Rino Cammilleri, Cristianità n. 71 (1981)
L’autorevole critica del liberalismo fatta da un ex liberale del secolo scorso, convertitosi al cattolicesimo e divenuto uno dei più grandi pensatori contro-rivoluzionari. Juan Donoso Cortés descrive il passaggio dalla civiltà cristiana al deismo e quindi all’ateismo, provocato dalla diffusione della “forma mentis” liberale: discussione, incertezza, razionalismo. La critica al parlamentarismo, salutata come conquista di libertà dai liberali e, al contrario, fonte di malessetica al parlamentarismo, salutato come conquista di Stato. Il “moderato” come tipica figura rivoluzionaria dedita a interminabili discussioni e alla ricerca del proprio egoistico tornaconto. Di fronte a una sempre maggiore diffusione dei sostenitori dell’incontro tra liberalismo e cattolicesimo, Donoso Cortés nega l’esistenza di ogni possibile fondamento a tale artificioso connubio, ponendo questi due termini come poli antitetici e mostrando le antinomie e le contraddizioni di una loro coesistenza forzata. Il cattolico-liberale, dialogante abitualmente coi nemici della Chiesa, descritto quale sostenitore di idee e principi diametralmente opposti a quelli cattolici, che lo collocano in una posizione “insostenibile e assurda“. Uno dei tanti contributi del secolo scorso al pensiero cattolico contro-rivoluzionario e soprattutto alla esatta comprensione delle origini e dello spirito del “mondo moderno”.
“La mia conversione ai buoni principi devesi anzitutto alla divina misericordia, poscia al profondo studio delle rivoluzioni” (1). Così scriveva il 26 maggio 1849 Juan Donoso Cortés (2) a Montalembert.
Il problema della prima parte della sua vita era stato quello di dare una base dottrinale al liberalismo spagnolo, ma nello studiare un modo per debellare la parte radicale della Rivoluzione, non tardava ad accorgersi che la svolta fondamentale nella storia portava la data della Riforma protestante e che solo una “società cristiana, qualunque sia la forma del suo governo, non è né idolatra della libertà fino a confonderla con la licenza, né dell’autorità pubblica fino a confonderla con lo Stato” (3). La lettura di de Bonald e di de Maistre avrebbe fatto il resto. Donoso si rendeva così conto, e fu questo il punto di partenza della sua analisi, che gli errori politici e sociali del suo tempo scaturivano da corrispondenti errori teologici.
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La civiltà, afferma Donoso, ha due fasi: una affermativa e una negativa. Alla prima corrisponde la verità cattolica: esiste un Dio che regna e governa le cose divine e umane, cui corrisponde, nella società, un re che regna e governa. Alla seconda fase fa riscontro la negazione deista: esiste un Dio che regna, ma non governa. Da qui la monarchia costituzionale, in cui il re regna ma non governa.
La negazione deista porta immediatamente con sé quella panteista: dire che Dio regna ma non governa è un non senso; Dio, in realtà, non è persona, ma tutto ciò che vive. Dio è l’umanità. Quindi repubblica rivoluzionaria e suffragio universale.
Da ultimo viene l’ateismo che batte in logica le precedenti negazioni: Dio non esiste, né deve esistere, quindi, alcuna forma di governo. Sarà tutt’al più accettata una certa organizzazione per la produzione e la divisione del benessere.
Il primo potente colpo d’ariete alla civiltà cattolica è stato dato da Lutero con la dottrina della predestinazione: negando la possibilità per l’uomo di operare il bene, se ne nega implicitamente la libertà e si spiana la strada all’assolutismo. La società medioevale aveva tratto spunto dalla Creazione, una e varia come Dio, per darsi un ordine in cui l’unità si manifestava nel potere e la varietà nelle gerarchie. L’assolutismo, distruggendo i corpi intermedi e le resistenze naturali al potere, ha preparato il terreno alla Rivoluzione francese e alla tirannia di pochi “illuminati”.
Costoro, per bocca di Rousseau, hanno “affrancato” l’umanità dalla “superstizione”, facendola piombare nell’errore opposto: l’uomo è buono per natura e non può fare il male; l’umano intendimento è sano, non leso dal peccato originale, quindi può vedere, scoprire o inventare la verità. Essendo sana anche la volontà, essa opera il bene naturalmente. Occorre quindi rimuovere gli impedimenti al libero sviluppo delle sue potenzialità. Da qui il razionalismo e il liberalismo. Loro armi: parlamentarismo e discussione.
“Il razionalismo è una demenza monomaniaca. Coloro che soffrono questa tremenda malattia falsamente si dicono razionalisti, come quei sventurati che vedendosi nei palazzi innalzati a loro vantaggio dalla carità cristiana, e detti manicomii, falsamente si dicono imperatori. Gli uni si appellano creatori, perché sono nella creazione, come gli altri si gridano imperatori perché abitano in un palazzo.
“La somiglianza che esiste fra i razionalisti e i pazzi si può dire identica, se si osserva che gli uni come gli altri gridano avere la sovranità di quella ragione che entrambi hanno perduto. […] Io non so se i miei lettori hanno osservato come tutti i pazzi sono razionalisti. Tale osservazione è tanto certa, che i pazzi nell’istante medesimo in cui cominciano a dubitare di ciò che dicono e a porre in forse l’infallibilità della ragione, vale a dire da che cominciano a cessare d’essere razionalisti, già possono uscire dal manicomio, perché sono convalescenti o sani” (4).
Scartato il soprannaturale, ci si volge al materiale. Ecco spuntare i grandi sistemi utilitaristici, la febbre dell’industria, l’arroganza dei ricchi e la rivolta degli sfruttati. Il corpo sociale, privo del soffio vitale del cattolicesimo, cerca di mantenersi in vita artificialmente mediante l’equilibrio dei pubblici poteri, caricandosi delle spese enormi che i governi costituzionali richiedono.
Il parlamentarismo divide il potere mettendone le porzioni in concorrenza; ne nega la perpetuità, ponendogli a fondamento un contratto (infatti il contratto è, per definizione, risolubile in qualsiasi momento); ne nega le limitazioni, infine, spazzando via le gerarchie e centralizzando tutte le incombenze. Tra potere e popolo resta solo il corpo elettorale, aggregato, livellato e confuso, che si compone e si disfa a segnale convenuto.
Il dispotismo insito nel sistema costituzionale si rivela poi appieno se si considera attentamente il suo perno, il principio della responsabilità ministeriale. Se i ministri sono responsabili di tutto, osserva Donoso, devono per forza essere investiti di ogni potere, primo fra i quali la nomina dei pubblici impiegati. Da qui l’estrema corruzione di questi sistemi.
“È scritto che ogni impero diviso deve perire. Il parlamentarismo che divide e conturba gli animi, che disperde tutte le gerarchie, che divide il Potere in tre poteri, la società in cento partiti, che rappresenta la divisione in tutte le sue parti, […] mai si sottrarrà all’impero di questa legge inesorabilmente sovrana” (5).
I tribuni si arrabattano per trarre la libertà dall’uguaglianza e il governo forte dalla divisione dei poteri. E allora cominciano le grandi discussioni, pubblici dibattiti, tavole rotonde, congressi, conferenze, convegni, incontri al vertice e consultazioni della base. Vengono le crisi di governo, le divisioni in seno alle maggioranze, governi che cadono, che si riformano e ricadono. E, prima o poi, i rappresentanti del popolo, se sono così fortunati da non cadere assassinati, vengono strappati via dalla tribuna dalla mediocrità invidiosa. Il parlamentarismo “muore lasciando la società in mano della rivoluzione, o in mano della dittatura, che ne prendono l’eredità, o per la forza del diritto, o per il diritto della forza; per il diritto della forza perché sono le più forti; per la forza del diritto perché sono sue figlie” (6). Rimane un potere armato della forza sociale in presenza di individui dispersi, o una moltitudine furiosa in presenza di un potere diviso. “Dio ha sempre dato l’imperio alle razze guerriere ed ha condannato alla servitù le ciarliere” (7).
La borghesia, osserva acutamente Donoso Cortés, è la classe che discute. Essa ha fatto la rivoluzione contro i re e i poveri, reclamando per sé l’aristocrazia più odiosa: quella del denaro. “[…] senza i moderati la rivoluzione non vivrebbe in nessun posto. I moderati son stati causa dell’universal ruina e perdizione! Dio perdoni loro il male che han fatto!” (8).
Il mezzo essenziale di cui tale classe si serve per esercitare il suo dispotismo “illuminato” è la discussione. Infatti, se la ragione umana non è inferma, dai suoi progressi dipende il progresso della verità. I progressi della ragione si ottengono esercitando la stessa tramite la discussione. Da qui la libertà di stampa, di pensiero e di parola. Dov’è il trucco? Lo addita Donoso nella minuta del discorso pronunciato alle Cortes il 30 dicembre 1850, più noto come il Discorso sulla Spagna: “Al dì d’oggi, signori, uno spagnolo che non sia milionario non può scrivere un periodico né pubblicare un libro: non ha denari per il primo né leggitori per il secondo. Da ciò nasce che oggidì per manifestare pubblicamente i propri pensieri, gli spagnoli debbono trasformarli da individuali in collettivi. Solamente i partiti hanno libertà, non gli individui” (9). E aggiunge: “Or bene, signori, che cosa avviene? […] Avviene che ciascuno legge quel periodico che tiene per le opinioni di lui, cioè ogni spagnolo parla a seco medesimo […]. Volete sapere che cosa è un periodico? È la voce d’un partito che sempre grida a sé stesso: santo, santo, santo” (10).
Terrificante è la concessione di parlare al popolo fatta dalla civiltà “filosofica” a chiunque. È il tremendo ufficio che Nostro Signore diede agli Apostoli dopo avere inviato loro lo Spirito Santo. “La parola è più terribile della spada, più rapida del fulmine, più distruggitrice della guerra” (11). Il diritto di ammaestrare le genti è stato dai “sofisti” tolto alla Chiesa e consegnato a un “branco di oscuri giornalisti e ignorantissimi ciarlatani“. Il peggio, poi, è che nessuno si avvede dell’assurdità della discussione come mezzo per raggiungere la verità: se, infatti, l’umano intendimento è fallibile, ogni discussione conduce inevitabilmente all’errore: se invece è infallibile, la verità risiede già in tutti gli uomini e il discutere diventa cosa priva di senso.
In realtà il liberalismo, posto tra il cattolicesimo che lo accusa di menzogna e il socialismo che ne rigetta l’incoerenza, è costretto, per sopravvivere, a ogni sorta di compromesso e sofisma. La sua essenza è negoziare, nella speranza di convertire lo scontro finale in dibattito parlamentare o spostarlo indefinitamente per mezzo della discussione. Ma il suo destino è segnato: “Dietro i sofismi vengono le rivoluzioni, dopo i sofisti è il turno del boia” (12). Il liberalismo “si è assunto il compito di governare senza Dio e senza popolo. Impresa bizzarra e impossibile; i suoi giorni sono contati, perché da un lato dell’orizzonte si affaccia Dio e dall’altro si leva il popolo. Nessuno più lo troverà nel giorno tremendo della battaglia che opporrà le falangi del cattolicesimo a quelle del socialismo” (13).
L’incoerenza è essenziale al liberalismo: “Libertà, eguaglianza, fraternità: formula contraddittoria. Lasciate all’uomo il libero dispiegarsi della sua attività individuale, e vedrete come appunto muore l’eguaglianza per mano delle gerarchie, e la fraternità per mano della concorrenza. Proclamate l’eguaglianza e vedrete la libertà fuggire nello stesso istante e la fraternità esalare l’ultimo respiro” (14).
Ma qual’è la vera causa del male che travaglia il mondo?
Si considerino due termometri, risponde Donoso: uno segni la temperatura “politica”, l’altro quella “religiosa”.
Guardiamo i primi cristiani: essi non avevano una vera e propria organizzazione politica, ma risolvevano le loro controversie ricorrendo tutt’al più ad arbitri. Scende la temperatura “religiosa” ed ecco spuntare la monarchia medievale. Scende ancora il termometro “religioso” e sale l’altro. È il tempo dell’assolutismo. Il potere politico abbisogna di braccia al suo servizio e crea gli eserciti permanenti. Calo ulteriore della temperatura “religiosa”; il potere si munisce di orecchie: la burocrazia. Ma non basta. Gli occhi gli vengono forniti dalla polizia e la possibilità di essere contemporaneamente in ogni luogo dal telegrafo. “Il mondo cammina con passi rapidissimi alla costituzione di un dispotismo, il più gigantesco ed assoluto che sia mai esistito a memoria d’uomo” (15).
Se il mondo è stato sempre preservato dal caos e dalla schiavitù, ciò si deve all’intransigenza dottrinale della Chiesa. Grazie a essa l’uomo è passato dall’ubbidienza forzata resa al tiranno, a una ubbidienza liberamente resa al sovrano legittimo, poiché la Chiesa ha sempre insegnato che “non est potestas nisi a Deo” (16).
“Due cose sono assolutamente impossibili in una società veramente cattolica: il dispotismo e le rivoluzioni” (17). E, del resto, è la stessa struttura della Chiesa a testimoniare questo. Essa è una e varia, monarchica, aristocratica e democratica nello stesso tempo. “Qui non trattasi, come ben si vede, se debbasi supremazia al Sacerdozio o all’impero. Trattasi solamente di verificare se conviene o no alla società civile di prendere dalla Chiesa i grandi principii della sociale economia, e se alla società convenga, o no, essere cristiana” (18).
La Chiesa, invece, è sempre stata combattuta come nemica del progresso, dimenticando che suo fine non è fare gli uomini ricchi, ma santi. Purtroppo, anche parte dei suoi figli le si rivolta contro, caduti come sono nelle maglie della demagogia. Costoro si rendono conto della necessità sociale del cattolicesimo, ma ricusano il suo giogo, troppo pesante per l’orgoglio. Essi cercano invece la transazione, accettando ciò che fa più comodo e respingendo il resto. Sono tanto più pericolosi in quanto assumono un certo sembiante di imparzialità, pongono la verità sullo stesso piano dell’errore e con falsa moderazione cercano una impossibile via intermedia. Rivendicano, per esempio, la libertà d’insegnamento quale optimum per il cattolicesimo. Ciò è lecito e doveroso laddove tale libertà è negata, ma il principio in sé è inaccettabile. “Infatti, proclamare che l’insegnamento deve essere libero significa proclamare l’inesistenza di una verità già conosciuta che deve essere insegnata, che la verità non è stata ancora trovata e che la si può trovare attraverso un’ampia discussione di tutte le opinioni” (19).
Coloro poi che negano il primato di Pietro finiscono per far dipendere le sorti della Chiesa da una irrequieta aristocrazia: concesso al Papa l’onore di una vaga presidenza lo si relega in Vaticano, come il Dio deista nel Cielo. Gli innamorati della libertà individuale finiscono per cadere nel libero esame e i sedotti dall’errore panteista chiedono la sovranità, nella Chiesa, per la comunità dei fedeli, così che il Papa, da mandatario di Dio, diviene mandatario della comunità.
La posizione di questi “cattolici liberali” è la più insostenibile e assurda. Essi auspicano l’incontro tra cattolicesimo e “libertà”, come se la civiltà nata dalla Rivoluzione fosse sinonimo di libertà.
E ancora oggi, a oltre un secolo di distanza, l’esempio è sciaguratamente seguito e moltiplicato a dismisura. Oggi costoro “dialogano” addirittura, teneramente, coi nemici della Chiesa, riversando tutto il loro veleno su quelli che, per fedeltà, subiscono la sprezzante accusa di “integrismo”. A questi amanti della civiltà “moderna” oggi più di ieri si può con Donoso Cortés amaramente gridare: “Gendarmi e rivoluzioni: ecco tutto ciò che vi ha dato, tutto ciò che vi prepara l’epoca che dite vostra, e quella civiltà che ammirate” (20).
Rino Cammilleri
Note:
(1) Scritti vari di Donoso Cortés volgarizzati da G. B. M., Tipografia Filippo Cairo, Roma 1861, p. 57.
(2) Nato il 6 maggio 1809 presso Badajoz in Estremadura, durante l’invasione napoleonica fu dalla madre consacrato alla Madonna, per la quale sempre conservò tenera devozione.
Il padre, liberale e membro dell’aristocrazia terriera, avviò il giovane alla carriera giuridica a Salamanca e a Siviglia, due tra i più grossi focolai massonici dell’epoca. Giovanissimo partecipò, dalla parte dei liberal-moderati, al colpo di Stato che doveva far scoppiare la prima guerra carlista. Questo gli frutto importanti cariche nel governo.
Più volte deputato fornì la base dottrinale alla Costituzione del 1845 e divenne il braccio destro della regina Maria Cristina di Borbone. La morte del fratello Pedro, carlista, gli fornì quello spunto di meditazione che doveva portarlo in brevissimo tempo a diventare uno dei maggiori esponenti del pensiero contro-rivoluzionario.
(3) JUAN DONOSO CORTÉS, Obras Completas, a cura di C. Valverde S. J., BAC, Madrid 1970, vol. II, p. 25.
(4) Scritti vari di Donoso Cortés volgarizzati da G. B. M., cit., pp. 294-295.
(5) Ibid., p. 228.
(6) Ibid., p. 231.
(7) Ibid., p. 227.
(8) J. DONOSO CORTÉS, Obras Completas, cit., vol. II, p. 932.
(9) Scritti vari di Donoso Cortés volgarizzati da G. B. M., cit., p. 157.
(10) Ibid., p. 159.
(11) Ibid., p. 83.
(12) J. DONOSO CORTÉS, Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo, trad. it., a cura di Giovanni Allegra, Rusconi, Milano 1972, p. 51.
(13) Ibid., pp. 237-238.
(14) IDEM, Obras Completas, cit., vol. II, pp. 983-984.
(15) IDEM, Il potere cristiano, a cura di Lucrezia Cipriani Panunzio, Morcelliana, Brescia 1964, p. 49.
(16) Rom., 13, 1.
(17) J. DONOSO CORTÉS, Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo, cit., p. 70.
(18) Scritti vari di Donoso Cortés volgarizzati da G. B. M., cit., p. 209.
(19) J. DONOSO CORTÉS, Il potere cristiano, cit., p. 144.
(20) Scritti vari di Donoso Cortés, cit. p. 223.