Giovanni Cantoni, Cristianità n. 283-284 (1998)
Dopo il comunismo: il «nuovo riformismo» oltre la transizione postcomunista
1. A margine della formazione del Governo D’Alema
Gli avvenimenti che hanno accompagnato, nel mese di ottobre del 1998, la formazione del Governo D’Alema e il suo insediamento non abbisognano certo di essere ricostruiti. Infatti, sono stati proposti minuto per minuto dai mass media. Purtroppo di non altrettanta attenzione è stato oggetto un altro accadimento, evidentemente giudicato minore dalle medesime centrali massmediatiche, cioè la sostituzione al vertice dei Democratici di Sinistra dello stesso on. Massimo D’Alema con l’on. Walter Veltroni, avvenuta nel corso dell’Assemblea Congressuale il 6 novembre 1998. Né, tantomeno, è stato ritenuto degno di esame globale il discorso d’insediamento alla segreteria politica dei diessini — Una sinistra aperta e moderna, pubblicato come inserto de l’Unità il 7 novembre (1) —, tenuto nell’occasione dall’ex vice presidente del Consiglio.
2. La fine della «guerra fredda»
Intendo, per parte mia, rimediare in qualche modo a questa disattenzione, che reputo grave e fonte d’incomprensioni degli avvenimenti correnti e venturi. Dunque, la nascita del Governo D’Alema ha portato a termine una «piccola transizione», quella iniziata nella Repubblica Italiana nel 1992, con la fine del Governo Amato, eco in Italia — cioè nel paese occidentale con il maggior partito comunista — della «grande transizione» realizzatasi e/o in via di realizzazione nei paesi già parti del sistema imperiale socialcomunista, a far data, visibilmente, dal 1985 e ormai collegata emblematicamente al crollo del Muro di Berlino il 9 novembre 1989. Secondo una formula corsa dalla metà di ottobre del 1998 — «lanciata» il 16 dall’agenzia giornalistica ASCA, che l’attribuiva a un analista di Wall Street, Scott MacDonald, direttore del Sovereign Re- search di Donaldson, Lufkin & Jenrette —, la nascita del Governo D’Alema ha posto fine alla «guerra fredda», evidentemente fra le forze politico-culturali egemoni e conflittuali in Italia — quindi non obbligatoriamente di governo — dopo la caduta del regime fascista e la fine della seconda guerra mondiale (1939-1945); perciò è atto finale del processo di assestamento, in Italia, dopo la «terza guerra mondiale» (1945-1989).
Se questo è stato — più o meno felicemente — notato, non altrettanto si può dire in relazione alla mutata gestione del maggior spezzone sopravvivente del partito comunista italiano, scompostosi, dopo la svolta della Bolognina il 9 dicembre 1989, in Partito Democratico della Sinistra e in Partito della Rifondazione Comunista; quindi, da quest’ultimo, sulla base di sollecitazioni congiunturali, sono usciti prima i Comunisti Unitari, poi — nell’ottobre del 1998 — il Partito dei Comunisti Italiani. Quanto al PDS, esso si è già trasformato in Democratici di Sinistra, significativamente derubricando il sostantivo «partito», segno palese di una mutata concezione e rilevazione delle proprie realtà organizzativa e operativa, suffragata dalla segreteria politica affidata all’on. Veltroni. Il che, sia detto di passaggio, induce a leggere il successo politico dell’on. D’Alema come una vittoria sui generis, perché, se è vero che egli è giunto alla titolarità del potere appunto politico, non è meno vero che è arrivato «nudo alla meta». Infatti appaiono evidenti sia la precarietà del governo che guida, in qualche modo fondato su una forza virtuale parlamentare, neppure politica, qual è l’UDR, l’Unione Democratica per la Repubblica — quindi molto più precario del Go- verno Berlusconi, basato sulla Lega Nord, come del Governo Prodi, appoggiato sul PRC —, sia la perdita dello strumento organizzativo da parte dei «nostalgici» non del socialismo reale, ma certamente della «forma partito».
3. Il «nuovo “alfabeto” fatto di ideali e valori» del «nuovo riformismo»
Però, se pochi degli aspetti evocati sono stati richiamati sia nei giorni della crisi di governo che in quelli seguenti la sua soluzione, l’inadeguatezza interpretativa si è trasformata in nullità in relazione ai contenuti del discorso d’insediamento tenuto dall’on. Veltroni. Prova che il «crollo delle ideologie» viene erroneamente interpretato come «fine delle idee».
Per contro, l’esame di qualche passaggio del discorso veltroniano illumina non poco su quanto ci si deve attendere non solo dopo il comunismo, ma oltre la stessa transizione postcomunista. Mi limiterò a richiamare due tesi fondamentali, mostrandone le potenzialità, dal momento che «il nuovo governo […] deve essere l’ultimo della fase ormai troppo lunga della transizione italiana» (p. 9) e che «[…] si tratta di mettersi alla guida della trasformazione» (ibidem) e di «introdurre nuovi elementi di civiltà politica e un nuovo senso di appartenenza nazionale» (ibidem).
a. All’interno di «un nuovo “alfabeto” fatto di ideali e valori» (p. 18), l’on. Veltroni enuncia anzitutto, benché in modo approssimativo, il principio di solidarietà o di totalità denominandolo «principio di inclusione» (ibidem), e di esso parla come «[…] di un principio che deve essere il primo riferimento della nostra azione, del nostro impegno politico» (ibidem), «contrapposto a tutti i nuovi tipi di disuguaglianza e di esclusione sociale» (ibidem), per cui «la priorità che noi dobbiamo scegliere è quella della lotta contro ogni forma di esclusione. Di una grande lotta contro il concetto e la pratica per cui al di fuori o ai margini della società esiste chi non ha un contatto stabile con il mercato del lavoro e con il sistema formativo, che è trattato come “estraneo” per la sua razza, la sua nazionalità, la sua religione o le sue preferenze sessuali» (ibidem). Oltre l’approssimazione definitoria, i termini sono sostanzialmente chiari e permettono di cogliere la portata di una tesi del neocontrattualista americano John Rawls, che l’on. Veltroni indossa, secondo cui «[…] non è possibile che gli individui […] siano “soggetti alla lotteria della nascita”» (p. 19). Quindi, il «principio di inclusione» non tocca soltanto la condizione umana nella concretezza storica, socio-economica, della situazione di ogni singolo individuo, ma porta un giudizio sulla «lotteria della nascita». E, all’orizzonte, s’intravvedono il «mondo nuovo» descritto nella contro-utopia di Aldous Huxley (1894-1963) (2) e la manipolazione genetica, l’unico intervento radicale contro tale «lotteria». Sì che appaiono, per dire il meno, contraddittori sia il riferimento «ai rischi della manipolazione genetica» (p. 20) che l’affermazione secondo cui «l’ intervento dell’uomo sulla natura deve mantenersi entro certi limiti» (p. 21).
b. Ma quali limiti? Per coglierne l’inconsistenza radicale, cioè la loro inesistenza, vengo al secondo punto. Si tratta di «[…] un salto culturale che possiamo racchiudere nel superamento del concetto e della pratica della tolleranza a favore di quella della mescolanza» (p. 19). Ed ecco qualche precisazione: «La tolleranza, anche nel migliore dei casi, non potrà mai sradicare veramente quel meccanismo che divide una maggioranza che tollera — e lo fa sulla base di una sua idea di “normalità” del colore della pelle o di una fede religiosa — da una minoranza che è tollerata. Questo meccanismo non sarà però in grado di distruggere il germe dell’intolleranza. Forse lo potrà neutralizzare in alcuni momenti della storia, ma in altri non sarà così» (pp. 19-20).
Dunque, per evitare che «[…] la frontiera della normalità si sposti» (p. 20), con i danni che ne derivano, vanno eliminate sia la normalità sia la frontiera sulla base della constatazione che «[…] il valore della mescolanza è più alto. Non rinnega le storie di ciascuno, ma è umilmente consapevole che la storia dei nostri popoli è già stata e continua ad essere una straordinaria mescolanza di razze, etnie, popolazioni diverse» (ibidem) (3).
Ma, nonostante lo sforzo — o la pratica — di limitare la percezione del «principio di inclusione» e della contrapposizione fra tolleranza e mescolanza a tematiche socio-economiche e razziali o etniche, per cui «[…] quindi non c’ è alcuna purezza della propria pelle o dei propri tratti, o delle proprie usanze da difendere con accanimento o violenza» (ibidem), i «tratti» e le «usanze» coinvolgono palesemente anche temi morali. Per esempio, tali «tratti» e «usanze» s’affiancano all’affermazione secondo cui «[…] non si tratta più di pensare il mondo e di seguire i percorsi di liberazione femminile seguendo concetti come quelli di assimilazione o di tolleranza» (p. 19). Cioè, sono molti «i limiti da valicare per rendere effettivo il principio delle pari opportunità e per coniugarlo con il grande tema della differenza sessuale, che implica una profonda revisione del ruolo di tutti, donne e uomini, in ambiti di vita cruciali per ogni società moderna: il lavoro, l’istruzione e la famiglia» (ibidem). Infatti, assimilazione comporta identità alla quale proporsi di somigliare e tolleranza comprende sopportazione di anormalità nel riconoscimento di una norma, norma che può valer la pena di «difendere con accanimento» (p. 20), magari fino al martirio, che di tale norma dà testimonianza.
4. Contro l’espressione politica del relativismo e il totalitarismo della «democrazia senza valori»
Quindi, il «nuovo riformismo» esposto dall’on. Veltroni, cioè la prospettiva ideale nella quale intende muoversi, comporta rifiuto radicale di ogni natura, di ogni realtà e di ogni verità: coincide con il relativismo etico più radicale, costituisce la pratica politica che conclude nel totalitarismo democratico, denunciato da Papa Giovanni Paolo II come «democrazia senza valori» (4). Inoltre, l’opposizione al «nuovo riformismo» dell’on.Veltroni, all’Ulivo come «il luogo della convergenza politico-culturale di tutti i riformismi» (p. 13), non può essere condotta su terreni di lotta ampiamente abbandonati. Infatti, il segretario politico dei diessini sostiene che «la vecchia sinistra tendeva a rendere ipertrofico il ruolo dello Stato […]. Il nuovo riformismo non crede che l’espansione della spesa pubblica sia la panacea per ogni male» (pp. 6-7); «la vecchia sinistra sosteneva la proprietà pubblica […]. Il nuovo riformismo persegue una “nuova economia mista” e sostiene l’intervento dello Stato non tanto come proprietario diretto di attività economiche, quanto come arbitro della concorrenza, efficiente regolatore dell’ambiente di mercato» (p. 7); «la vecchia sinistra guardava al welfare come strumento di redistribuzione del reddito […]. Il nuovo riformismo vede il welfare come strumento di solidarietà» (ibidem); «la vecchia sinistra concepiva il sindacato come uno strumento politico, e il conflitto sociale come un’ arma. […] Il nuovo riformismo vede nei sindacati dei lavoratori un’essenziale elemento di democrazia e di organizzazione sociale» (ibidem), e così via. E se l’on. Veltroni paga il tributo alla modernizzazione e alla globalizzazione — «diverse e più complesse sono le dimensioni della flessibilità necessarie per riportare in equilibrio il mercato del lavoro europeo: penso alla flessibilità interna alle imprese e alle amministrazioni pubbliche e a quella connessa ai percorsi di apprendimento e di formazione continua dei lavoratori» (p. 5), sì che «siamo chiamati a fare nel corso della nostra vita più lavori, e non ad arroccarci nella difesa del posto fisso» (ibidem), una prospettiva che «[…] deve far dimenticare vecchie abitudini e regole di fatto per cui è più facile che ad accedere a una determinata professione sia il figlio di chi già la esercita o l’ha esercitata» (p. 20) — propone pure — risibilmente dopo le premesse — la riconquista «[…] del nostro tempo, uno dei beni più preziosi che la modernizzazione ha divorato» (p. 22).
Quindi, l’opposizione al «nuovo riformismo» sta anzitutto e soprattutto nel contrastare quella che l’on. Veltroni chiama «una società più colta» (ibidem), «capace di coltivare il dubbio» (ibidem), nella quale niente è dato, tutto è negoziato e negoziabile; uno solo il pericolo pubblico: chi crede in qualche cosa, magari fino a dar la vita per essa.
Giovanni Cantoni
Note:
(1) Cfr. WALTER VELTRONI, Una sinistra aperta e moderna. Platea congressuale dei Democratici di Sinistra. Fiera di Roma — 6 novembre 1998, inserto l’Unità Documenti, in l’Unità. Giornale fondato da Antonio Gramsci. Quotidiano di politica, economia e cultura, anno 75, n. 260, Roma 7-11-1998, pp. 1- 25; tutte le citazioni senza riferimento sono tratte da questo intervento e la paginazione relativa è indicata fra parentesi nel testo.
(2) Cfr. ALDOUS HUXLEY, Il mondo nuovo, 1932, in IDEM, Il mondo nuovo. Ritorno al mondo nuovo, trad. it., Mondadori, Milano, pp. 1-231.
(3) L’«umiltà» evocata mi pare palesemente «virtù» sorella della «falsa modestia», per cui «[…] ci si accontenta di verità parziali e provvisorie, senza più tentare di porre domande radicali sul senso e sul fondamento ultimo della vita umana personale e sociale», denunciata da Papa Giovanni Paolo II nella Lettera enciclica circa i rapporti tra fede e ragione «Fides et ratio», del 14-9-1998, n. 5.
(4) Cfr. riassuntivamente il mio La democrazia nell’enciclica «sociale» «Evangelium vitae», in Cristianità, anno XXIII, n. 241- 242, maggio-giugno 1995, pp. 3-8.