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Don Pietro Cantoni, Oralità e Magistero. Il problema teologico del magistero ordinario, D’Ettoris, Crotone 2016, pp. 312, € 20,90

28 Settembre 2016 - Autore: Laura Boccenti

Laura Boccenti, Cristianità n. 381 (2016)

 

È difficile immaginare un percorso più decisivo per comprendere il significato e il valore del Magistero di quello proposto dal teologo don Pietro Cantoni — membro della Fraternità san Filippo Neri, comunità in formazione dell’Oratorio nella diocesi di Massa Carrara-Pontremoli, docente presso lo Studio Teologico Interdiocesano di Camaiore (Lucca) e membro del capitolo nazionale di Alleanza Cattolica — in Oralità e Magistero. Il problema teologico del magistero ordinario.

La distinzione fra Magistero straordinario, infallibile nelle sue definizioni, da acco­gliere e cui obbedire con piena adesione di fede, e Magistero ordinario, ha lasciato spazio a una zona d’ombra in cui si è progressivamente affermata l’idea che, se un insegna­mento del Papa non è una definizione infallibile, allora è fallibile, e pertanto sarebbe lecito, e talvolta persino doveroso, giudicarlo.

Ma è proprio vero che l’alternativa fra queste due ipotesi — infallibilità o fallibilità — sia il modo corretto d’impostare il problema? Non si tratta invece di un dilemma falso, in quanto assume come presupposto indimostrato una nozione univoca d’infalli­bili­tà? E tale presupposto non si rivela, oltretutto, anche pericolosamente ingannevole, dato che offre all’uomo di oggi, così profondamente segnato dal relativismo e dal razionalismo, uno spazio che consente di sostituire all’autorità estrinseca di Dio, che continua ad essere esercitata attraverso la Chiesa gerarchica, il proprio giudizio, alimentando in questo modo interpretazioni più o meno soggettive?

Don Pietro Cantoni affronta la questione nell’Introduzione (pp. 9-15) proponendo «un cambiamento di punto di vista […] assolutamente radicale e fondamentale» (p. 10). Finora il Magistero è stato visto in un’ottica soprattutto «grafica», cioè come un insieme di documenti scritti. Anche se non si tratta di una prospettiva completamente sbagliata, perché per lo più i pronun­ciamenti del Magistero si traducono in documenti scritti — bolle, responsi, lettere motu proprio, lettere encicliche, costituzioni apostoliche, esortazioni apostoliche postsino­dali, e così via —, tuttavia il fatto di essere scritti non appartiene, secondo l’autore, all’es­sen­za del loro essere «Magistero», cioè insegnamento «autentico», e certamente non descrive adeguatamente la loro struttura essenziale, la loro «natura». «Un insegnamento è autentico quando è impartito con autorità, cioè in modo tale da esigere — di per sé — di essere accolto con obbedienza. Non per l’evidenza di quello che dice, ma per l’evi­denza dell’autorità di chi lo trasmette», come avviene appunto nel caso del Magistero pontificio.

Esaminando nel capitolo I — Infallibilità e Autorità (pp. 17-29) — la nozione d’in­fallibilità proposta dal pensatore savoiardo Joseph de Maistre (1753-1821), che con la sua opera Du Pape ha ispirato ed esercitato un «innegabile influsso concreto» (p. 18) sulla riflessione e sulla proclamazione del dogma dell’infallibilità del Papa sancita dal Concilio Vaticano I (1869-1870), don Cantoni mostra come essa sia, con ogni evidenza, non univoca, ma analogica. La ripresa della dimensione analogica della nozione d’infal­libili­tà non dipende solo dal fatto di riconoscere l’influenza esercitata storicamente dal pensiero di de Maistre; essa è anche concettualmente indispensabile in considerazione della modalità con cui la «provvidenza veritativa» di Dio agisce per assicurare in modo efficace l’unità di fede nella Chiesa: «Una provvidenza veritativa che si limitasse ad assicurare alla Chiesa la sua certezza a proposito di una sola proposizione in un ambito di tempo di centocinquant’anni circa, cioè a partire dal momento in cui la Chiesa ha definitivamente fissato la dottrina a proposito dell’infallibilità straordinaria e ordinaria del suo magistero al concilio ecumenico Vaticano I, non sarebbe assoluta­mente credibile» (pp. 23-24).

Quindi, se da una parte è vero che l’infallibilità «[…] si realizza in pienezza solo in pro­posizioni garantite nella loro verità, dogmi solennemente e straordinariamente definiti» (p. 23), dall’altra essa non può essere circoscritta a un ambito così ristretto, ma dovrà estendersi, secondo una modulazione, appunto, analogica, a tutto ciò che la Chiesa insegna impegnando la propria autorità.

Il fondamento dell’infallibilità non può che appoggiarsi su un’autorità il cui legame con la verità è costitutivo e indefettibile; tale «autorità» è entrata nella storia con l’Incar­nazione di Gesù e il Signore l’ha lasciata nella «Sacra potestas (l’autorità santa) che vive nella Chiesa» (p. 27), di modo che «nella Chiesa l’Autorità e il Magistero sono partecipazione all’unica Autorità di Cristo» (ibidem). La presenza dell’autorità di Gesù nella Chiesa si realizza nella storia attraverso il magistero di persone viventi: «[…] il magistero formalmente non è costituito da documenti […]. Il magistero del passato, assieme a tante altre cose, costituisce un elemento molto importante nella trasmissione della fede: la Tradizione. Tuttavia anche la Tradizione sarebbe qualcosa di morto, di insufficiente a trasmettermi la fede in modo efficace se non fosse accompagnato dal magistero di persone viventi» (p. 28).

Dopo aver consolidato la nozione analogica d’infallibilità contro quella univoca e aver individuato il fondamento dell’infallibilità del Magistero in quell’autorità il «[…] cui legame con la verità è nativo e dunque indissolubile» (p. 23), l’indagine prosegue con l’a­nalisi dell’atto di fede, a cui tutti i mezzi di trasmissione della fede sono ordinati.

L’atto di fede, studiato nel capitolo II, Analysis fidei (pp. 31-51), mette in luce la rela­zione «educativa» (cfr. p. 36) grazie a cui Dio genera la persuasione della verità nel­l’a­nima dell’uomo. L’incontro della ragione e della libertà umana con la Verità rivelata — il cui contenuto è «Dio stesso» (p. 36) che si auto-comunica — non mortifica, ma vivifica le facoltà umane, chiamate ad accogliere il dono della conoscenza soprannaturale attraverso l’atto di fede. Un aspetto fondante di questa relazione è che Dio, autorità per eccellenza, è non solo maestro, ma anche Padre e il cristiano cresce nella fede al­l’in­ter­no di questo rapporto grazie all’atteggiamento insieme di ascolto, proprio del discepolo verso il maestro, e di obbedienza, proprio del figlio verso il Padre.

Nella trasmissione della fede, la cui origine è ultimamente solo Dio, la Chiesa ha un indi­spensabile ruolo ministeriale; in essa si dà «sacramentalmente l’autorità di Gesù» (p. 41) e, nonostante sia «portatrice di suo dei limiti dei ministri umani» (ibidem) e perciò possa subire «l’oscuramento della debolezza e del peccato» (p. 42), il suo magistero è «la causa seconda che trasmette la fede propriamente (formalmente) come obbedienza, quella cioè che rende presente l’autorità divina» (p. 50); all’autorità divina, resa presente nella Chiesa, il cristiano risponde con l’atteggiamento di ascolto e obbedienza proprio dell’at­to di fede.

Do­po aver messo in evidenza il legame essenziale fra ascolto della Parola e trasmissio­­ne della fede (fides ex auditu), l’indagine prosegue in primo luogo esaminando il rapporto fra parola viva e parola scritta nel Magistero (capitolo III), e, in secondo luogo, approfondendo la nozione di tradizione (capitoli IV e V). Il Magistero, infatti, pur non identificandosi con la Tradizione, si presenta «[…] come «or­gano proprio della trasmissione autentica. Esso non s’identifica con la Tradizione, ma la Tradizione, qualunque tradizione, non è concepibile senza trasmettitori autorevo­li. L’autorevolezza, l’autenti­cità, non risiede nel testo in quanto tale, ma nella persona che trasmette» (p. 56).

Nel capitolo III, Magistero e Tradizione orale (pp. 53-75), don Pietro Cantoni, gra­zie agli studi di Milman Parry (1902-1935), Marcel Jousse (1886-1961), Eric Alfred Have­lock (1903-1988) e soprattutto Walter Jackson Ong S.J. (1912-2003), ricostruisce gli aspetti costitutivi di oralità e di scrittura, mettendo in luce il primato originario della pri­ma sulla seconda. Anche Platone (427-347 a.C.), vissuto in un’epoca di transizione in cui la società stava passando dal dominio dell’oralità all’affermazione progressiva della scrittura, nel dialogo Fedro, pur accogliendo la scrittura come strumento di comunicazione prezioso, contemporaneamente fa emergere i rischi che l’affidamento a essa comporta. Il testo scritto, infatti, può finire nelle mani di chiunque, anche di chi non è preparato a leggerlo e lo può fraintendere. Può essere usato a sproposito ed è assolutamente incapace di difendersi e di adattarsi al lettore e all’uditorio. Un concetto adeguato di autorità e di Magistero della Chiesa, pertanto, senza negare in alcun modo la funzione essenziale della Rivelazione scritta, dovrà tenere conto di questo primato originario dell’o­ralità.

Nel capitolo IV, dedicato a La tradizione primordiale (pp. 77-98), dopo aver esami­nato ampi settori di letteratura e mostrato l’inconsistenza della tesi che sostiene l’esi­stenza di un’età primitiva areligiosa, viene richiamata la tematica della lettura non cronologica, ma qualitativa del tempo, affrontata, fra l’altro, da sant’Agostino d’Ippona (354-430) e da san Tommaso d’Aquino O.P. (1225/1226-1274). Per sant’Agostino l’umanità è passata attraverso tre stati successivi: «il primo dopo la caduta fino a Mosè e si chiama stato della legge di natura; il secondo da Mosè a nostro Signore ed è lo stato della legge scritta; il terzo da nostro Signore fino a noi, lo stato di grazia che durerà fino alla fine dei tempi […] e, andando più lontano, osserva che questi diversi stati della umanità s’incontrano facilmente nelle persone anche oggi, le quali possono essere “ante legem” o “sub lege” o “sub gratia”» (p. 96).

L’analisi della tradizione primordiale introduce la riflessione del capitolo IV su Il concetto cattolico di tradizione (pp. 99-122).

Il Concilio di Trento (1545-1563), volendo ristabilire la corretta prospettiva di fede do­po il sola Scriptura di Martin Lutero (1483-1546), ha sottolineato l’importanza della Tradizione accanto alla Scrittura, con la formula tradizionale dell’«et… et…». Durante il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) la discussione sul significato di Tradizione e il modo d’in­ter­pretare l’«et… et…» del Concilio di Trento fu molto accesa: alla posizione di chi sosteneva che «la Tradizione non faceva che interpretare la Bibbia» (p. 100) senza trasmettere alcuna verità essenziale in modo esclusivo, si opponeva «la minoranza “conservatrice” in una difesa ad oltranza della Tradizione non soltanto interpretativa, ma anche costitutiva» (ibidem), cioè nella difesa della Tradizione come veicolo esclu­sivo di trasmissione di alcune verità essenziali. Sarà il teologo Joseph Ratzinger a mettere a fuoco il punto essenziale della questione osservando che l’aspetto costitutivo della Tradizione non consiste «[…] nelle verità che materialmente trasmette, ma nel principio formale che presiede alla trasmissione stessa, cioè l’autorità personale e vivente» (pp. 100-101) che, in ultima istanza, deve essere ricondotto alla «[…] permanente presenza di Cristo nella Chiesa per mezzo dello Spirito Santo, […] a cui corrisponde — come causa seconda — il magistero del Papa e dei vescovi e il comune sentire dei fedeli» (p. 102).

In questa prospettiva la Tradizione non è solo una fonte accanto alla Scrittura che tra­smette le verità che donano la salvezza, ma è soprattutto un modo diverso di trasmissione, un modo che «rimanda ad una relazione viva, che è quella del dialogo e quindi del rapporto orale» (p. 106). «Se Dio si rivela all’uomo, si “autocomunica” in ordine alla sua salvezza, questa autocomunicazione non avviene “deisticamente” in un momento della storia per lasciare poi l’uomo a se stesso nell’appropriazione di questo contenuto. Certamente lo scritto interviene come mezzo comunicativo. Però, anch’esso è protetto e garantito mediante la grazia dell’ispirazione. Così l’originaria comunicazione orale è protetta e garantita mediante una comunità soprannaturale, al cui interno si dà un’au­to­rità soprannaturale, una sacra potestas» (p. 107). Nella comunicazione di verità soprannaturali non si può accertare l’autenticità della trasmissione in base all’analisi dei contenuti «[…] perché i contenuti trascendono la possibilità di controllo da parte della mente umana» (ibidem), perciò l’elemento decisivo è l’autenticità del comunicatore: «L’evidenza non sta nel­l’“at­testato”, ma nell’“attestante”» (ibidem). D’altra parte l’as­senso di fede richiesto dal­l’au­torità dell’attestante non deve essere inteso fideisticamente come un atto senza logos o, addirittura, contro il logos, perché la conoscenza discorsi­va e razionale non esaurisce tutte le potenzialità della capacità conoscitiva: la fede «[…] si rivela come il modo di conoscere più perfetto in considerazione della natura del­l’uomo» (p. 114), essa è opera «dello spirito dell’uomo, cioè della sua intelligenza, volontà e, dunque, libertà» (p. 115) Ciò non toglie «[…] che nell’attestato non vi sia niente di intellettualmente significativo ed affascinante. […] La Bibbia è per me Parola di Dio e dunque verità, perché accetto per fede la sua divina ispirazione, ma nulla impedisce che possa trovare in essa conferma, stimolo ed incremento dei risultati della mia umana ricerca intellettuale» (p. 107). Anche la Scrittura va letta nella prospettiva della trasmissione orale, della originaria trasmissione verticale di Dio all’uomo: «la parola dunque permane nello scritto, nel libro, come in un monumento materiale che, in questo senso, è testimonianza. Così infatti qualifica il libro del­l’E­sodo la parola scritta su tavole: testimonianza (‘Edut). Il deca-logo, le dieci parole, sono infatti scritte originariamente nei cuori degli uomini (Rm 2,15) […] e di ciò le tavole sono solo testimonianza, pro-memoria» (pp. 109-110).

Dopo aver chiarito le nozioni d’infallibilità, oralità e Tradizione, don Cantoni dedica due capitoli di carattere storico-dogmatico all’origine del magistero — capitolo VI, Il magistero: storia e problematica (pp. 123-160) —, e, in particolare, a Il magistero «ordinario» (capitolo VII, pp. 161-182).

Originariamente Dio si manifesta all’uomo in due modi: attraverso la rivelazione sopran­naturale e attraverso la rivelazione naturale. Si può perciò parlare di un magistero originario «[…] della Parola fatta carne che si fa conoscere originariamente attraverso la parola» (p. 128), cioè attraverso la rivelazione soprannaturale, e di un «[…] magistero della Creazione, che si fa conoscere originariamente attraverso la realtà e attraverso la parola che brilla nella mente dell’uo­mo come concetto» (ibidem), cioè come rivelazione naturale. Nella rivelazione naturale il punto di partenza della conoscenza è la realtà del mondo: «la realtà si fa parola umana attraverso l’ascolto e la ricerca dell’uomo» (ibidem); nella rivelazione soprannaturale, invece, è «la parola ad essere originaria» (ibidem), essa si manifesta agli uomini come «Parola che fonda l’annuncio e richiede l’annuncio» (p. 128).

L’annuncio della parola «[…] è condizione fondamentale perché ci sia la fede» (p. 138), infatti solo attraverso la predicazione capace di generare la fede l’uomo conosce la verità che salva. È la natura stessa della fede, perciò, a richiedere il magistero, come istanza autentica di trasmissione della verità, che si comunica attraverso la parola «viva».

In tempi recenti si è affermata la distinzione fra esercizio ordinario e straordinario del Magistero. Si tratta di una terminologia che si riferisce all’estensione del campo del­le cose obbligatorie da credere. Essa prende piede in seguito alla crisi della fede che, ini­ziata con il declino del Medioevo, e passando attraverso Umanesimo, Rinascimento e Illuminismo, «[…] aveva portato l’uomo a vedere nella proposizione di fede […] un legame e un impedimento della libertà» (p. 139). Si fa strada così fra i teologi la tendenza a «[…] restringere il campo dell’obbligatorio (e del certo) per lasciare maggiore spazio al­l’opinabile» (ibidem). In questa prospettiva le cose da credere vengono ridotte ai dogmi di fede, i quali, a loro volta, vengono ricondotti alle «definizioni» del Magistero. In questo contesto matura la lettera Tuas libenter, del 21 dicembre 1863, in cui il beato Pio IX (1846-1878) utilizza per la prima volta l’espressione «magistero ordinario», sostenendo che l’ossequio della fede deve essere prestato non solo ai dogmi espressamente definiti dalla Chiesa, ma anche «[…] a quelle cose che vengono insegnate dal magistero ordinario di tutta la Chiesa dispersa per il mondo come divinamente rivelate e perciò vengono ritenute come di fede» (cit. a p. 156). Dunque per la Tuas libenter non vi è una separazione netta tra il Magistero straordinario e quello ordinario: «[…] la fede della Chiesa e la sua trasmissione non sono un fatto straordinario ma sono un momento, e un momento fondamentale, della sua vita stessa. Ecco allora che le cose da credersi, a cui aderire con atto di fede divina, non si colgono soltanto in quei momenti particolari, ma nel corso della vita ordinaria della Chiesa» (p. 158).

Il magistero ordinario «ha preceduto quello straordinario» (p. 169), proponendoci a cre­dere quanto contenuto nella Scrittura e quanto contenuto nella Tradizione. Que­st’ul­ti­ma, intesa in senso largo, coincide, secondo il teologo gesuita Joseph Kleutgen (1811-1883), con «quell’insegnamento orale, quell’apostola­to, attraverso il quale è stata fondata la Chiesa e che, infallibile per l’assistenza dello Spirito Santo, continua in essa, credendo che la Sacra Scrittura è parola di Dio, conservandola senza falsificazioni, spiegandola e completandola» (cit. a p. 170).

In conclusione, il rapporto fra Magistero ordinario e straordinario viene ricondotto dal­l’autore alla differenza esistente fra giudizio e insegnamento: il giudizio, proprio del Magistero straordinario, è «[…] un atto unico che attinge valore dogmatico in quanto esercizio di un potere supremo» (p. 182); esso crea l’obbligo «giuridico» di aderire o rifiutare un preciso punto di dottrina; l’insegnamento, proprio del Magistero ordinario, è invece caratterizzato da «un insieme di atti che prendono valore […] in funzione del fatto che le diverse voci convengono in un’unica voce» (ibidem); esso si propone di far conoscere in modo esteso i contenuti della fede e di orientare la comprensione dei fe­deli. Sia il giudizio che l’insegnamento «[…] rientrano nella più vasta “propositio Ecclesiae” che è la condizione indispensabile quoad nos perché una verità oggettivamente rivelata diventi un dogma di fede» (ibidem)

Con il progressivo affermarsi della riflessione sul Magistero ordinario, a partire da Papa Benedetto XIV (1740-1758), s’inaugura nella Chiesa il nuovo stile espositivo del­l’en­ciclica — presa in esame nel capitolo VIII, Le encicliche (pp. 183-218) —, che diventa ben presto la forma principale del Magistero ordinario dei Pontefici. Esse fin dal­l’inizio sono considerate «come regola di fede» (p. 192) e come forma normale dell’in­fallibilità ecclesiastica (cfr. p. 205, nota 32) che si realizza «nel modo molteplice della realtà viva, specialmente nella doppia forma dell’ascoltare e dell’insegnare» (p. 205). Anche per le encicliche si ripropone la questione dell’infallibilità del contenuto e anche a esse si applica la differenza già considerata fra giudizio e insegnamento. Mentre «il giudizio si esprime interamente in una affermazione categorica, in un atto preciso in cui il giudice della fede impegna la sua autorità per imporre una dottrina all’adesione dei cattolici o per escluderla» (p. 206), «l’insegnamento non ha come fine di decidere, ma di far conoscere. Non mette termine a una divergenza, ma salva dall’ignoranza o dalla dimenticanza. […] Il giudizio crea un obbligo giuridico su un punto di dottrina. Tutti devono convergere su questo punto e in questo modo si crea l’unità. Ma l’unità può essere creata anche orientando lo sviluppo in un’unica direzione attraverso un insegnamento complesso e diffuso» (ibidem). In conclusione, se l’infallibilità s’impone per garantire l’unità della fede, questa garanzia viene attuata dal Magistero secondo modi diversi e «[…] l’infallibilità avrà un’at­tuazione differenziata secondo il modo di proposizione e nei limiti richiesti dall’unità della regola di fede» (p. 207). Nell’insegnamento ordinario, dove giocano molti elementi e la forma espositiva non è sintetica, occorrerà «[…] discernere ciò che è accessorio da ciò che è principale. Gli argomenti dimostrativi, le descrizioni, ecc. non rientrano nella proposizione-professione di fede […]. 

«I singoli atti possono essere elementi congetturali, umani […]. Elementi caduchi che, infatti, cadono» (p. 210).

Come si è detto, il Magistero ordinario ha anche l’importante funzione di orientare lo sviluppo della regola della fede. Tale sviluppo, inteso come crescita, è la caratteristica pro­pria di ogni realtà vivente; se esso implica l’idea del cambiamento; non si tratterà, tuttavia, di un cambiamento qualsiasi, bensì solo di quello che costituisce uno sviluppo e una crescita della comprensione della dottrina, assicurandone la continuità grazie alla permanenza dei medesimi principi.

La riflessione sulla nozione di sviluppo come chiave di comprensione della vita della Chiesa nel suo dispiegarsi storico introduce l’analisi del concetto de La «Tradizione vivente» (capitolo IX, pp. 219-239). Il Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 113, invita a leggere la Scrittura «nella “Tradizione vivente di tutta la Chiesa”. 

«Secondo un detto dei Padri […] la Sacra Scrittura è scritta nel cuore della Chiesa prima che su strumenti materiali. Infatti, la Chiesa porta nella sua Tradizione la memoria viva della Parola di Dio ed è lo Spirito Santo che le dona l’interpretazione di essa secondo il senso spirituale» (cit. a p. 221). L’autore esamina minuziosamente il dibattito teologico, relativo alla nozione di tradizione vivente, che si sviluppa nel contesto della polemica giansenistica, avviata in seguito della condanna di Papa Innocenzo X (1644-1655) con la bolla Cum occasione, del 9 giugno 1653, di cinque proposizioni contenute nell’opera Augustinus del vescovo Cornelius Otto Jansen (1585-1638): «Il metodo teologico del giansenismo consisteva appunto nel contrapporre al magistero del Papa l’insegnamento scritto di un grande padre della Chiesa, sant’Agostino di Ippona, cioè quella che loro consideravano la “Tradizione”. A questo metodo un ignoto gesuita contrapponeva una concezione diversa di Tradizione, quella che lui designa con le parole “Tradition vivante”. I pastori della Chiesa hanno il diritto e il dovere di andare al di là della lettera di qualche documento del passato per coglierne in esso la sostanza in modo vivo e persuasivo. Il termine, ma soprattutto la dottrina ad esso soggiacente, fu raccolto da Fénelon [pseudonimo di mons. François de Salignac de La Mothe-Fénelon (1651-1715)]. Da Fénelon lo eredita un grande teologo tedesco: Johann Adam Möhler [1796-1838]. Da Möhler lo raccoglie con entusiasmo il padre Perrone [Giovanni S.J., 1794-1876], il teologo personale del beato Pio IX e attraverso Perrone di­venta uno dei punti caratterizzanti la Scuola Romana. Il suo esponente principale Johannes Baptist Franzelin [1816-1886] ci lascia così, nel suo fondamentale Tractatus de divina Traditione et Scriptura (1882), questa affermazione: “Il libro […] autentico scritto dallo stesso Gesù erano gli Apostoli; scritto non con inchiostro ma mediante lo Spirito Santo, ai quali, dotati di autorità e potere per la grazia dello Spirito Santo, sottomise tutti gli altri fedeli perché fossero istruiti, governati e santificati. La prima origine dunque, e il primo grado della dottrina e disciplina cristiana susseguenti con perpetua successione è lo stesso Dio fatto uomo, mediante la parola della predicazione e il magistero personale vivente”».

L’aggettivo «vivente» non deve perciò essere ridotto alla semplice contrapposizione fra scritto e non scritto, ma essere riferito al fatto di avvenire grazie a soggetti viventi.

Il magistero ordinario come modo di trasmissione della «tradizione vivente» pone il problema del rapporto fra questa specifica modalità d’insegnamento e la verità: si può dare l’ipotesi dell’assenza della verità nell’insegnamento dell’autorità legittima e, in particolare, della suprema autorità ecclesiastica? La variazione del Magistero ordinario, legata alla necessità di rendere accessibile la Parola eterna e immutabile di Dio nelle mutevoli situazioni storiche, può essere interpretata come «cedimento» dottrinale? La questione è affrontata nel capitolo X, L’incidente di Antiochia. «Mi opposi a lui a viso aperto, perché aveva torto» (pp. 241-266) attraverso l’analisi di quello che l’autore considera «il modello archetipico» (p. 241) di uno scontro «aperto e franco […] che vede contrapporsi due colonne della Tradizione, gli apostoli Pietro e Paolo» (ibidem).

Il testo biblico fondamentale evocato direttamente o indirettamente da tutti i grandi teologi del passato, che affrontano il tema della resistenza e del dissenso all’autorità, è noto come «l’incidente di Antiochia», descritto nella Lettera ai Galati: in seguito all’ar­rivo di alcuni cristiani convertiti dall’ebraismo, Pietro aveva smesso di condividere la mensa con i cristiani convertiti dal paganesimo, dato che questi ultimi non seguivano le prescrizioni della legge ebraica; il suo esempio aveva indotto anche altri ad imitarlo, cosicché Paolo affronta Pietro a viso aperto «perché aveva torto» (Gal. 2,13), rimproverando la sua ipocrisia. L’esegesi cattolica del passo è concorde nel ritenere che l’errore di Pietro, se errore vi fu, non riguardava la fede, ma il comportamento. Secondo Lutero, invece, Pietro sarebbe stato colpevole di un peccato contro la verità rivelata nel Vangelo; l’incidente costituirebbe la prova del fatto che il Papa può sbagliare in materia di fede, e, di conseguenza, il fondamento della liceità di rifiutare il suo insegnamento.

Per uscire dalle difficoltà di un’interpretazione solo testuale, don Pietro Cantoni suggerisce di collocare l’episodio nella prospettiva più ampia dell’Incarnazione: quando il Verbo si è fatto carne ha assunto in sé il tempo e lo spazio, e da quel momento la Chiesa, suo corpo, si estende di diritto a ogni tempo, ogni luogo, ogni uomo. Da questa decisione irrevocabile di Dio discende la stessa autorità del Papa e dei vescovi in comunione con lui, che agiscono al posto di Cristo: essi, svolgendo la propria missione, mostrano le decisioni stesse di Dio.

L’autore non esplicita le conseguenze che logicamente si possono trarre dall’appli­cazione del principio dell’Incarnazione, ma esse traspaiono nella Conclusione (pp. 267-279): se è utile distinguere «una infallibilità e irreformabilità in senso proprio che riguarda solo gli insegnamenti del magistero definitorio, da una inerranza che connota invece gli insegnamenti del magistero ordinario e universale anche quando non sono di per sé definitivi. […] quello che mai e poi mai si può dare, a livello di magistero ordinario universale, anche quando in forma “soltanto autentica”, è l’errore nella fede, o l’er­rore tale da indurre di suo l’allontanamento dalla fede” (p. 267). Perciò, se è lecito porre domande e discutere, con lealtà e prudenza, cioè in modo da non ferire l’unità ed essere motivo di divisione, comportamenti stili e strategie dei detentori del Magistero ordinario, il rifiuto del loro insegnamento dottrinale non è mai lecito: «l’unica possi­bi­li­tà di rifiuto è quella dell’eresia, perché in questo caso chi parla non rappre­senta la Chiesa» (p. 278). 

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