (66). Con queste parole il capo dello Stato non ha posto soltanto un problema di formazione e di professionalità del pubblico ministero, ma, per quello che da esse è dato intendere, ha prospettato pure l’estromissione del pubblico ministero dalla magistratura. Egli ha ribadito questo concetto il 12 agosto 1991 quando, commentando le indagini sull’omicidio del dottor Antonino Scopelliti, dopo aver sottolineato che esse erano condotte da “un ragazzo”, ha aggiunto: “Io ritengo che esista un problema vero e reale di effettivo coordinamento delle forze di polizia e dei settori di investigazione sotto un’unica autorità politica responsabile” (67). Dubbi sul suo reale convincimento derivano peraltro da quanto sostenuto a Palermo dopo l’omicidio di Libero Grassi: “Il nuovo processo richiede una funzione del p.m. unitaria e organizzata, cioè gerarchizzata all’interno della magistratura” (68).
Al di là però di quest’ultimo intervento, che appare contrastante con i precedenti, va ricordato che la questione è stato ripresa — nei termini che il presidente della Repubblica aveva originariamente enunciato — dal ministro della Giustizia e da numerosi esponenti politici, concordi nel valutare positivamente la diversa collocazione del pubblico ministero.
Il problema dal quale il discorso è partito, e cioè quello della preparazione adeguata ad affrontare e a dirigere indagini complesse, soprattutto nelle zone “a rischio”, è ovviamente reale e, prima delle polemiche degli ultimi tempi, era stato ripetutamente messo in luce dai magistrati più esperti operanti in quelle zone; “[…] mi pare fuori dalla realtà — aveva detto nel novembre del 1990 il procuratore della Repubblica di Palmi — pensare che si possano affrontare quelle che sono tra le peggiori associazioni mafiose della regione con un nutrito manipolo di giovani alle prime armi” (69). “[…] è, quanto meno, indispensabile — aveva aggiunto nella stessa occasione il presidente della Corte d’Appello di Reggio Calabria — la sufficiente conoscenza delle problematiche ambientali, dei problemi specifici di una realtà che è fatta fondamentalmente di un confronto quotidiano che esige esperienza, adeguatezza, professionalità altrettanto specifiche e maturate” (70).
Ci si chiede se il rimedio migliore sia non già quello di cercare le formule per una formazione più specifica del magistrato, e in particolare di quello inquirente, oltre alla preparazione generale e teorica richiesta dal concorso per accedere alla magistratura, e per incentivare la presenza nelle zone più esposte di magistrati esperti — e non solo dei giovani vincitori di concorso, che all’inizio non hanno altra scelta se non di accettare quelle destinazioni —, bensì quello di svincolare il pubblico ministero dall’ordine giudiziario, collegandolo gerarchicamente a “un’unica autorità politica responsabile”, per usare le parole pronunciate dall’on. Francesco Cossiga nel maggio del 1991.
Può osservarsi che questa soluzione è perfettamente coerente con l’impianto del nuovo codice di procedura penale e con il regime di formazione della prova da esso previsto; oggi infatti il pubblico ministero è un magistrato che, in quanto tale, in quanto cioè non puro investigatore, dà una garanzia di giuridicità alle indagini che svolge: interroga la “persona sottoposta alle indagini” — circonvoluzione che ha sostituito la precedente, troppo semplice, qualifica di “imputato” —, ascolta i testimoni, svolge accertamenti, se i termini glielo consentono, e alla fine domanda al Gip, ravvisandone le condizioni, la citazione a giudizio dell’indagato. Ora, poiché, per le ragioni prima esposte, l’attività che il pubblico ministero ha espletato fino a quel momento non ha alcun valore probatorio nel dibattimento, dovendo l’istruttoria cominciare da zero, è più che ovvio domandarsi per quale motivo il pubblico ministero deve restare un magistrato, e non può essere, per esempio, un funzionario alle dipendenze del ministro degli Interni.
Dalla discrezionalità all’arbitrio: verso un pubblico ministero creatore della legge?
Chiunque è in grado di immaginare quanto una riforma del genere farebbe perdere in termini di autonomia e di indipendenza al pubblico ministero. Si può cogliere a pieno la portata della modifica che da taluni si reclama se il discorso viene collegato con la proposta di rendere facoltativo l’esercizio dell’azione penale: una proposta che, per trovare attuazione, esigerebbe una modifica costituzionale, poiché il carattere obbligatorio dell’iniziativa penale è fissato dall’articolo 112 della Costituzione.
A sostegno della richiesta si osserva che la mole delle notizie di reato, che quotidianamente assale le procure, è tale che l’alternativa alla paralisi totale appare essere solo quella di concentrarsi sui reati più gravi, quelli che destano il maggiore allarme sociale, privilegiando la persecuzione di questi, a scapito degli altri: e ciò sarebbe possibile solo se l’iniziativa penale venisse resa facoltativa.
È il caso di ricordare che ciò di cui si discute è già prassi in molti uffici giudiziari; né è mancata la teorizzazione dei criteri da seguire per selezionare i fascicoli da mandare avanti e per tenere gli altri in disparte. In una circolare che reca la data del 16 novembre 1990, inviata dal dottor Vladimiro Zagrebelsky, procuratore della Repubblica presso la Pretura di Torino, ai sostituti procuratori del suo ufficio, si osserva che “[…] l’individuazione di criteri di priorità non contrasta con l’obbligo di cui all’art. 112 Cost., dal momento che il possibile mancato esercizio di una azione penale tempestiva e adeguatamente preparata per tutte le notizie di reato non infondate, non deriva da considerazioni di opportunità relativa alla singola notizia di reato, ma trova una ragione nel limite oggettivo alla capacità di smaltimento del lavoro dell’organismo giudiziario nel suo complesso e di questo ufficio in particolare” (71).
Quindi, dopo aver posto al vertice delle priorità i procedimenti penali aventi come indagati i detenuti, e quelli in ordine ai quali si può prevedere l’irrogazione di una pena consistente, il documento esorta a prendere in considerazione i “[…] settori di legislazione penale attinenti ad interessi collettivi, come quelli relativi alla tutela dell’aria, del territorio, delle acque e degli alimenti; come quelli relativi alla tutela della sicurezza sul lavoro; come quelli urbanistici” (72).
Si può osservare che, se è vero che il carico di lavoro delle procure — con gli attuali organici e con l’organizzazione degli uffici esistente — non consente oggettivamente di seguire tutte le pratiche, è anche vero che soluzioni come quella di Torino sono tutt’altro che tranquillizzanti: il magistrato, che è il soggetto chiamato istituzionalmente ad applicare, e non a formare la legge, si arroga in questo modo il potere di decidere quale reato è importante, e quale invece no, cioè — di fatto — modifica la legge. Ritenere che gli illeciti che violano gli “interessi collettivi” meritino la precedenza e vadano perseguiti a scapito di quelli che “si limitano” a procurare danno al privato — che, per esempio, lo scarico abusivo sia perseguibile a preferenza dello scippo — è una decisione che non può essere affidata al magistrato, in quanto di esclusiva competenza del legislatore, il quale peraltro non ne dovrebbe disporre arbitrariamente.
E dunque la soluzione intrapresa in alcuni uffici, come quello torinese, che intende rispondere a una reale esigenza di dare ordine al lavoro giudiziario, finisce per rivelarsi peggiore del male, in quanto prepara il terreno alla frammentazione geografica del diritto sostanziale, variabile a seconda degli orientamenti e delle preferenze dei magistrati operanti nelle diverse zone.
Se poi si prova ad affiancare le due proposte — discrezionalità, pur se orientata, dell’azione penale e soggetto adibito al suo esercizio individuato in un dipendente dell’esecutivo —, è facile concludere che le indicazioni di priorità circa l’iniziativa penale, oggi di fatto provenienti dai capi degli uffici giudiziari, passerebbero di diritto nella competenza del potere esecutivo. Quest’ultimo potrà determinare non solo quali reati vanno perseguiti e quali no, ma pure in quali aree di illecito, e addirittura nei confronti di quali soggetti va esercitata la giurisdizione; con ciò ponendo fine sia alle garanzie di autonomia del pubblico ministero rispetto al potere politico, sia anche a quella dei magistrati giudicanti, le cui decisioni potranno riguardare solo quanto l’inquirente avrà loro sottoposto, una volta esercitata la propria discrezionalità.
Riforme peggiori dei mali
Anche a proposito degli altri “punti caldi” delle polemiche giudiziarie tardoprimaverili, la regola pare essere quella che i rimedi prospettati appaiono immediatamente idonei ad aggravare, e non già a risolvere, i mali denunciati. Così è per l’accesso alla magistratura, che — allo scopo di coprire i vuoti di organico — si vorrebbe consentire in via straordinaria, o attraverso un concorso basato sulle sole prove orali, e non già pure su quelle scritte, come è ordinariamente, o attraverso una pura valutazione di titoli. Ragionando in tal modo si trascura però di considerare che: a. un concorso nel quale vi siano esclusivamente le prove orali dura, in base alla “produttività” media giornaliera delle commissioni di esame, quasi tre volte di più rispetto a un concorso con prove scritte e orali (73); b. mentre la prova scritta garantisce un rigoroso anonimato al momento della correzione, quella orale si presta a sollecitazioni di ogni tipo; c. lo spazio per le raccomandazioni cresce ulteriormente qualora il vaglio abbia a oggetto solo i titoli. Una maggiore celerità del lavoro delle commissioni d’esame è in realtà possibile, e dipende da accorgimenti di natura organizzativa, a cominciare dal completo esonero degli esaminatori — che per i due terzi sono giudici — dalle funzioni ordinariamente svolte.
Così è ancora per gli invocati trasferimenti di ufficio che, superando la garanzia dell’inamovibilità, pur essa prevista dalla Costituzione, all’articolo 107, consentano di inviare nelle sedi più difficili magistrati capaci ed esperti, e non giovani uditori giudiziari. Il rimedio proposto è invece facilmente convertibile in una sorta di minaccia di punizione, e quindi di condizionamento dell’attività del magistrato “trasferito” o “da trasferire”, quando è noto che non manca la disponibilità di tanti meno giovani a recarsi nelle regioni “a rischio”: vi è però pure la convinzione che il proprio sacrificio, in presenza delle leggi in vigore e in assenza di un impegno complessivo dello Stato, non sortirà esiti di rilievo.
Così è infine per la proposta di mutare la composizione del Consiglio Superiore della Magistratura, organo chiamato, fra l’altro, a decidere dei trasferimenti dei giudici, degli incarichi direttivi degli uffici, e delle sanzioni disciplinari, che attualmente è costituito da 20 membri “togati” — magistrati eletti dai colleghi —, da 10 membri “laici”, espressi dal Parlamento, e da tre membri di diritto: il capo dello Stato, il presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione. Le proposte avanzate mirano a ridurre a 10 il numero dei “togati” e ad affidare la nomina degli altri 10 componenti al presidente della Repubblica, il quale — come già avviene oggi per le nomine alla Corte Costituzionale — non potrebbe che provvedervi sulla base di criteri politici: con il rischio evidente di condizionare l’attività di autogoverno della magistratura e di spingere ancor di più i singoli giudici verso questa o quella forza politica, allo scopo di ottenere vantaggi personali.
Legalità “formale” e illegalità di sostanza
L’8 luglio 1991, ricevendo i partecipanti alla prima sessione della Conferenza permanente del Ministero italiano degli Interni, Papa Giovanni Paolo II ha ricordato che “[…] l’affermazione meramente “formale” della legalità senza effettiva incisività negli interventi concreti finisce per favorire una illegalità di sostanza, fatta di compromesso e di corruzione, con la conseguenza dell’affermarsi di un diffuso malessere che incrina alla base quel consenso sociale che, com’è noto, è il fondamento stesso della civile convivenza. […]
“È chiaro, pertanto, che ogni azione mirante al recupero della legalità deve necessariamente partire dalla riaffermazione di […] valori fondamentali, senza i quali l’uomo è offeso nella sua dignità originaria e la società è intaccata nel suo nucleo più profondo” (74).
È difficile trovare, nei fiumi di parole dedicate negli ultimi tempi ai temi della giustizia e della delinquenza, un’analisi così puntuale e aderente alla realtà. Certo, le affermazioni puramente “formali” della legalità si sprecano: dichiarazioni di intenti, “audizioni” di fronte a commissioni parlamentari o ministeriali, approvazioni di testi di legge; ma l’assenza, che è sotto gli occhi di tutti, di una “effettiva incisività negli interventi concreti” alimenta l’“illegalità di sostanza”, contribuisce al radicamento e alla estensione del contropotere criminale, genera il “compromesso” e la “corruzione”, e sfalda il residuo consenso sociale.
Le considerazioni del Santo Padre trovano echi significativi anche su sponde “laiche”. “Dopo secoli in cui l’Italia era abituata a essere una società “normata” — ha scritto Adolfo Beria d’Argentine —, e per di più con norme largamente interiorizzate (dalla Chiesa, dalla morale familiare e locale, dallo Stato, dall’ambiente lavorativo) si è trovata a sperimentare una forte ondata di soggettività, cioè di comportamenti individuali riferiti a criteri elaborati dai medesimi singoli soggetti. Tutto è diventato altamente soggettivo, quindi relativizzato: […] una società ad alta soggettività moltiplica i singoli desideri, le attese, i bisogni in tutte le direzioni, e, soprattutto, moltiplica la tendenza tutta soggettiva a considerare tali desideri, attese e bisogni come dei veri e propri diritti e cioè norme con validità per tutti” (75).
Il Sommo Pontefice esprime questi concetti in termini più incisivi e sintetici quando afferma che, “analizzando le cause che hanno ingenerato in non poche coscienze una sorta di eclissi del senso stesso della legalità, si è spinti a risalire verso quel più generale indebolimento del senso dei valori, che le analisi sociologiche vanno da tempo rilevando. La crisi dell’”idea di dovere”, sia nello Stato che nei privati, l’impugnazione del “principio di autorità”, sostenuta da ideologie massificanti, l’oscuramento della distinzione fra bene e male morale, accompagnato da un crescente cedimento a modelli permissivi, sono altrettanti fattori che influiscono in modo determinante sull’odierna crisi della legalità nella convivenza civile” (76).
La drammatica diffusione della criminalità, che trova la causa prossima e scatenante in una legislazione orientata ideologicamente su basi relativistiche e di fatto produttive di effetti devastanti, ha radici più profonde nella progressiva scristianizzazione del corpo sociale (77) e nell’abbandono, nel contempo a livello individuale e istituzionale, di un ordine oggettivo di valori di riferimento. Quando la “forte ondata di soggettività” (78) è giunta, con l’introduzione dell’aborto di Stato, a negare sul piano legislativo la tutela della vita innocente, non ci si può meravigliare se, a distanza di un decennio, la sensibilità nei confronti dell’altro sia scesa a un livello tale da incontrare, rispetto al passato, una disponibilità sempre maggiore ad ammazzare per un portamonete, o anche per meno.
Più in generale, l’allontanamento dal quadro morale stabile porta alla costruzione di una pseudo-morale autonoma, e cioè di una non-morale, i cui riferimenti coincidono con le forme di condizionamento più vicine. “Soggettività e proliferazione dei diritti hanno avuto come risultato una tendenza all’autolegittimazione, o almeno alla legittimazione sociale, dei diritti e dei comportamenti a essi legati” (79).
Vizi privati e… pubblica corruzione
La dicotomia fra “paese reale” e “paese legale” è in verità sempre più evanescente; viene da chiedersi quali siano gli indici della presunta sanità del corpo sociale, da confrontare con un contrapposto stato di malattia delle autorità, di fronte non solo alle cifre elevatissime della delinquenza, ma anche, e soprattutto, alla diffusione capillare della criptoillegalità: quel modo di comportarsi che induce a cercare la “raccomandazione” per vincere l’appalto come per ottenere un certificato all’anagrafe, o a contrattare il voto al momento delle elezioni, o a non tenere in alcun conto i beni pubblici, o a moltiplicare le convivenze, o infine a fare ricorso all’aborto con una facilità che ha del banale.
Corruzione personale e pubblica in questo modo crescono e si alimentano reciprocamente; operano infatti “[…] meccanismi perversi, che […] appartengono a quelle “strutture di peccato” che hanno il loro fondamento nelle colpe personali, in quanto collegate ad atti concreti delle persone, che le introducono, le consolidano e ne rendono difficile la rimozione” (80).
In questo quadro, mentre la seduzione ideologica marxista, o comunque materialistica, cede in modo definitivo il posto a “[…] un’altra forma di ateismo, che adulando la libertà tende a distruggere le radici dell’umana e cristiana morale” (81), diventa realmente decisivo, per il singoli e per la società nel suo insieme, e anzitutto per i cattolici, corrispondere con i fatti all’appello di Pietro alla “nuova evangelizzazione”, il cui percorso morale è stato tracciato da Papa Giovanni Paolo II nel mese di giugno del 1991, durante la sua visita pastorale in Polonia, attraverso la riflessione guidata sui singoli precetti del Decalogo, e cioè sulla sintesi della morale oggettiva (82).
Non possono farsi attendere però, contestualmente, gli interventi riparatori di ordine strettamente positivo. “Non si abbandona una città se non si vuole che in essa la malavita possa crescere meglio” (83), lamentava il dottor Giambattista Scidà, presidente del Tribunale per i Minorenni di Catania, a proposito della latitanza delle istituzioni statali competenti, nonostante le specifiche e motivate richieste di aiuto inviate ripetutamente.
È una constatazione che vale a buon diritto per l’intera nazione, stretta dalla morsa della criminalità e aggredita all’interno dal cancro dell’immoralità: continuare a trascurare il compito, spettante a “chiunque è in posti di responsabilità”, di “ricucire la frattura tra morale e società“ (84), omettere o differire le indispensabili radicali modifiche alle norme, anche di procedura, più permissive, continuare a dilapidare il denaro pubblico nei mille rivoli dell’assistenzialismo e nel finanziamento della corruzione, piuttosto che concentrare le riserve su ciò che è di stretta competenza dello Stato, a cominciare dall’organizzazione dell’apparato giudiziario e delle forze dell’ordine, saranno segni ulteriori sempre più evidenti della volontà di sostenere la malavita e l’illegalità.
Alfredo Mantovano
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(1) La Gazzetta del Mezzogiorno, 14-5-1991. La denuncia è stata formulata quando quell’incarico era ancora affidato al dottor Domenico Sica, che dal mese di settembre del 1991 è passato ad altro incarico. Nell’omelia pronunciata in occasione della festa di santa Rosalia, il card. Salvatore Pappalardo, arcivescovo di Palermo, parlando dei “contemporanei abusi invalsi, dappertutto in diversi livelli di pubbliche amministrazioni”, si è chiesto: “Chi non sa quante forme esistono di imposizione di esazioni illegittime: le tangenti, le bustarelle, i versamenti, i pedaggi ed omaggi vari, resisi ormai indispensabili per fare andare avanti una qualsiasi pratica, per ottenere un’autorizzazione o la concessione di una licenza” (Avvenire, 5-9-1991).
(2) Vittorio Sgroi, procuratore generale della Repubblica presso la Corte Suprema di Cassazione, Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 1990. Roma, 9 gennaio 1991, p. 62.
(3) ISTAT, Comunicato stampa. Statistiche della criminalità, Roma, 25 marzo 1991.
(4) V. Sgroi, procuratore generale della Repubblica presso la Corte Suprema di Cassazione, doc. cit., p. 17.
(5) Questa cifra è stata confermata dal ministro di Grazia e Giustizia: cfr. La Gazzetta del Mezzogiorno, 21-9-1991.
(6) Giuseppe Viola, presidente della Corte d’Appello di Reggio Calabria, intervento in Criminalità organizzata e regioni a rischio. Conferenze convocate per iniziativa del Presidente della Repubblica di rappresentanti del Parlamento, del Governo e del Consiglio Superiore della Magistratura con i magistrati delle zone particolarmente colpite dalla criminalità organizzata. Roma, 12-20 novembre 1990 — atti raccolti in volume a cura del Consiglio Superiore della Magistratu- ra —, p. 636.
(7) Ibid., p. 637.
(8) Ibid., pp. 638-639.
(9) Agostino Cordova, procuratore della Repubblica di Palmi, intervento ibid., p. 584.
(10) Vincenzo Schiano di Colella Lavina, procuratore generale presso la Corte d’Appello di Napoli, intervento ibid., p. 800.
(11) Corte di Appello di Palermo. Relazione del Dott. Vincenzo Paino, Procuratore Generale della Repubblica, sull’Amministrazione della Giustizia nel Distretto di Palermo nell’anno 1989-1990. Palermo, 11 gennaio 1991, p. 15.
(12) Corte di Appello di Lecce. Vincenzo Chiriacò, Procuratore Generale della Repubblica, Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 1991. Assemblea Generale dell’11 gennaio 1991, p. 15.
(13) Corte di Appello di Lecce. Relazione annuale sull’andamento della Giustizia (periodo 1 luglio 1979-30 giugno 1980).
(14) V. Sgroi, procuratore generale della Repubblica presso la Corte Suprema di Cassazione, doc. cit., p. 15.
(15) La Gazzetta del Mezzogiorno, 16-6-1991. L’ultima cifra va aggiornata, infatti è stata raggiunta quota 15, dopo l’ennesimo allungamento dei termini, contenuto nel decreto legge approvato dal consiglio dei Ministri il 6 settembre 1991, e presentato alla stampa dall’on. Claudio Martelli.
(16) Vincenzo Macrì, giudice per le indagini preliminari al Tribunale di Reggio Calabria, intervento in Criminalità organizzata e regioni a rischio. Conferenze convocate per iniziativa del Presidente della Repubblica di rappresentanti del Parlamento, del Governo e del Consiglio Superiore della Magistratura con i magistrati delle zone particolarmente colpite dalla criminalità organizzata. Roma, 12-20 novembre 1990, cit., p. 661.
(17) Cfr. Mauro Ronco, Giustizia penale in coma. Le premesse ideologiche della nuova codificazione; e il mio Giustizia penale in coma. Le conseguenze dell’applicazione del nuovo codice di procedura, in Cristianità, anno XVIII, n. 187-188, novembre-dicembre 1990.
(18) V. Sgroi, procuratore generale della Repubblica presso la Corte Suprema di Cassazione, doc. cit., p. 8.
(19) Procura Generale della Repubblica — Catania. Giustino Iezzi, Procuratore Generale della Repubblica, Relazione sull’Amministrazione della giustizia per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 1991. Assemblea Generale della Corte di Appello di Catania, 11 gennaio 1991.
(20) Corte di Appello di Lecce. Vincenzo Chiriacò, Procuratore Generale della Repubblica, Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 1991. Assemblea Generale dell’11 gennaio 1991, cit., p. 5.
(21) Francesco Belmonte, procuratore generale presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria, intervento in Criminalità organizzata e regioni a rischio. Conferenze convocate per iniziativa del Presidente della Repubblica di rappresentanti del Parlamento, del Governo e del Consiglio Superiore della Magistratura con i magistrati delle zone particolarmente colpite dalla criminalità organizzata. Roma, 12-20 novembre 1990, cit., p. 519.
(22) Domenico Blasco, presidente del Tribunale per i Minorenni di Catanzaro, intervento ibid., p. 672.
(22) Ibid., p. 673.
(24) Ibidem.
(25) Adolfo Beria d’Argentine, Io ministro? Dai miei colleghi i problemi…, intervista a cura di Antonio Galdo, in La Gazzetta del Mezzogiorno, 27-1-1991.
(26) La Gazzetta del Mezzogiorno, 11-5-1991.
(27) Marcello Maddalena, Giustizia a mani alzate, in il Giornale, 2-4-1991.
(28) Cfr. il mio Giustizia penale in coma. Le conseguenze dell’applicazione del nuovo codice di procedura, cit.
(29) A riprova del costante sospetto del quale il nuovo codice di procedura penale avvolge l’attività della polizia giudiziaria, può ricordarsi che il 4° comma dell’articolo 195 vieta agli “ufficiali e agenti di polizia giudiziaria” di “deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite dai testimoni”. Ciò vuol dire che, anche se a breve distanza dal fatto criminoso più persone hanno riferito a un appartenente alle forze dell’ordine particolari importanti, poi ritrattati per paura o per omertà in dibattimento, quel che esse hanno affermato in precedenza è privo di qualsiasi valore, e non può essere utilizzato neanche semplicemente per sollecitare la memoria dei testi.
(30) D. Blasco, presidente del Tribunale per i Minorenni di Catanzaro, intervento cit., p. 675.
(31) Domenico Raffetta, presidente della Corte d’Appello di Catanzaro, intervento in Criminalità organizzata e regioni a rischio. Conferenze convocate per iniziativa del Presidente della Repubblica di rappresentanti del Parlamento, del Governo e del Consiglio Superiore della Magistratura con i magistrati delle zone particolarmente colpite dalla criminalità organizzata. Roma, 12-20 novembre 1990, cit., p. 632.
(32) Salvatore Messina, Il guado della riforma processuale penale tra mafia e camorra, in La Giustizia Penale, 1990, p. 1a, c. 88; l’autore è stato professore ordinario di Diritto Penale all’Università di Perugia.
(33) A. Cordova, procuratore della Repubblica di Palmi, intervento cit., p. 584.
(34) La Gazzetta del Mezzogiorno, 30-8-1991.
(35) V. Sgroi, procuratore generale della Repubblica presso la Corte Suprema di Cassazione, doc. cit., tavola 11/a.
(36) Corte d’Appello di Milano. Relazione dell’Avvocato Generale Mario Daniele per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 1991. Assemblea Generale della Corte d’Appello — 11 gennaio 1991, p. 19.
(37) Rocco Lombardo, procuratore della Repubblica di Locri, intervento in Criminalità organizzata e regioni a rischio. Conferenze convocate per iniziativa del Presidente della Repubblica di rappresentanti del Parlamento, del Governo e del Consiglio Superiore della Magistratura con i magistrati delle zone particolarmente colpite dalla criminalità organizzata. Roma, 12-20 novembre 1990, cit., p. 558.
(38) Per una descrizione più ampia del fenomeno, cfr. il dossier Estorti & riciclati. Libro bianco della Confesercenti sul riutilizzo del denaro proveniente da attività criminose. Aprile 1991.
(39) Cfr. Procura Generale della Repubblica — Catania. Giustino Iezzi, Procuratore Generale della Repubblica, Relazione sull’Amministrazione della giustizia per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 1991. Assemblea Generale della Corte di Appello di Catania, 11 gennaio 1991, cit., p. 14.
(40) Ilario Pachì, presidente del Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, in Criminalità organizzata e regioni a rischio. Conferenze convocate per iniziativa del Presidente della Repubblica di rappresentanti del Parlamento, del Governo e del Consiglio Superiore della Magistratura con i magistrati delle zone particolarmente colpite dalla criminalità organizzata. Roma, 12-20 novembre 1990, cit., p. 684.
(41) V. Schiano di Colella Lavina, procuratore generale presso la Corte d’Appello di Napoli, intervento cit., pp. 804 ss.
(42) Ibid. p. 805.
(43) D. Blasco, presidente del Tribunale per i Minorenni di Catanzaro, intervento cit., p. 674.
(44) Questa definizione è del presidente della Repubblica — La Gazzetta del Mezzogiorno, 30-8-1991 —, il quale però non aveva avuto problemi a sottoscrivere prima il decreto legge, e poi la legge di conversione.
(45) M. Maddalena, A ruoli invertiti, in il Giornale, 7-3-1991.
(46) Così ha sostenuto il capo dello Stato, le cui parole sono state riportate, fra l’altro, da il Giornale, 9-8-1991.
(47) Francesco Mario Agnoli, Evasori fiscali in attesa di giudizio, in Avvenire, 24-7-1991.
(48) La cifra è riportata nell’articolo da ultimo citato.
(49) In certi casi è lecito chiedersi se ci si trovi di fronte a lapsus clamorosi, ovvero a studiate distorsioni del vero. È capitato infatti che soggetti indicati nel luglio del 1991 ai primi posti nella graduatoria nazionale degli evasori fiscali in realtà non hanno “evaso” nulla, in quanto in passato si erano prestati a realizzare truffe ai danni della Comunità Europea in concorso con aziende agroalimentari, acquistando da queste quantitativi fittizi di merce, esistenti solo sulle fatture e sulle bolle di accompagnamento che venivano loro intestate. Denunciati a tale titolo all’autorità giudiziaria, molti di loro hanno riportato condanne penali; non ha allora alcun senso ritenere, come è stato fatto dal ministero delle Finanze, che i presunti grandi evasori abbiano effettivamente comperato i beni dei quali era sicuro il carattere fittizio, e calcolare il reddito sulla base di quei beni: eppure questo è stato il procedimento seguito per più di uno!
(50) V. Sgroi, procuratore generale della Repubblica presso la Corte Suprema di Cassazione, doc. cit., p. 26.
(51) Corte d’Appello di Milano. Relazione dell’Avvocato Generale Mario Daniele per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 1991. Assemblea Generale della Corte d’Appello — 11 gennaio 1991, cit., p. 46.
(52) Cfr. V. Sgroi, doc. cit., p. 50.
(53) G. Viola, presidente della Corte d’Appello di Reggio Calabria, intervento cit., p. 638.
(54) Cfr. Pasquale Giardina, procuratore generale presso la Corte d’Appello di Caltanissetta, intervento in Criminalità organizzata e regioni a rischio. Conferenze convocate per iniziativa del Presidente della Repubblica di rappresentanti del Parlamento, del Governo e del Consiglio Superiore della Magistratura con i magistrati delle zone particolarmente colpite dalla criminalità organizzata. Roma, 12-20 novembre 1990, cit., p. 77.
(55) Cfr. Salvatore Mastroeni, sostituto procuratore presso la Pretura di Messina, intervento ibid., p. 165.
(56) Cfr. F. Belmonte, procuratore generale presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria, intervento cit., p. 518.
(57) Cfr. D. Raffetta, presidente della Corte d’Appello di Catanzaro, intervento cit., p. 625.
(58) Cfr. Giuseppe Chiaravalloti, consigliere dirigente della Pretura di Catanzaro, intervento in Criminalità organizzata e regioni a rischio. Conferenze convocate per iniziativa del Presidente della Repubblica di rappresentanti del Parlamento, del Governo e del Consiglio Superiore della Magistratura con i magistrati delle zone particolarmente colpite dalla criminalità organizzata. Roma, 12-20 novembre 1990, cit, p. 659.
(59) Elio Costa, procuratore della Repubblica di Crotone, intervento ibid., p. 563.
(60) V. Schiano di Colella Lavina, procuratore generale presso la Corte d’Appello di Napoli, intervento cit., p. 800.
(61) Augusto Coppola, procuratore della Repubblica presso la Pretura di Napoli, intervento ibid., p. 885. Sempre nell’ottobre del 1990, alla procura della Repubblica presso la Procura di Bari, il 75% delle notizie di reato doveva essere ancora registrato, mentre a Bologna, nel medesimo ufficio, vi era un ritardo di iscrizione di circa sei mesi: cfr. La Gazzetta del Mezzogiorno, 21-9-1991.
(62) Sul contenuto di esso, cfr., in sintesi, il mio Criminalità, “clemenza” e vittime del reato, in Cristianità, anno XIX, n. 189, gennaio 1991.
(63) Appare incerta la conversione in legge anche di questo decreto; il presidente della Commissione Giustizia della Camera, on. Giuseppe Gargani, ha dichiarato in proposito: “Assumerò personalmente, e fin da oggi, una posizione contraria e farò di tutto perché la commissione non approvi il decreto del governo” (la Repubblica, 18-9-1991). Va precisato che l’on. Giuseppe Gargani ha al tempo stesso proposto di introdurre l’immediata esecutività della sentenza di primo o di secondo grado, motivando l’opposizione al decreto con la frammentarietà dello stesso; l’affermazione riportata è comunque significativa delle difficoltà e degli ostacoli che misure pur così limitate incontreranno in sede di conversione in legge.
(64) V. Sgroi, procuratore generale della Repubblica presso la Corte Suprema di Cassazione, doc. cit., p. 10.
(65) La Gazzetta del Mezzogiorno, 30-8-1991. Fra le forze politiche, il sostenitore più convinto dell’immodificabilità di fondo del codice di procedura penale sembra il PDS, il Partito Democratico della Sinistra, che pure si presenta come il più attento, e spesso anche il più attivo, sui temi dell’ordine pubblico, tanto da riscuotere consensi non marginali negli ambienti giudiziari; attraverso due suoi autorevoli esponenti, il professor Cesare Salvi, responsabile per le riforme istituzionali, e l’on. Luciano Violante, componente, fra l’altro, della Commissione Parlamentare Antimafia, il PDS continua a sostenere l’“incolpevolezza” del nuovo processo per le disfunzioni della giustizia penale, e la necessità di aggiustamenti solo marginali: cfr. Avvenire, 6-9-1991.
(66) La Gazzetta del Mezzogiorno, 11-5-1991.
(67) La Stampa, 13-8-1991.
(68) La Gazzetta del Mezzogiorno, 30-8-1991.
(69) A. Cordova, procuratore della Repubblica di Palmi, intervento cit., p. 582.
(70) G. Viola, presidente della Corte d’Appello di Reggio Calabria, intervento cit., p. 641.
(71) Il documento è riportato, con il titolo redazionale Una “filosofia” dell’organizzazione del lavoro per la trattazione degli affari penali, in Cassazione penale, 1991, p. 1a, pp. 362 ss.: il passo citato è a p. 364.
(72) Ibid., p. 365.
(73) I dati che consentono di giungere a questa conclusione sono esposti in Relazione al Parlamento sullo stato della giustizia (1986-1990), Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura, anno 5, n. 36, giugno 1990, pp. 93 ss.
(74) Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti alla prima sessione della Conferenza permanente del Ministero degli Interni della Repubblica Italiana su La cultura della legalità, dell’8-7-1991, nn. 2-3, in L’Osservatore Romano, 8/9-7-1991.
(75) A. Beria d’Argentine, La legge da sola non ce la fa, in il Giornale, 28-7-1991.
(76) Giovanni Paolo II, doc. cit., n. 2.
(77) Cfr. Idem, Per iscrivere la verità cristiana sull’uomo nella realtà della nazione italiana. Loreto, 11 aprile 1985, Cristianità, Piacenza 1985.
(78) A. Beria d’Argentine, La legge da sola non ce la fa, cit.
(79) Ibidem.
(80) Giovanni Paolo II, Discorso agli Amministratori Pubblici della Campania, a Capodimonte, del 10-11-1990, n. 3, in L’Osservatore Romano, 12/13-11-1990.
(81) Idem, Preghiera alla Madonna di Fatima, del 13-5-1991, n. 3, in supplemento a L’Osservatore Romano, 15-5-1991; cfr. anche Idem, Annunciare il valore religioso della vita umana. Discorso “Sono lieto” ai Vescovi dell’Emilia-Romagna, del 1°-3-1991, Cristianità, Piacenza 1991.
(82) Cfr. L’Osservatore Romano, 2-6-1991; 3/4-6-1991; 5-6-1991; 6-6-1991; 7-6-1991; 8-6-1991; 9-6-1991, e 10/11-6-1991.
(83) Giambattista Scidà, presidente del Tribunale per i Minorenni di Catania, intervento in Criminalità organizzata e regioni a rischio. Conferenze convocate per iniziativa del Presidente della Repubblica di rappresentanti del Parlamento, del Governo e del Consiglio Superiore della Magistratura con i magistrati delle zone particolarmente colpite dalla criminalità organizzata. Roma, 12-20 novembre 1990, cit., p. 413.
(84) Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti alla prima sessione della Conferenza permanente del Ministero degli Interni della Repubblica Italiana su La cultura della legalità, cit., n. 4.