Marco Invernizzi, Cristianità n. 143 (1987)
Nel generale silenzio, e con la complicità palese anche delle forze politiche ufficialmente antidivorziste, un ulteriore passo verso l’introduzione del divorzio «consensuale».
Ancora una lesione all’istituto matrimoniale
«Divorzio corto»
Il «divorzio corto», che «non piace ai vescovi italiani» (1), è diventato legge dello Stato. Lo hanno sostenuto i parlamentari di tutti i partiti — a eccezione di quattro deputati —, compresi quelli eletti nelle liste della Democrazia Cristiana e del Movimento Sociale Italiano — Destra Nazionale, partiti che nel 1970 avevano votato contro l’introduzione del divorzio nell’ordinamento giuridico italiano e che nel 1974 si erano espressi a favore del referendum abrogativo della stessa legge divorzista.
I fatti
L’iter del progetto di riforma della legge sul divorzio n.898 del 1° dicembre 1970 — confermata dal referendum del 1974 e parzialmente riformata, nel senso di una maggiore tutela del coniuge più debole, con la legge n. 736 del 1° agosto 1978 — è durato, in Senato, circa quattro anni. Il 12 novembre 1986 è stata presentata in sede referente alla Commissione Giustizia del Senato una proposta di legge redatta dal democristiano Nicolò Lipari, frutto di un compromesso fra quelle presentate dal Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale, dal Partito Repubblicano Italiano, dal Partito Liberale Italiano e dal Partito Comunista Italiano. Il testo di riforma della legge — che i mezzi di comunicazione sociale hanno sinteticamente definito «divorzio corto» — consta di ventiquattro articoli e comporta, fra l’altro, una riduzione a tre anni dei tempo necessario per ottenere il divorzio, nuove norme per la protezione del coniuge più debole e la possibilità per la moglie che ne faccia richiesta di mantenere il cognome del marito aggiunto al proprio.
I mass media hanno generalmente accompagnato con il silenzio l’iter della riforma fino al 17 febbraio 1987, quando è cominciato a Palazzo Madama l’esame del testo predisposto dal comitato ristretto della Commissione Giustizia del Senato. In precedenza, in una riunione dei rappresentanti dei cinque partiti al governo allargata ai comunisti, era stato accolto un emendamento comune di liberali, repubblicani, socialisti e appunto anche comunisti, che secondo il capogruppo liberale sen. Giovanni Malagodi «consentirà di abbreviare i tempi di circa un anno e mezzo» (2).
Così, il 18 febbraio, il «divorzio corto» viene approvato dal Senato «senza contrasti e per semplice alzata di mano» (3).
Dal Senato il progetto di legge passa alla Camera dei deputati. Ma sulla sua definitiva approvazione incombe il rischio della crisi di governo, che prevede le dimissioni dell’on. Bettino Craxi nello stesso giorno in cui la riforma dovrebbe essere discussa e approvata dalla Camera. E perciò necessario bruciare i tempi: se ne incarica la presidente della Camera, la comunista on. Nilde Jotti, che ottiene l’assenso di tutti i capigruppo perché la legge venga esaminata in sede legislativa — quindi senza dover passare in aula per la discussione — dalla Commissione Giustizia. Dal canto suo il presidente della commissione, on. Roland Riz, della Sudtiroler Volkspartei, accoglie l’invito dell’on. Nilde Jotti e colloca la discussione sulla riforma del divorzio al primo punto nell’ordine del giorno dei lavori della commissione stessa. Così il «divorzio corto» diventa legge dello Stato pochi minuti prima che il presidente del Consiglio uscente rassegni le dimissioni nelle mani del presidente della Repubblica. Secondo la cronaca del Corriere della Sera, si arriva al voto in commissione quando «mancavano due minuti alle sei, termine ultimo» (4). A differenza di quanto accaduto in Senato, non tutti i ventisei deputati presenti votano a favore: due si astengono e quattro votano contro, tra essi i democristiani on. Carlo Casini — che interviene nel dibattito parlando venticinque minuti — e l’on. Vincenzo La Russa. I commentatori sono concordi nel sostenere che l’inusitata premura dell’on. Nilde Jotti sia dovuta al desiderio di regalare il «divorzio corto» al movimento femminista per la «festa della donna» dell’8 marzo. Naturalmente, accanto a questo «simbolico» regalo, vi è il reale motivo, e cioè il fatto che la crisi di governo avrebbe rimandato sine die l’approvazione del progetto di riforma della vigente legge divorzista.
Un «blitz» parlamentare
La stampa d‘informazione mette in risalto la velocità e le operazioni di vertice che hanno reso possibile tale risultato — un autentico blitz parlamentare, che ha sottratto alla discussione in aula un progetto di legge su un tema di grande rilevanza pubblica —, mentre la stampa cattolica tenta una difesa d‘ufficio del comportamento della Democrazia Cristiana, che, se poteva avere un fondamento, peraltro discutibile, nella logica del male minore — cioè a fronte del «ricatto» dei partiti laicisti di abbassare sotto i tre anni il limite per ottenere il divorzio —, dopo l’approvazione da parte della Commissione Giustizia della Camera del «divorzio corto» in soli novanta minuti perde ogni significato. Infatti, sarebbe bastato rifiutarsi di rinunciare alla discussione in aula del progetto di riforma, oppure organizzare un minimo di ostruzionismo nella discussione in commissione; ma non è venuta nemmeno la protesta per questa procedura inconcepibile su un tema di tale portata se non quella dei deputati Carlo Casini e Vincenzo La Russa, che peraltro avrebbero potuto, il primo allungare di qualche minuto il suo intervento e il secondo intervenire per motivare il suo voto contrario: in tutte queste eventualità, la crisi di governo avrebbe impedito la ratifica della legge (5).
Giudizi cattolici
La difesa del comportamento della Democrazia Cristiana viene da fonte autorevole, il segretario della Conferenza Episcopale Italiana, S. E. mons. Camillo Ruini (6), ed era cominciata con un intervento di padre Giuseppe De Rosa S.J. sul primo numero de La Civiltà Cattolica del 1987: «Per impedire di abbassare oltre tale termine è stata determinante l’azione della DC. Essa, infatti, si è fortemente opposta alle proposte di altri partiti di scendere sotto i tre anni.
«Inizialmente la DC voleva che la riforma della legge sul divorzio riguardasse unicamente la tutela del coniuge più debole e dei figli. Ma poiché tutti gli altri partiti proponevano di ridurre anche il tempo di separazione necessario per ottenere il divorzio, essa ritenne di poter fare la controproposta dei tre anni, mentre i socialisti ne chiedevano due (riducibili a uno se tra i coniugi c’era l’accordo su tutto e da portare a quattro se uno dei due non era d’accordo), il MSI ne proponeva tre, il PCI due, i liberali due, che sarebbero diventati tre in presenza di figli minori e uno per i senza prole, i repubblicani tre e anche due se c’era l’accordo su tutto».
Perciò, concludeva il padre gesuita, «inaccettabile è, di per sé, anche la presente legge, in quanto introduce una nuova oggettiva facilitazione al divorzio. La collaborazione ad essa prestata da deputati DC è spiegabile, quindi, solo nella prospettiva di un’azione rivolta non a confermare la precedente legge ma a evitare un male maggiore altrimenti non evitabile» (7).
Poiché, però — come ho già evidenziato —, sarebbe stato sufficiente un minimo sforzo per impedire l’approvazione della riforma e quindi inserirla nell’agenda delle ormai imminenti trattative per la costituzione del nuovo governo, emerge chiaramente che la Democrazia Cristiana nel suo complesso — a parte, cioè, l’assolutamente inadeguata eccezione costituita dai quattro deputati che hanno votato contro in Commissione Giustizia della Camera — ha giudicato in modo sostanzialmente positivo il progetto e non si è limitata a subirlo come il minor male, tanto è vero che non ha fatto nulla per impedirne la ratifica, anche quando se ne è presentata la possibilità.
Infatti, la diversità di valutazione fra la Democrazia Cristiana e il mondo cattolico e evidente: oltre al citato giudizio di padre Giuseppe De Rosa sull’immoralità della presente riforma, vi sono i giudizi negativi — anche se inspiegabilmente tardivi — comparsi in Avvenire e in L’Osservatore Romano (8).
In particolare, su questi quotidiani viene fatto notare come con la riforma ci si avvicini al modello di divorzio «consensuale», mentre la legge introdotta nel 1970 si sarebbe attenuta al modello di divorzio come «rimedio» di una situazione familiare compromessa e proprio per questo prevedeva un certo numero di anni di separazione perché potesse iniziare la procedura che porta al divorzio.
Ed è per questo che, quasi come esame di coscienza retroattivo, ci si chiede se «è proprio così forte, nella nuova legge sul divorzio […] la migliore tutela del coniuge più debole» da compensare le gravi rinunce che ha comportato per la morale naturale e cristiana: il vicedirettore di Avvenire, Pier Giorgio Liverani, risponde che non vi erano gli elementi per il compromesso perché le «nuove garanzie si riducono a ben poca cosa […], mentre gli aspetti negativi della legge vanno ben oltre la riduzione da cinque a tre anni» (9).
Una messa in guardia disattesa
Ma non si può non chiedere perché questo esame sia stato fatto soltanto dopo la consumazione del fatto e non si sia esercitata una qualche forma di pressione, precedente al voto, sui deputati democristiani. Eppure il mondo cattolico era stato tempestivamente avvertito sia che il sen. Nicolò Lipari — relatore del progetto unificato — si era schierato a favore del divorzio in occasione del referendum del 1974, sia della immoralità della proposta democristiana: «Non credo spetti ai cattolici collaborare al lassismo di quest’epoca, riservandosi al dopo i soliti tardivi piagnistei: ma credo anche che il mondo cattolico non abbia molto diritto di lamentarsi, dopo di quello che questo “esterno con seggio” [il sen. Nicolò Lipari] ha combinato, se non si interessa, prima, di queste cose che lo dovrebbero toccare direttamente. […] La Dc si assume una dannosa responsabilità, davanti alla stragrande maggioranza di chi la vota.
«La prima responsabilità, per ora, mi pare quella di avere affidato il compito al senatore Lipari, che a suo tempo, rompendo il fronte dei cattolici, si schierò in pro del divorzio al fianco dei catto-comunisti (10).
Valutazioni democristiane
In contrasto con queste valutazioni critiche, il quotidiano della Democrazia Cristiana rileva «quanto utile e proficuo sia risultato il lavoro svolto da parlamentari di diverse estrazioni politiche per dar vita a una riforma il cui carattere, prevalentemente tecnico e comunque per taluni aspetti migliorativo della vecchia normativa, non incide in alcun modo sulle motivazioni che stanno a monte della scelta divorzista, e che ha fatto registrare convergenze su punti «importanti» (11).
E il relatore del progetto, sen. Nicolò Lipari, sia nell’intervento in Senato del 17 febbraio che nell’intervista a Il Popolo del 5 marzo, afferma che non si è voluto modificare il modello di divorzio «rimedio» a favore di quello «consensuale» e, al contrario di quanto sostiene La Civiltà Cattolica con abbondanza di dati, «che l’introduzione nel nostro ordinamento di un modello di matrimonio dissolubile non ha introdotto, nella società civile, la condizione della non stabilità del vincolo coniugale» (12).
Ancora più in là si è spinto il ministro della Giustizia, on. Virginio Rognoni — personalmente ringraziato dall’on. Nilde Jotti insieme a tutti i gruppi parlamentari (13) —, la cui «costernazione» per il nuovo divorzio più corto e più facile è stata così descritta: «Sorridente è anche il ministro guardasigilli, Rognoni, il quale però si limita a dire: “La volontà del Parlamento è sovrana”» (14); per il ministro democristiano, infatti, «la valutazione di queste innovazioni e delle altre contenute nel testo non può essere che positiva» (15).
Come ha osservato «il responsabile della DC Gargani», «ragioni di opportunità hanno consigliato di approvare la legge. Un ritardo non si sarebbe giustificato, anche perché il Senato ci ha lavorato molto» (16).
Sarebbe auspicabile conoscere più in dettaglio queste «ragioni di opportunità», così come sapere chi è rimasto a rappresentare politicamente il mondo cattolico, e con quale concezione del bene comune. Dal 1970 in poi, infatti, il divorzio si è progressivamente introdotto nel costume degli italiani — diventando oggi anche più corto e più facile —, ma contemporaneamente si è venuto consumando un altro divorzio: quello tra il mondo cattolico italiano e la Democrazia Cristiana. E non sarà il silenzio a restituire ai cattolici italiani una classe politica che creda nei principi della morale sociale della Chiesa e si sforzi di difenderli e di proporli alla società.
Marco Invernizzi
Note:
(1) Avvenire, 20-1-1987.
(2) la Repubblica, 18-2-1987.
(3) Il Popolo, 19-2-1987.
(4) Corriere della Sera, 4-3-1987.
(5) Entrambi sono successivamente intervenuti per motivare il loro voto contrario, ma senza entrare nel merito del comportamento del loro partito: tutto ciò è sorprendente, perché se la loro diversa posizione rispetto ai loro compagni di partito era motivata da ragioni di coerenza con la morale cristiana, sarebbe stato doveroso chiedere conto di un tale comportamento ai vertici del partito stesso e comunque informarne pubblicamente il mondo cattolico (cfr. VINCENZO LA RUSSA, Lettera aperta indirizzata al presidente della Camera Nilde Jotti, in Avvenire, 8-3-1987; e CARLO CASINI, Divorzio/il mio no, in Il Sabato, anno X; n. 11, 14-3-1987, p. 10).
(6) Cfr. Avvenire, 20-1-1987.
(7) GIUSEPPE DE ROSA S.J., La famiglia, un «valore» da difendere e da promuovere. A proposito della riforma della legge sul divorzio, in La Civiltà Cattolica, anno 138, n. 3277, 3-1-1987, pp. 49-50 e 54. Sia l’intervento di mons. Camillo Ruini che quello di padre Giuseppe De Rosa sono comunque precedenti la vicenda relativa al comportamento della Democrazia Cristiana alla Camera dei deputati e quindi ritengo che non possano essere utilizzati come giustificazioni di tale comportamento. Perciò sarebbe desiderabile un giudizio autorevole anche sui fatti successivamente accaduti e che ho sinteticamente descritto.
(8) Cfr. Avvenire, 4-3-1987 e 5-3-1987; e L’Osservatore Romano, 5-3-1987.
(9) Avvenire, 5-3-1987.
(10) FRANCESCO MIGLIORE, Il divorzio e le sviste della DC, ibid., 6-6-1986.
(11) Il Popolo, 5-3-1987.
(12) Senato della Repubblica, 561a seduta pubblica, Resoconto stenografico, 17-2-1987, p. 27.
(13) Cfr. l’Unità, 4-3-1987. L’on. Nilde Jotti ha anche detto: «È quindi sicuramente una vittoria del movimento delle donne, conquistata però grazie all’aiuto delle parlamentari, anche di quelle democristiane» (ibid., 5-3-1987).
(14) La Stampa, 4-3-1987.
(15) la Discussione, anno XXXV, n. 8, 23-2-1987, p. 9.
(16) Il Popolo, 4-3-1987.