Alfredo Mantovano, Cristianità n. 161 (1988)
Propositi e realtà di un decennio di applicazione della legge n. 194. Scelte di cultura, impegno dei cattolici e comportamento passato e presente della Democrazia Cristiana
Dieci anni d’aborto in Italia
Pochi giorni dopo l’entrata in vigore della legge 22 maggio 1978 n. 194, contenente «norme per la tutela sociale della maternità e sulla interruzione volontaria della gravidanza», uno dei suoi relatori riassumeva in questi termini le intenzioni che avevano animato i sostenitori della nuova disciplina dell’aborto: «La legge – scriveva – si propone: di azzerare gli aborti terapeutici; di ridurre gli aborti spontanei; di assistere quelli clandestini. Si propone inoltre di favorire la procreazione cosciente, di aiutare la maternità, di tutelare la vita umana dal suo inizio» (1). Con ciò ribadiva gli scopi proclamati dal primo comma dell’articolo 1 della legge: «Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio».
Dieci anni dopo quel terribile 1978 – forse l’anno maggiormente denso di avvenimenti gravi e drammatici nella storia della Repubblica italiana (2) – è più che lecito verificare se i propositi enunciati abbiano trovato concreta realizzazione. Anche perché, come ha dichiarato di recente un esponente di primo piano di un partito laicista, da sempre schierato su posizioni abortiste, «di solito una legge, in una societù come la nostra, quando supera un certo numero di anni di rodaggio viene accettata anche quando ci sono dei grossi difetti. Questa legge invece, nonostante il fatto che sia stata ormai approvata da 10 anni, continua a suscitare tensioni e se ne parla sempre di più» (3). Queste osservazioni, unite alle perplessità su taluni aspetti della legge n. 194 manifestate pubblicamente dall’attuale ministro del Tesoro, il socialista Giuliano Amato, che hanno provocato reazioni particolarmente dure all’interno del suo stesso partito, e ai dubbi che talvolta affiorano ne.i discorsi di più di un personaggio politico impegnato su fronti ben lontani da quello cattolico, confermano l’urgenza di una riforma integrale dell’attuale disciplina dell’aborto, dalla quale scaturiscano comportamenti conseguenti.
1. «Azzeramento» degli «aborti terapeutici»
È bene precisare che la dizione «aborti terapeutici» coincide in toto con quella di «aborti legali», perché formalmente l’articolo 4 della legge n. 194 ricomprende le varie circostanze che legittimano la donna a interrompere la gravidanza – lo stato di salute, le condizioni economiche. sociali o familiari, il modo in cui è avvenuto il concepimento, la previsione di malformazioni del concepito – sotto un’unica indicazione vagamente «terapeutica»: esse, cioè, devono comportare «un serio pericolo» – in nessun modo controllabile – per la «salute fisica o psichica» della gestante.
Ora, invece di «azzerarsi», gli aborti cosiddetti «terapeutici» – equivalenti a «legali» – hanno finora superato la cifra complessiva di due milioni di unità, con una media superiore ai duecentomila all’anno; nel 1985 sono stati 210.597 per 575.495 nati vivi, con un rapporto di 365,9 aborti ogni mille nati vivi; e nel 1986 197.676 per 553.750 nati vivi, pari a 357 aborti ogni mille nati vivi (4): questo vuol dire che annualmente vi è più di un aborto ogni quattro concepiti.
Se queste cifre sono vere – e non vi è motivo per dubitare della loro esattezza, dal momento che provengono dal ministero della Sanità –, esse denunciano una pratica abortiva diffusa capillarmente, che non può certamente spiegarsi con situazioni eccezionali, con pericoli seri e reali per la salute o con insuperabili difficoltà di natura economica e/o familiare. E che i cosiddetti «casi pietosi», che pure costituirono uno dei cavalli di battaglia della «campagna» che ha avuto come esito la legge n. 194, fossero soltanto un pretesto propagandistico è documentato dalla circostanza che la maggioranza degli aborti eseguiti nel 1986 è stata richiesta da madri coniugate – erano il 67,7% del totale rilevato –, non separate né divorziate – le prime rappresentavano solamente il 2,4% e le seconde lo 0,5% –, in età compresa fra i venti e i trentanove anni – l’83,3%; scomponendo il dato, il 20,8% dai venti ai ventiquattro anni, il 22,8% dai venticinque ai ventinove anni, il 21.3% dai trenta ai trentaquattro, il 18,4% dai trentacinque ai trentanove –, con un sufficiente livello di istruzione – il 44,4% con diploma di scuola media inferiore, il 24,3% di scuola media superiore e il 3,4% con laurea o altro: in totale. il 72,1% –, e quindi in condizioni ideali, almeno sotto tali profili, per accogliere un figlio.
Rispetto agli aborti non motivati da situazioni di reale difficolta, che, alla luce delle cifre esposte, costituiscono la regola, il dato relativo ai ricordati «casi pietosi» appare dunque assolutamente irrilevante.
È il caso di ricordare che, in base a un’indagine condotta dal Movimento per la Vita – intesa, fra l’altro, a verificare il grado di consenso che la legge n. 194 ha nel nostro paese –, un italiano su due è convinto che «la grande massa degli aborti sia dovuta alle minorenni non sposate» (5), mentre le minorenni – coniugate e non – che hanno abortito «legalmente» nel 1986 sono state soltanto il 2,4%.
Ancora più significativo è il fatto che le donne che interrompono la gravidanza non hanno, in genere, più di due figli: nel 1986 il 30,1% non aveva alcun figlio, il 20.7% ne aveva soltanto uno e il 30,5% ne aveva due: in totale l’81.3%, a fronte del 6,6% con quattro o più figli. L’aborto è diventato perciò, al di là delle enunciazioni legislative. uno degli strumenti più diffusi per controllare le nascite.
Contro questi esiti si continua a sostenere che l’unica alternativa all’aborto è la contraccezione (6), con l’inevitabile corollario che, se quest’ultima non riesce ancora a impedire il ricorso all’interruzione della gravidanza, lo si deve anche e soprattutto all’atteggiamento della Chiesa; si dà il caso però che il rapporto fra interventi abortivi e nati vivi sia più elevato in quelle aree dove «la contraccettività è più diffusa ed esperta» (7) – si pensi all’Emilia-Romagna e alla Liguria, che detengono il record del tasso di aborti per ogni mille nati vivi: 661,7 nella prima e 594,2 nella seconda regione –, mentre il tasso cala notevolmente nelle regioni ritenute «più arretrate» relativamente alla contraccezione – secondo i dati del 1986, è stato di 158,1 aborti per mille nati vivi in Calabria e di 184,2 per mille in Campania –, sì che il rapporto fra la diffusione delle pratiche antifecondative e il ricorso all’aborto è direttamente e non inversamente proporzionale. Ciò conferma che appunto l’aborto rappresenta una scelta di cultura, enormemente favorito dalla mentalità di rifiuto della vita indotta dall’assuefazione alla contraccezione.
2. Aborti «clandestini»
Da una ricerca condotta recentemente dall’AIED, l’Associazione Italiana Educazione Demografica – fonte certamente non sospettabile di antiabortismo –, si ricava che, a fronte di una lieve flessione registrata negli ultimi anni nel numero degli aborti legali, sta il dato della crescita di quelli clandestini, passati dalle 70-100 mila unità del 1986 alle 100-130 mila unità del 1987 (8).
Si deve aggiungere anche che vi è «un ricorso sempre più intenso alla così detta “aspirazione mestruale”, cioè all’aspirazione del contenuto uterino dopo pochi giorni di ritardo delle regole, forse senza alcuna preventiva analisi di gravidanza. Il linguaggio talora usato per queste metodiche è quello di “contraccezione di emergenza”, ma è chiaro che esse non hanno niente a che vedere con la contraccezione, perché – lungi dall’impedire il concepimento – propriamente parlando interrompono in molti casi una gravidanza già iniziata. Se questa pratica fosse, come si può ritenere, abbastanza diffusa, tali incontrollabili aborti precoci ridurrebbero il numero di quelli conosciuti» (9). Si tratta, comunque, di aborti qualificabili inequivocabilmente come «clandestini».
3. Favore per la «procreazione cosciente»
Nel 1986 il 27,2% delle gestanti che hanno abortito aveva già in precedenza interrotto la gravidanza almeno una volta – l’1,1% anche quattro o più volte –; nel 1985 esse erano state il 28.1%. Un’area di «recidività» così diffusa conferma il carattere puramente artificioso e propagandistico proprio del compito dichiarato di rendere «cosciente e responsabile» la procreazione; ma, prima ancora, ci si deve chiedere che senso abbia questa terminologia, talmente vaga e indeterminata da risultare difficilmente comprensibile dal punto di vista giuridico: lo Stato ha forse rinunciato a garantire la procreazione avvenuta in modo incosciente e/o irresponsabile, per esempio quella seguita a un atto sessuale compiuto con violenza, o con una minore di quattordici anni, o – al limite – da un padre di molti figli poiché, secondo il comune modo di pensare, solo un «irresponsabile» potrebbe oggi costituire una famiglia numerosa?
4. Tutela della maternità e della vita umana
Quanto alla tutela della maternità, si tocca davvero il vertice dell’ipocrisia, se si pensa che la legge ha riconosciuto il diritto di eliminare proprio ciò che consente di essere madre e se si riflette sul fatto che il suo effetto coerente è stato quello di provocare la strage degli innocenti, che in Italia si consuma da dieci anni, al ritmo di duecentomila esecuzioni capitali ogni dodici mesi. Ad altra soluzione non si poteva pervenire nel momento in cui la realtà di persona del feto è stata volutamente messa in disparte: nella relazione di maggioranza al disegno di legge, poi approvato e divenuto legge n. 194, si asseriva l’opportunità di «introdurre la nuova disciplina dell’aborto […] al di là delle diverse convinzioni morali, religiose e scientifiche» (10); pretesa infondata, perché sono proprio e soltanto i dati «scientifici» – la cui considerazione è stata dichiaratamente esclusa – in grado di definire chi è il concepito.
5. Prospettive demografiche
Limitarsi a constatare gli esiti logicamente conseguenti al dettato normativo approvato nel maggio del 1978 non basta; è necessario chiedersi quale futuro attenda una nazione nella quale l’introduzione dell’aborto legale ha determinato un vero e proprio sconvolgimento della morale comune e del comportamento medio dei singoli associati.
Trascuro il contributo determinante apportato dalla legge n.194 alla creazione di un contesto giuridico, sociale e culturale di avversione al rispetto della vita della persona oltre che nel momento iniziale anche in quello terminale, e alla tutela della famiglia (11): e mi limito a riportare le previsioni, sul piano demografico, di quel decremento della natalità, la cui dimensione è stata accresciuta dalla legalizzazione dell’aborto, dal momento che il tasso di fecondità, cioè il rapporto esistente fra nati vivi e donne in età feconda, è sceso dal 128 per mille del triennio 1910-1912 al 40,6 per mille del 1985.
In base alle informazioni fornite dall’ISTAT il quoziente di natalità, che indica il numero dei nati vivi ogni mille abitanti, è sceso dal 16,3 del 1972 all’ 11,3 del 1980, all’attuale 9.6. Quello italiano, insieme a quello tedesco occidentale, è l’indice di natalità più basso fra le nazioni occidentali: la Spagna ha il 17,5 per mille, gli Stati Uniti il 15,7 e l’Irlanda il 17,5 (12).
In cifre assolute le nascite sono calate, in vent’anni, dal milione del 1964 alle 560.265 unità del 1987; la capacità del ricambio generazionale, che sarebbe consentita, secondo i calcoli più ottimistici, se in media ogni coppia generasse 2.1 figli, è esclusa dal fatto che attualmente la media è al di sotto dell’1,4 cioè inferiore di oltre un terzo al minimo indispensabile. Secondo il ministro della Sanità, è «attendibile, allo stato delle cose, la previsione per il 2025 di un calo fino ai 44-45 milioni di abitanti. La popolazione indigena sarebbe man mano composta […] da una percentuale crescente di anziani e da una fascia decrescente di giovani, con avviamento – in un periodo poco più che secolare – verso i livelli prossimi all’estinzione»; la popolazione residente in Italia «sarà costituita da immigrati, presumibilmente provenienti, in buona misura, dalla sponda meridionale del Mediterraneo» (13).
Come non condividere a tale riguardo, anche da parte di chi non è cattolico, le riflessioni del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, per il quale «Su questo punto l’Europa sta giocando il suo destino futuro, poiché sta dando segni di decadenza morale e anche di impoverimento demografico, e sta rischiando così di dilapidare un patrimonio culturale trasmessole da insigni pensatori, grandi giuristi e mirabili santi» (14)?
6. I cattolici, la Democrazia Cristiana e l’aborto
La situazione oggettivamente ricavabile da quanto ho esposto, insieme alla considerazione – di ordine naturale, e pertanto condivisibile anche da chi non parte da presupposti di fede – della piena umanità del concepito, impone, a dieci anni di distanza, una radicale revisione della legge n. 194; il che non significa che vada trascurato quanto fino a oggi è stato fatto, con sacrificio e spesso in base al più generoso volontariato, per lenire le piaghe materialmente aperte o comunque non guarite, ma anzi aggravate, dalla disciplina del 1978 – si pensi all’attività dei Centri di Aiuto alla Vita, e alle analoghe iniziative in favore delle madri e delle famiglie in difficoltà –: tutto ciò va rafforzato, e ogni persona di buona volontà, che abbia un minimo di predisposizione per questo tipo di opere, dovrebbe dare il proprio contributo senza riserve.
Ma il nodo politico del pieno vigore di un insieme di norme, che ritiene lecito e meritevole del finanziamento pubblico l’omicidio dell’innocente, non può essere dimenticato né situato in secondo piano. Ci si deve muovere perché queste norme siano modificate; l’impegno grava in modo particolare sui cattolici, per la piena consapevolezza che essi hanno al tempo stesso della sacralità della vita umana e della pericolosità, per l’intero corpo sociale dell’esistenza di una legislazione abortista.
Si tratta di un impegno che, se deve manifestarsi sul piano propagandistico per far crescere la sensibilità nei confronti della vita umana nascente e delle conseguenze terribili del disprezzo di essa (15), non può non esigere dai parlamentari, che raccolgono i consensi elettorali in nome dell’«ispirazione cristiana», il pieno rispetto di tale ispirazione su un punto tanto importante.
La Democrazia Cristiana ha avuto responsabilità precise nell’approvazione e nell’entrata in vigore della legge n. 194; come si ricorderà, nella primavera del 1978 i tempi per il varo della legge furono accelerati per evitare che si celebrasse il referendum proposto dal Partito Radicale, già fissato per il mese di giugno di quell’anno e avente a oggetto l’abrogazione delle norme del codice penale che punivano l’aborto. In aprile, durante la discussione alla Camera dei Deputati, i radicali iniziarono l’ostruzionismo, ritenendo la proposta di legge in discussione insufficientemente permissiva, al fine di giungere al referendum; per impedire il successo della manovra gli altri partiti abortisti ricorsero al rimedio della seduta-fiume, per la cui attuazione i rappresentanti scudocrociati, presieduti all’epoca dall’on. Flaminio Piccoli, diedero il proprio assenso determinante (16): sarebbe bastato infatti, se non un contributo minimo all’ostruzionismo, quanto meno l’opposizione, in sede di riunione dei capigruppo, alla seduta-fiume, per non far passare la legge.
A chi obietta che l’alternativa era affrontare un referendum pieno di incognite, è facile rispondere che a esso si sarebbe giunti in condizioni ben diverse da quelle in cui si è poi celebrata la consultazione popolare su iniziativa del Movimento per la Vita nel 1981, con tre anni di aborto «legale» alle spalle; e, comunque, non si vede in che modo la legge, che avrebbe certamente introdotto l’aborto, poteva rappresentare qualcosa di più desiderabile del semplice rischio di abrogare le norme penali che lo sanzionavano.
Va aggiunto che dodici deputati scudocrociati ritennero opportuno assentarsi dall’aula al momento del voto, che la legge fu sottoscritta da un presidente della Repubblica, da un presidente del Consiglio e da quattro ministri appartenenti alla DC (17), e che la sua legittimità fu difesa davanti alla Corte Costituzionale dall’Avvocatura Generale dello Stato su incarico del governo monocolore presieduto dall’on. Giulio Andreotti (18);nelle ultime due ipotesi si è parlato di «atto dovuto» da parte di chi rappresenta l’Esecutivo, ma – posto che la dottrina costituzionalistica e la prassi istituzionale escludono la «doverosità» della difesa di ogni legge davanti ai giudici di Palazzo della Consulta: non è infatti infrequente che il governo chieda, per il tramite dell’Avvocatura dello Stato, l’accoglimento delle eccezioni sollevate contro una legge – è appena il caso di ricordare che all’adempimento dell’«atto dovuto» è possibile sottrarsi presentando le dimissioni dall’incarico ricoperto; il che rappresenta un sacrificio di gran lunga meno grave della complicità prestata all’omicidio istituzionalizzato. Il presidente della Repubblica avrebbe peraltro potuto evitare, almeno in un primo momento, le dimissioni, se si fosse avvalso del potere, riconosciutogli dall’articolo 74 della Costituzione, di domandare alle Camere, con messaggio motivato, una nuova deliberazione prima della promulgazione della legge.
7. La «mozione Martinazzoli»
Dopo l’approvazione della legge n. 194, il sen. Giuseppe Bartolomei, capogruppo democristiano al Senato, assicurò che «noi ci batteremo, per contenere gli effetti negativi che questa legge può produrre, e lo faremo con fermezza e con tenacia, attraverso le opportunità legislative che si presenteranno» (19). In dieci lunghi anni, nel corso dei quali la «legge» ha prodotto gli effetti prima riassunti, questo «fermo e tenace» proposito non si è concretizzato neppure in una proposta di legge, ma semplicemente, e solo il 24 febbraio 1988, nella presentazione di una mozione, sottoscritta da ventuno deputati scudocrociati – primo firmatario il capogruppo, on. Mino Martinazzoli –,con la quale si chiede che la Camera impegni il governo: a. alle «più utili iniziative […] per avviare appropriate scelte di ordine legislativo» in materie riguardanti la bioetica, «che si pongano come obbiettivo prioritario la tutela effettiva della “vita nascente” e della “vita morente”»; b. «a riportare a coerenza l’applicazione della legge 194/78 con riferimento al fine dichiarato di “tutelare la vita umana fìn dal suo inizio”»; c. «ad operare perché i consultori familiari pubblici siano un reale strumento a sostegno e garanzia della libertà di non abortire»; d. a incoraggiare il volontariato impegnato su questo piano; e. a tener conto negli interventi economico-fiscali della solidarietà verso le maternità «difficili»; f: a stimolare l’educazione per il rispetto della vita (20).
Dopo circa un mese, mentre si svolgevano le trattative per la formazione del nuovo governo, sette deputati democristiani aderenti al Movimento per la Vita hanno inviato una lettera al presidente del Consiglio incaricato, on. Ciriaco De Mita, nella quale esprimevano la riserva sul proprio voto di fiducia all’esecutivo in via di costituzione se esso non si fosse posto «l’obbiettivo di migliorare la situazione presente in Italia riguardo al rispetto della vita umana», chiedendo che sin dalle trattative in corso si coagulasse una maggioranza favorevole di sostegno alla «mozione Martinazzoli» (21). La risposta del destinatario della missiva è consistita nella menzione, nel programma di governo, della necessità di interventi per «risparmiare alla donna il trauma dell’aborto» (22): per il capo del governo e segretario della DC l’aborto è dunque riassumibile nei termini – certo non irreali, ma tutt’altro che esaustivi – di «trauma» per «la donna»; gli stessi termini adoperati per anni, e rispolverati secondo le necessità, dai movimenti femministi e dagli abortisti più accesi. Nessuna menzione per il nascituro, per il quale l’intervento abortivo è ben più che un «trauma» – è la morte –, né per il degrado, materiale e morale, constatabile dopo dieci anni di aborto «legale». Nonostante ciò, non risulta che al momento della fiducia i sette non abbiano votato a favore del nuovo governo, benché vi fossero la riserva espressa e la insoddisfazione pubblicamente manifestata di fronte agli impegni chiesti (23).
È più che lecito, inoltre, esprimere dubbi e riserve sulla stessa «mozione Martinazzoli». Anzitutto sulla forma: è vero infatti che lo strumento della mozione è idoneo a provocare una discussione in parlamento, che deve avvenire con le stesse modalità dei disegni di legge e che si deve concludere con la votazione di un ordine del giorno, costituente espressione della volontà dell’assemblea, e rientrante fra gli atti cosiddetti «di indirizzo politico» (24). E però anche vero che ben altra efficacia hanno il disegno o la proposta di legge i quali, se approvati, producono immediati effetti giuridici e non si limitano a «invitare» il governo sia pure in modo qualificato, a tenere un certo comportamento. La mozione, in altri termini, allunga i tempi e non garantisce con sicurezza alcun risultato.
Quanto al merito, ciò che appare difficilmente condivisibile è quel «riportare a coerenza l’applicazione della legge n. 194/78 con riferimento al fine dichiarato di “tutelare la vita umana fin dal suo inizio”», che sembrerebbe costituire il succo della mozione; se, infatti, lo scopo menzionato è contenuto nel primo comma del primo articolo della legge, è necessario ricordare che, posto che la norma non accenna al momento in cui situa l’«inizio» della vita umana, né riferisce esplicitamente al nascituro la «vita» che verrebbe tutelata – e s’è visto quel che a suo tempo hanno sostenuto in proposito i relatori della legge (25) gli articoli 4 e 5, che rappresentano il fulcro di essa, consentono l’aborto sulla base delle indicazioni più varie e dietro semplice richiesta della gestante, e in tal modo fanno sì che la tutela della vita umana «dal suo inizio» sia solamente una vaga enunciazione, priva di riscontro all’interno della stessa legge n. 194.
Perciò, per «riportare a coerenza l’applicazione» di quest’ultima con riferimento alla richiamata tutela, si dovrebbe puntare, prima ancora che alla verifica del funzionamento dei consultori familiari, quanto meno all’eliminazione dei detti articoli 4 e 5, anche se il meccanismo previsto dall’articolo 6 per l’aborto dopo i primi novanta giorni si discosta di poco da quello che i due articoli precedenti stabiliscono per i primi tre mesi; in tal modo il cerchio si chiude e resta il nodo della intrinseca perversità della legge n. 194, la cui sola e «coerente» logica è nel senso della morte e non della vita del nascituro, e che è pertanto da riformare integralmente.
Va poi detto che, se l’intento era quello di evitare lo scontro diretto sulla legge n. 194, per lo meno il sostegno economico in favore delle maternità «difficili» avrebbe potuto costituire materia di proposta di legge, piuttosto che finire in coda alla mozione. In proposito non mancano esempi a noi vicini: l’attuale politica demografica francese si basa «sull’incentivazione dell’allontanamento dal lavoro della madre dopo la nascita del terzo figlio; sulla politica degli sgravi fiscali […] che riguarda anche le tasse automobilistiche e che comprende la deduzione “per costi dell’assistenza/educazione” che è stata raddoppiata […]. Nella Germania Federale l’aumento degli assegni familiari è progressivo dopo il secondo figlio» (26). E ben noto che in Italia le sole variazioni del carico fiscale sono nella direzione della crescita.
È significativo a questo riguardo che, nonostante le dichiarazioni di principio, la proposta di riforma dell’IRPEF, approvata dal consiglio dei Ministri all’inizio di agosto del 1988, continua a muoversi nella direzione di una palese ostilità alla famiglia: a limitatissimi contributi sociali, fra i quali gli assegni familiari, corrisponde un prelievo fiscale più elevato; la circostanza, poi, di vivere da solo o di avere una famiglia più o meno numerosa appare del tutto irrilevante: prendendo infatti come riferimento un lavoratore dipendente con reddito lordo annuo di circa quaranta milioni di lire, l’aliquota media a lui applicabile, se è celibe è pari al 23,4%, mentre se è coniugato con tre figli è del 21,4%. La differenza fra le due posizioni, irrilevante secondo la legislazione italiana, ha invece ben altri effetti in quella francese: sullo stesso reddito lordo il prelievo è nel caso del single del 18,5%, e del coniugato con tre figli del 4,1%.
Sotto questo profilo è meritevole di segnalazione e di sostanziale apprezzamento la proposta di legge, ripresentata in questa legislatura dall’on. Antonio Parlato, deputato del Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale, la quale, posta «l’esigenza di una legislazione che aiuti la vita nascente» e «le madri in difficoltà», prevede l’abolizione del finanziamento pubblico agli interventi interruttivi della gravidanza legalmente eseguiti, e l’impiego delle somme finora a ciò destinate per la costituzione di un «fondo di solidarietà per le future madri», del quale fruiscano le gestanti che rinuncino esplicitamente ad abortire e comprovino il proprio stato di necessità; la proposta contempla, inoltre, un contributo aggiuntivo per il terzo figlio (27).
Prima del dibattito parlamentare sulla legge n. 194, il MSI- DN ha presentato alla Camera una mozione – prima firmataria l’on. Adriana Poli Bortone – con la quale si è chiesto, fra l’altro, l’impegno del governo «a rivedere la normativa esistente ed a produrre nuovi interventi a sostegno delle maternità difficili», nonché «a creare le condizioni per ricondurre la società nella sua interezza al rispetto della vita e al rifiuto della violenza» (28).
Sullo stesso tema sono state presentate mozioni di segno opposto da parte del Partito Comunista Italiano e del «fronte laico» costituito da Partito Socialista Italiano, Partito Liberale Italiano, Partito Socialista Democratico Italiano e Partito Repubblicano Italiano; il punto qualificante di quest’ultima mozione è il seguente: «la legge n. 194 del 1978 […] mantiene la sua validità come scelta irreversibile [sic] per eliminare la piaga dell’aborto clandestino» (29).
8. Il dibattito alla Camera
Il dibattito alla Camera si è articolato in due riprese; è cominciato nei primi giorni del mese di giugno e ha subito una interruzione ufficialmente motivata dalla necessità, ritenuta più urgente rispetto al tema della difesa della vita umana, che il parlamento discutesse sul dislocamento degli aerei militari F 16, e poi dallo svolgimento delle elezioni amministrative in Friuli-Venezia Giulia: di fatto, verosimilmente anche per tentare una mediazione e un accordo fra le varie mozioni presentate. È ripreso all’inizio di luglio e, dopo un paio di giorni di dibattito, si è concluso con la bocciatura della «mozione Martinazzoli», con l’approvazione di una mozione elaborata dal deputato comunista Renato Zangheri, che aveva unificato le mozioni presentate dai partiti abortisti, e con l’approvazione soltanto parziale, e non nei punti più qualificanti – sui quali la maggioranza formatasi ha superato soltanto di due voti lo schieramento favorevole – di una risoluzione proposta dai deputati democristiani Maria Eletta Martini e Carlo Casini.
A tale esito si è giunti dopo un dibattito svoltosi spesso – a riprova della sensibilità verso il tema – davanti a’un’aula semivuota e dopo trattative confuse fra i partiti dell’attuale maggioranza di governo, tese a raggiungere un compromesso fra le differenti posizioni. Cerco di riassumere i passaggi principali della fase finale dell’iter parlamentare:
a. viene presentata al voto la «mozione Martinazzoli», di carattere più generale rispetto alla «risoluzione Martini-Casini», che raccoglie i voti favorevoli, oltre che della DC, anche del MSI-DN: «questa mozione non è passata per solo cinque voti e mancavano ben più di venti parlamentari della Democrazia Cristiana» (30);
b. al momento del voto della mozione del MSI-DN i deputati scudocrociati rifiutano a essa non solo il sostegno ma anche la semplice astensione. nonostante non vi fosse alcuna ragione, ricollegantesi al contenuto della mozione, per negare l’uno o l’altra;
c. alcuni fra gli stessi democristiani votano a favore della «mozione Zangheri», laico-comunista: l’on. Maria Eletta Martini tenta di giustificare il gesto inqualificabile con la «confusione provocata dalla messe di votazioni continue» (sic) (31);
d. è la volta della «risoluzione Martini-Casini». che si articola in diversi punti, i più importanti dei quali sono quelli diretti a impegnare il governo a interventi economico-sociali «per esprimere la effettiva solidarietà della comunità nei confronti delle maternità per qualsiasi causa difficili, prima e dopo la nascita, anche chiamando a collaborare le associazioni di volontariato che si pongono tali obiettivi» (32). nonché a costituire una commissione di indagine sul funzionamento dei consultori.
La risoluzione viene bocciata proprio in questi due punti, mentre passa negli altri, più generici e assai meno qualificanti, quali la vaga promozione di iniziative di educazione al valore della vita e la indeterminata moratoria di ricerche e di sperimentazioni sugli embrioni umani.
La maggioranza contraria ai primi due punti è di appena due voti; il verbale registra le astensioni dei deputati «verdi» e missini: da parte democristiana sarebbe bastato un atteggiamento meno ostile alla mozione di questi ultimi per determinare il loro voto favorevole alla «risoluzione Martini-Casini», come già vi era stato per la «mozione Martinazzoli». Eppure, dopo pochi giorni, l’on. Carlo Casini ha sentito il dovere di salire in cattedra e di rimproverare i parlamentari del MSI-DN per l’atteggiamento tenuto, rivolgendo loro la domanda retorica «ma la vita è il valore supremo o è anch’esso strumentale?» (33) che, alla luce di quanto fin qui riassunto, avrebbe dovuto rivolgere in primis a sé stesso e al proprio partito.
Che ciò sia vero è confermato da una fonte non sospetta; il giorno dopo la conclusione del dibattito il ministro della Sanità Carlo Donat Cattin ha commentato che: «la Dc non si è comportata al meglio durante la discussione. Gli interventi di Casini, Martinazzoli, Martini e Garavaglia hanno creato troppa confusione, così che qualcuno non ha saputo più cosa pensare e cosa votare. E poi è stato un errore rifiutare l’appoggio del Msi» (34).
9. Riflessioni e prospettive
I fatti descritti non meritano altri commenti: parlano da sé. A dieci anni di distanza dall’entrata in vigore dell’aborto «legale», ciò che gli esponenti del partito di «ispirazione cristiana» sono riusciti a fare ha il sapore del deja vu: atteggiamento rinunciatario costantemente sullo sfondo, cedimenti continui, sostegno più o meno esplicito agli abortisti e, quando si è corso il rischio di vincere su qualcosa, che pure è poco più di un’affermazione di principio, organizzazione – non si sa quanto inconsapevole, almeno a livello di vertice – della sconfitta. Lo scenario del 1978 si è riproposto inalterato dieci anni dopo.
Con un’aggravante: a smuovere l’iniziativa di questa pseudo-leadership non sono bastati gli oltre due milioni di innocenti uccisi «legalmente» in questo decennio, e nemmeno i dubbi e le inquietudini che tale autentica strage ha, nel tempo, insinuato in ambiti non cattolici. Priva di un’adeguata preparazione propagandistica, errata nella impostazione, incerta e timorosa nella ricerca degli alleati, suicida nella conclusione, l’azione svolta dal vertice democristiano nei confronti della legge n. 194, a onta di incredibili affermazioni di soddisfazione (35), non solo non ha avuto alcun successo, ma anzi ha prodotto unicamente danno; e anche a questo proposito ricorro all’identica fonte non sospetta: «Nel momento in cui sta maturando in Italia una diversa coscienza dell’aborto, il dibattito ha bloccato e ingessato la situazione. La solidarietà laica ha fatto nuovamente blocco contro la Dc e contro i cattolici. Insomma, questo dibattito è stato un arresto del dialogo» (36): così, ancora, il ministro Carlo Donat Cattin.
Il mondo cattolico, se era ancora necessario, ha avuto nell’occasione l’ennesima riprova, su un tema decisivo come la difesa della vita, della inefficacia di una semplice delega «in bianco» a chi si ritiene debba rappresentarlo. La prospettiva, allora, non può non affiancare, come si accennava prima, al rafforzamento dell’indispensabile e prezioso impegno di volontariato in favore delle madri in difficoltà, un incremento qualitativo e quantitativo della propaganda delle ragioni del più debole – oggi il nascituro; domani, o anche oggi stesso, l’anziano e l’handicappato – e di quelle della famiglia, insieme con il radicarsi della consapevolezza del retto rapporto che deve sussistere fra rappresentato e rappresentante politico, che proprio su questo terreno trova il criterio di verifica più attendibile: non si può pretendere di raccogliere i voti dei cattolici se manca ogni seria ed efficace azione a tutela della vita e della famiglia. A tale consapevolezza deve corrispondere la pretesa di comportamenti conseguenti da avanzare nei confronti dei propri rappresentanti.
Da ultimo, non si può trascurare il fatto che la drammatica situazione determinata dalla presenza dell’aborto «legale» non potrà mai essere affrontata in modo adeguato se, insieme e prima dell’azione condotta sul piano politico, culturale, propagandistico e di concreto aiuto ed assistenza, non sono presenti un forte impegno di preghiera e il senso della presenza di Dio:«Il riconoscimento etico della sacralità della vita e l’impegno per il suo rispetto hanno bisogno della fede nella creazione, come loro orizzonte. Così come un bambino può aprirsi con fiducia all’amore se si sa amato e può svilupparsi e crescere se si sa seguito dallo sguardo di amore dei suoi genitori, allo stesso modo anche noi riusciamo a guardare gli altri nel rispetto della loro dignità di persone se facciamo esperienza dello sguardo di amore di Dio su di noi, che ci rivela quanto è preziosa la nostra persona. “E Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza…E Dio vide quanto aveva fatto: ed ecco, era cosa molto buona” (Gen.I, 26-31)» (37).
Alfredo Mantovano
Note:
(1) Giovanni Berlinguer, La legge sull’aborto, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 168.
(2) Giova riassumere le date più significative di quel periodo: il 16 marzo 1978 le Brigate Rosse sequestrano l’on. Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, e uccidono i cinque uomini della sua scorta; negli stessi giorni si costituisce il secondo governo «di solidarietà nazionale», un monocolore democristiano presieduto dall’on. Giulio Andreotti, per la prima volta dal 1947 sostenuto dal voto favorevole del Partito Comunista Italiano; il 9 maggio le BR assassinano l’on. Moro: il 13 maggio viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana la legge n. 180 – la cosiddetta «legge Basaglia» – che fra l’altro, abolendo i «manicomi», provoca l’aggravamento dei problemi, già esistenti e tuttora irrisolti, relativi alla cura dei malati di mente: il 22 maggio è la volta della legge sull’aborto: all’inizio di giugno il sen. Giovanni Leone, che non aveva inteso dimettersi, pochi giorni prima, su invito di chi gli aveva chiesto di non firmare la legge n. 194, presenta le proprie dimissioni dalla carica di presidente della Repubblica a seguito delle polemiche sullo scandalo Lockheed: dopo qualche settimana viene eletto alla stessa carica, e per la prima volta nella storia della Repubblica, un parlamentare socialista. Sandro Pertini: il 23 dicembre è varata la legge n. 833 – la «riforma sanitaria» –, che istituisce il Servizio Sanitario Nazionale e, al suo interno, il sistema delle Unità Sanitarie Locali.
(3) Si tratta dell’on. Raffaele Costa, del Partito Liberale Italiano, sottosegretario ai Lavori Pubblici, il quale, unitamente al sen. Giuseppe Fassino, del medesimo partito, a tre membri della Direzione e a ventisei consiglieri nazionali ha inviato una lettera al segretario on. Renato Altissimo, chiedendo un riesame dei problemi legati alla diffusione dell’aborto; quello riportato è un brano di un’intervista dell’on. Costa (cfr. Avvenire, 19-5-1988).
(4) Ricavo questi dati dalla Relazione sull’attuazione della legge contenente norme per la tutela sociale della maternità e sulla interruzione volontaria della gravidanza (1986), presentata dal ministro della Sanità Carlo Donat Cattin e trasmessa alla Presidenza della Camera dei Deputati il 12 settembre 1987, doc. LI. n. I/X legislatura. Stabilimento tipografico Carlo Colombo. Tutte le cifre senza diversa indicazione di fonte si intendono riportate da questa relazione.
(5) MOVIMENTO PER LA VITA ITALIANO, Le cause culturali dell’aborro volontario. III Rapporto al Parlamento sulla prevenzione dell’aborto volontario, Grafiche Cappelli, Sesto Fiorentino 1987, p. 13.
(6) Lo ha fatto di recente, fra gli altri, l’on. Agata Alma Cappiello, deputato socialista, intervenendo a un dibattito a più voci nel corso del telegiornale sulla Rete Uno della RAI (ore 20, 22-5-1988). Non mancano tuttavia preoccupanti suggestioni in tal senso anche in campo cattolico: «Credo che si sarà d’accordo nel privilegiare la vita del concepito, tollerando magari che altri propongano metodi preventivi meno corretti secondo una valutazione morale pur di evitare situazioni successive che conducano all’aborto» (così mons. Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea, in Il Sabato, anno XI. n. 21. 21-5-1988, p. 4). Posto questo «magistero», non ci si deve stupire se per Paola Gaiotti de Biase, esponente di rilievo della Lega Democratica ed europarlamentare eletta nelle liste della Dc «forse […] tutta la vicenda dell’aborto potrebbe essere letta come il segno di una separazione e reciproca incomunicabilità fra la Chiesa nella quotidianità della sua cura d’anime, minuta e regolata da un codice ripetitivo di formule generosamente interiorizzato dal clero», e il «cosiddetto “movimento cattolico”», sì che questioni come quella della contraccezione, pur dopo il «rinnovamento conciliare», sono venute «alla luce più con le categorie astratte e teoriche del dibattito teologico, della lettura della tradizione, dell’esegesi biblica, delle questioni sulla “natura”, insomma di un confronto di principi, che utilizzando l’enorme materiale di esperienza umana raccolto nei confessionali» (Io, cattolica, l’ho vissuto così, in Rinascita, anno 45, n. 19, 28-5-1988, p. 11); in linguaggio meno soft: torto della Chiesa sarebbe stato quello di non aver messo da parte la morale per far posto all’acquiescenza di fronte a comportamenti sempre più diffusi.
In coerenza con tali premesse, la responsabile femminile della DC, on. Maria Paola Colombo Svevo, ha indicato come punto qualificante del discorso di verifica della legge n. 194 «la prevenzione, [che] deve essere attuata in tutte le forme previste dalla 194, contraccezione compresa» (intervista a Rinascita, anno 45, n. 18, 21-5-1988, p. 11).
(7) C. DONAT CATTIN, relazione cit., p. 13.
(8) Cfr. Avvenire, 19-5-1988.
(9) C. DONAT CATTIN, relazione cit., p. 14.
(10) La relazione, degli onn. Antonio Del Pennino e Giovanni Berlinguer, può essere letta per esteso in AA.VV., L’interruzione volontaria della gravidanza, Giuffrè, Milano 1978, pp. 393 ss. Il quesito se tale posizione sia condivisa – sia pure in linea di fatto – da taluni esponenti del cattolicesimo politicamente «impegnato» acquista legittimità quando si leggono affermazioni come quelle del presidente nazionale delle Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani, Giovanni Bianchi, il quale, scrivendo in tema di aborto, subito dopo aver premesso che «il punto di approdo non può che tendere all’eliminazione dell’aborto, per questo il punto di partenza non può che essere la difesa ostinata della vita», aggiunge apoditticamente che «la discussione su quando e in quale momento questa vita ci sia, si formi, è fuorviante ed oziosa, una penosa scorciatoia per non guardare in faccia il problema» (Sull’aborto non serve contarsi. L’esigente impegno della solidarietà e dell’accoglienza, in Azione Sociale, n. 19-20, 13/20-5-1988): sì che non si comprende in che termini si possa impostare la difesa della vita del nascituro se è «fuorviante» e «ozioso» individuare quando essa cominci.
Senza giochi di parole e senza aver timore della propria ombra la parlamentare «verde» Laura Cima, ben lontana dall’«area» cattolica, ha dichiarato: «Non stiamo a raccontarci storie, quando una donna abortisce sa benissimo che sta interrompendo una vita…» (intervista a Il Sabato, anno XI, n. 29, 16-7-1988. p. 7).
(11) Cfr. MAURO RONCO, L’aborto in quattro paesi dell’Europa Occidentale: legislazione e cause, in Quaderni di «Cristianità», anno II, n. 4, primavera 1986. pp. 3 ss.
(12) Cfr. Avvenire, 13-8-1988.
(13) C. DONAT CATTIN, relazione cit., p. 10.
(14) GIOVANNI PAOLO II. Discorso ai partecipanti al convegno di studi su Il diritto alla vita e l’Europa, del 18-12-1987, in L’Osservatore Romano, 19-12-1987.
(15) L’esperienza delle altre nazioni insegna che soltanto una forte campagna propagandistica è in grado di modificare gli orientamenti dei legislatori e delle Corti Costituzionali: cfr. il mio Aborto, difesa della vita e Costituzione, in Cristianità, anno XV, n. 151, novembre 1987, p. 6, nota 2. Questo studio andrebbe aggiornato alla luce dell’incredibile ordinanza del 23-31 marzo 1988 n. 389 (Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. Prima serie speciale, n. 15. 13-5- 1988, p. 78) con la quale è stata considerata razionale la scelta del legislatore di ritenere irrilevante la volontà del padre del concepito ai fini della decisione di abortire della madre: i problemi sollevati dalla stringatissima e apodittica decisione superano quelli strettamente connessi con il diritto alla vita del nascituro, e coinvolgono anche i beni della integrità della famiglia e della pari dignità dei genitori.
(16) Cfr. Il Giornale Nuovo, 12-4-1978
(17) Nell’ordine: Giovanni Leone, Giulio Andreotti, Tina Anselmi. Paolo Bonifacio, Tommaso Morlino e Filippo Maria Pandolfi.
(18) Cfr. Il governo democristiano difende la «legge» abortista, in Cristianità. anno VII, n. 56, dicembre 1979.
(19) Il Tempo, 19-5-1978. Sul referendum del 1981, cfr. GIOVANNI CANTONI, 1.7-5-1981: la verifica della confusione e della delusione, in Cristianità, anno IX, n. 73-74, maggio-giugno 1981.
(20) Il testo della mozione si trova in Resoconto Sommario della seduta di mercoledì 24-2-1988. pp. XLVIII-L.
(21) Si tratta di Carlo Casini, Lino Armellin, Lucia Fronza Crepaz. Ombretta Fumagalli Carulli, Maria Pia Garavaglia, Giuseppe Saretta e Alberto Volponi: «Soffriamo intimamente – si legge nella lettera – nel vedere pressoché totalmente emarginato dalla vita politica il tema della vita stessa dell’uomo. Il crescere di rischi per la vita umana, con una pratica di aborto estesa oltre le intenzioni della stessa legge, con il diffondersi delle tecniche di procreazione artificiale e di manipolazione dell’embrione, rende più acuto il nostro disagio» (Avvenire, 25-3-1 988).
(22) Avvenire, 14-4-1988.
(23) Cfr. le dure dichiarazioni rilasciate dall’on. Carlo Casini (cfr. Avvenire, 16-4-1988). La posizione dell’on. Casini risulta invero di non facile comprensione nei suoi presupposti: in un articolo sulla legge n. 194 egli dapprima afferma: «nonostante la mia convinzione della grave ingiustizia della legge preferisco ad una società con leggi giuste ma con molti aborti, una società senza aborti anche se con leggi non giuste», il che contrasta, oltre che con il costante magistero della dottrina sociale della Chiesa, con il più elementare buon senso, frutto dell’osservazione del condizionamento che il tessuto normativo esercita sul costume; subito dopo però aggiunge: «Se io chiedo una revisione della legge è perché penso che potremmo avere uno strumento migliore per limitare un fenomeno tanto triste» (Esiste il diritto del concepito: siamo d’accordo?, in l’Unità, 15-5-1988). E qui rinuncio all’esegesi, anche perché, di fatto, non è stata chiesta alcuna revisione della legge n. 194!
(24) COSTANTINO MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, tomo II, 9a ed., CEDAM, Padova 1976, p. 692.
(25) Vedi sopra nota 10.
(26) C. Donat Cattin, relazione cit., p. 42-43.
(27) Proposta di legge d‘iniziativa del deputato Parlato, presentata il 22-4-1988, n. 2492 della Camera dei Deputati.
(28) Secolo d’Italia, 7-6-1988, che riporta il testo completo.
(29) Avanti!, 8-6-1988.
(30) Così lo stesso on. Mino Martinazzoli in un’intervista (cfr. Avvenire, 7-7-1988).
(31) Il Sabato, anno XI, n. 29, cit., p. 7.
(32) Il passaggio è riportato nell’articolo di Carlo Casini 194, Impedire il silenzio, in Avvenire, 28-7- 1988.
(33) Ibidem.
(34) Avvenire, 7-7-1988. La polemica ha avuto uno strascico a Verona quando, in occasione della XII Festa Nazionale dell’Amicizia, l’on. Roberto Formigoni, nel corso di un dibattito con l’on. Renzo Lusetti, ha chiesto spiegazioni sul «perché la Dc ha rìfiutato i voti missini sulla mozione Martinazzoli, che sarebbero stati più che sufficienti per farla passare alla Camera» (Secolo d’Italia, 7-9- 1988).
(35) Cfr. C. CASINI, 194. Impedire il silenzio, cit.
(36) Il Sabato, anno XI, n. 29, cit., p. 7.
(377) CARD. JOSEPH RATZINGER, In nome dell’altro, in Il Sabato, anno XI, n. 6, 6-2-1988, p. 39.
Inoltre vi proponiamo la rilettura di:
Dal n. 24 – aprile 1977: Contraccezione, aborto ed eutanasia, di Maurillo M. Galliez
Dal n. 38-39 – giugno-luglio 1978: Dopo la legalizzazione dell’aborto: resistenza e reazione