Giovanni Cantoni, Cristianità n. 138 (1986)
Da «dietro le quinte» qualche lume per orientarsi nella «giungla partitica».
Dopo la riunione del maggio 1986 a Madrid
Dissensi nella Trilaterale e riflessi sulla politica italiana
Nel corso degli anni Settanta — per indicare il punto di partenza cronologico di queste considerazioni — la vita politica italiana presentava obiettive ragioni di interesse non solo per i cittadini della Repubblica, ma per tutti nel mondo, principalmente per la sua esemplarità in relazione a un progetto di indolore comunistizzazione da realizzare in un paese abitato da una nazione occidentale e cattolica e in cui ha sede la Cattedra di Pietro, progetto perseguito dal 1973 con la politica di «compromesso storico» e sospeso — se non abbandonato — con la tornata elettorale del giugno del 1979, che ha accompagnato la caduta del governo di «solidarietà nazionale» (1).
Poi, tale esemplarità è venuta meno quasi in modo brusco — verosimilmente per il fallimento del ricordato progetto a causa delle grandi difficoltà incontrate nella sua realizzazione e, quindi, per la necessità di mutarne le modalità — e l’attenzione generale si è in un certo senso sdoppiata — appunto sul finire degli anni Settanta ma, soprattutto, all’inizio degli anni Ottanta — rivolgendosi alla Francia in quanto nazione occidentale e alla Polonia in quanto nazione cattolica, perché entrambe «laboratori» di esperienze di grande significato sia per le vittime che per i promotori e gli operatori della Rivoluzione in Occidente e, dunque, nel mondo intero.
Dopo qualche accadimento difficilmente interpretabile — frutto, forse, di incertezze operative da parte dei promotori della Rivoluzione mondiale — è apparso chiaro che la Rivoluzione in Occidente si disponeva a fare un «passo indietro» rispetto alle tappe dell’itinerario logico del processo in tesi orientato a concludersi con il comunismo e con la Repubblica Universale. Da allora la vita politica italiana si è limitata a realizzare il suo lotto del progetto di socialistizzazione dell’Europa Occidentale, così che tutti gli scontri fra i professionisti della politica hanno semplicemente fatto stato dei dissensi relativi non certo al che cosa fare e neppure al come farlo, ma esclusivamente a chi lo dovesse fare, cioè al grado di protagonismo delle varie famiglie partitiche nell’attuazione di tale progetto, sotto la guida del «direttore dei lavori» imposto, cioè del Partito Socialista Italiano.
In pendenza di questa situazione, l’interesse per la vita politica italiana si è — come dicevo — notevolmente ridotto non solo dal punto di vista mondiale ma anche, appunto, da quello nazionale, rimanendo di qualche importanza solamente la rilevazione del dissenso da parte del corpo sociale rispetto alla realizzazione del citato progetto, dissenso espresso attraverso episodi di resistenza ad alcuni momenti della sua attuazione e con il rifiuto del consenso alla leadership imposta, anche se non sempre immediatamente perspicuo in quanto manifestato con il linguaggio limitato e gergale delle consultazioni elettorali.
Questa situazione di irrilevanza sostanziale della vita politica
nazionale — esclusivamente rivelativa della «qualità» dei suoi
professionisti e della occasionale indocilità del corpo sociale — pare avere avuto un mutamento di qualche significato negli ultimi mesi, se non, forse, nell’ultimo anno, cioè a partire dal dirottamento della motonave Achille Lauro. Si tratta, comunque, di un mutamento che, se non dice relazione solamente al chi, ma si eleva al come, non intacca, purtroppo, il che cosa: mette cioè in questione soltanto le modalità con cui realizzare un fine sostanzialmente immutato. Va da sé che tali modalità sono poi destinate a influire sulla scelta di chi le metta in opera, in quanto fatta in base alle attitudini delle forze e degli uomini disponibili.
Per intendere i termini dell’accaduto — e prima di esporli e, quindi, di svolgere qualche considerazione sul quadro che si è venuto a creare — è indispensabile una premessa. Ho parlato di un processo di socialistizzazione dell’Europa Occidentale, espressione di un «passo indietro» della Rivoluzione in Occidente. A chi attribuire tale progetto? Senza addentrarmi nella problematica relativa a chi promuove in ultima istanza il processo rivoluzionario tout court, mi limito a fare stato del fatto che esistono nel mondo organismi facilmente sospettabili di guidare la vita politica — ma non solo politica — delle diverse nazioni in luogo dei rispettivi governi quando non attraverso di essi. Tra questi organismi, o gruppi di pressione, ha posizione di rilievo la Trilaterale, la Trilateral Commission, «organizzazione internazionale fondata nel 1973 per iniziativa di D. Rockefeller, presidente della Chase Manhattan Bank, e diretta fino al luglio 1976 da Z. Brzezinski (entrato poi a far parte dell’amministrazione Carter come consigliere per la politica estera). Concetti fondamentali della T. sono la necessità di una più stretta collaborazione fra le regioni del mondo industrializzato, SUA, Europa occidentale e Giappone, colpite in varia misura da sfide esterne (da parte dei paesi del sistema socialista e del Terzo Mondo) e interne (crisi di governabilità delle democrazie); ne fanno parte imprenditori, sessanta leaders politici e sindacali, studiosi (60 membri americani, altrettanti giapponesi e 85 europei). Oltre a J. Carter, F. Mondale e Z. Brzezinski, altri aderenti dell’organizzazione si sono affermati ai vertici del governo americano: C. R. Vance al Dipartimento di stato, W. M. Blumenthal al Tesoro, H. Brown al Pentagono. Compito della T., oltre a sollecitare il mantenimento delle alleanze politiche e militari, è anche quello di formulare pareri su problemi specifici, per es., sul modo di conciliare una politica economica di espansione col contenimento dell’inflazione, sugli strumenti per realizzare una proficua collaborazione tra i paesi della T. e i paesi socialisti, sulla creazione di un nuovo “sistema internazionale”, politico ed economico. E sul piano dei rapporti di vertice che i principi della T. hanno avuto efficacia, ispirando le intese fra le democrazie industriali avanzate (incontri di Rambouillet, 1975, di Puerto Rico, 1976, e di Londra, 1977) per una soluzione concordata dei problemi monetari ed energetici. Oltre a offrire un’alternativa alle tentazioni protezionistiche, la T. dovrebbe garantire anche un margine di sicurezza contro eventuali tendenze aggressive nel mondo, e dovrebbe indurre l’Unione Sovietica ad allentare la propria influenza sui paesi dell’Est europeo, mentre gli Stati Uniti, parallelamente, rinuncerebbero a esercitare pressioni dirette sui paesi dellAmerica latina. Nel 1978, durante l’annuale riunione svoltasi a Washington in giugno, è emersa in seno alla T. una corrente che ne ha propugnato lo scioglimento. Nei cinque anni della sua attività, infatti, essa avrebbe esaurito la sua ragion d’essere, realizzando compiutamente la coordinazione tra ambienti politici ed economici delle tre grandi aree occidentali: ma si è parlato anche dell’immagine negativa creatasi intorno alla Commissione, giudicata come un organismo decisionale con la pretesa di guidare il mondo capitalistico in luogo dei legittimi governi» (2).
Riportato questo breve ma significativo identikit, do per esaurita la premessa, e proseguo. Dunque, non sciolta, ma vivente e vitale, la Trilaterale ha tenuto la sua ultima riunione annuale a Madrid, dal 16 al 19 maggio 1986. Ma, «tanto gli auguri della Trilaterale avevano fatto rumore e moltiplicato comunicati e contatti giornalistici in occasione di certi “vertici” come quello del 1976 o dell’aprile del 1985 (Tokio) — nota Pierre Faillant de Villemarest (3) —, tanto questa volta una cappa di piombo ha coperto i lavori di Madrid […].
«Il fatto è che nel suo ordine del giorno figuravano problemi che sono tutti interdipendenti tanto più oggi che Gorbaciov ha instaurato il suo potere, ha rimaneggiato il suo apparato diplomatico e ha apportato ritocchi al suo apparato sovversivo e spionistico (sessione straordinaria del KGB, il 27 e il 28 maggio a Mosca).
«Infatti la Trilaterale può progredire nella sua volontà di rimodellare il mondo soltanto a condizione: – di imporre agli Stati Uniti, cioè a Reagan, una “linea” molto precisa nei confronti di Gorbaciov; – di imporre una “linea” identica agli Stati dell’Europa Occidentale, al Giappone e alla Cina; – di imporre questa “linea” nello stesso tempo sui piani commerciale, diplomatico e della difesa, dal momento che gli uni trascinano o condizionano gli altri, a seconda degli argomenti, dei luoghi, delle circostanze.
«Ecco perché i trilateralisti hanno imposto il silenzio sulle loro discussioni e sulle loro conclusioni».
Comincio dalle «conclusioni». Sulla base delle dichiarazioni rilasciate e dei comportamenti tenuti da partecipanti all’incontro subito dopo, a Londra, a Parigi e a Bonn, e soprattutto il 30 maggio 1986 in occasione della sessione interministeriale della NATO, Pierre Faillant de Villemarest ritiene di essere riuscito a cogliere la «linea» comune, cioè la sua inesistenza: «Ne emerge — scrive infatti — che, nonostante le apparenze, l’URSS vince attualmente su tutte le lunghezze d’onda: né sul piano commerciale, né sul piano diplomatico, né sul piano strategico, vi sono metodi e prospettive comuni di fronte all’URSS, fra gli Stati Uniti, l’Europa e il Giappone…».
La spiegazione di questa mancata intesa si trova nel tenore delle «discussioni». Sempre secondo lo stesso Faillant de Villemarest — sulla base di informazioni raccolte nell’entourage di Felipe Gonzalez, uno degli intervenuti e dei protagonisti, nonché «uno dei prodotti della Trilaterale» medesima — appunto le discussioni hanno rivelato l’aggravarsi della crisi «fra le due concezioni mondialistiche che rivaleggiano all’interno della Trilaterale». La frattura è fra «euro-atlantisti» ed «europeisti»: «gli euro-atlantisti, ala “‘destra” del club, pensano che la potenza economica, industriale, diplomatica dell’Europa e del Giappone, integrata nel complesso geopolitica panamericano, deve obbligare I’UBSS a un’intesa permanente Est-Ovest. Ciascuno deve restare all’interno delle frontiere uscite da Yalta. Tutti devono condurre una politica concertata di aiuto (o di sfruttamento? del Terzo Mondo»; dal canto loro «gli europeisti, ala sinistra della Trilaterale, vogliono una Pan-Europa staccata diplomaticamente e strategicamente dal complesso panamericano. Non per motivi di nazionalismo, ma perché desiderano un’Europa sia neutralista, sia legata al pansovietismo. Con il pretesto che solo questa può “equilibrare” l’egemonia degli Stati Uniti».
A questo punto, la semplice descrizione delle due tendenze e l’aggiunta, ad abundantiam, che Felipe Gonzalez ha esposto, a Madrid, le tesi degli «europeisti», presentando l’Europa come «in ultima analisi, l’opposizione parlamentare in seno alla NATO», aiutano a identificare le «agenzie» in Italia di tali tendenze, il cui scontro pendente si riflette sulla battaglia politica nazionale, gettando lumi anche su episodi di rilievo della più recente vita economica nel nostro paese.
Da una parte, dunque, si schierano gli «euro-atlantisti», guidati dagli uomini del Partito Repubblicano Italiano — cioè dagli eredi di Ugo La Malfa — e seguiti dalla frazione della Democrazia Cristiana che fa capo all’on. Ciriaco De Mita (4), dai socialdemocratici e dai liberali; dall’altra stanno gli «europeisti», cioè gli uomini del Partito Socialista Italiano e gli esponenti di quella parte della Democrazia Cristiana che fa riferimento all’on. Giulio Andreotti, forse destinato — dopo la crisi di governo che si è conclusa con il varo del secondo gabinetto Craxi — a subentrare nella «staffetta» di primavera del 1987 allo stesso segretario socialista, almeno pro tempore. Sullo sfondo l’«eurosinistro» Partito Comunista Italiano attende la sua ora e non è difficile immaginare il fascino che la posizione degli «europeisti» può esercitare su tanta parte della classe dirigente del Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale.
Mentre lo scontro prosegue, con la mobilitazione — naturalmente al proprio livello — di tutte le forze dei diversi schieramenti, mi limito a qualche considerazione a giochi ancora aperti.
1. Anzitutto, mi preme far notare che, se qualcuno, a fronte dello scontro in atto, ne deducesse «che, dopo tutto, è tanto meglio per coloro che rifiutano l’egemonia occulta di un club senza morale, indifferente ai crimini commessi quotidianamente dal suo partner dell’Est», sbaglierebbe grossolanamente: «infatti, le divergenze dei trilateralisti non impediscono che i più potenti fra loro impongano infine il gioco internazionale che favorisce i loro profitti… e quelli dell’URSS».
2. Merita poi di essere ricordato che, mentre chi dissente dalla nomenklatura sovietica è destinato esclusivamente ad abitare l’Arcipelago GULag, nell’establishment nordamericano sono presenti — e talora emergono fino alle magistrature più importanti, il che non vuol dire non condizionate — uomini che dissentono più o meno radicalmente dai club che infiltrano e tendenzialmente egemonizzano tale establishment. Quindi, da parte dell’Europa Occidentale la eventuale perdita di contatto con il «complesso panamericano» equivale, al limite, alla perdita di contatto anche con gli uomini che in esso hanno un ruolo positivo — e non soltanto allo stato di «vittime» —, anche se, al momento, tali uomini mancano assolutamente di riferimenti se non europei, certamente italiani: né, se non in Europa, certamente in Italia vi è chi cerchi contatto e concertazione politica con essi.
3. Infine, credo indispensabile osservare che — allo scontro in corso e al suo esito — può di fatto, sia pure parzialmente, partecipare e contribuire ogni europeo e, quindi, anche ogni italiano. Infatti, una delle funzioni degli «agenti» di coloro che promuovono la Rivoluzione mondiale, quindi anche la Rivoluzione in Occidente, e che stanno contendendo sulle caratteristiche di una tranche di essa, consiste nel raccogliere e organizzare consenso sociale al progetto stesso, perché all’esito finale si giunga il più possibile, appunto, per consenso e il meno possibile per coazione. In questa prospettiva hanno un valore tutto particolare le elezioni che si svolgeranno nella Repubblica Federale di Germania nel gennaio del 1987 e quelle, tutt’altro che improbabili, che si profilano all’orizzonte della vita politica italiana; con corrispondente grave responsabilità di chi, a qualsiasi titolo, è in grado di orientare l’elettorato in una scelta di campo di importanza rilevante, almeno a medio termine.
Giovanni Cantoni
Note:
(1) Sui tratti caratteristici della politica italiana nel periodo indicato, cfr. il mio La «lezione italiana». Premesse, manovre e riflessi della politica di «compromesso storico» sulla soglia dell’Italia rossa, Cristianità, Piacenza 1980.
(2) ANTONELLA BIAGINI, Trilaterale (Trilateral Commission), in Enciclopedia Italiana. IV Appendice. 1961-1978, vol. III, p. 690, con qualche indicazione bibliografica. Più ampiamente, cfr. YANN MONCOMBLE, La Trilatérale et les secrets du mondialisme, Faits et Documents, 2a ed., Parigi 1983, soprattutto pp. 175-190; e IDEM, L’irrésistible expansion du rnondialisme, Faits et Documents, Parigi 1981, pp. 99-117.
(3) PIERRE FAILLANT DE VILLEMAREST, La Trilatérale, au chevet d’un tournant stratégique et diplomatique décisif pour les libertés, in la lettre d’information, anno XV, n. 7, 20-6-1986, pp. 1-4. Tutte le citazioni senza riferimento sono tratte da questa nota.
(4) Per la collocazione dell’on. Ciriaco De Mita, cfr. interessanti indicazioni nei suo Intervista sulla DC, a cura di Arrigo Levi, Laterza, Bari 1986, pp. 51 e 59.