Marco Invernizzi, Cristianità n. 292-293 (1999)
I 79 giorni della guerra in Kosovo — un conflitto, come il precedente in Bosnia, av- venuto in un clima ideologico oscillante fra omologazione ed esasperazione identitaria — analizzati anche sulla base di una significativa testimonianza diretta in territorio kosovaro. I principali problemi della ricostruzione, fra il rischio di una totale evacuazione dei serbi e gl’interrogativi sul futuro dell’UÇK. Le difficoltà dell’opposizione serba al regime nazionalcomunista, che ostacola ogni soluzione non effimera della questione balcanica.
Dopo la fine del conflitto in Kosovo
1. Fra omologazione ed esasperazione identitaria
Nel mondo contemporaneo si oscilla fra l’annientamento culturale di ogni identità, l’omologazione, frutto del relativismo dominante come «pensiero debole», e l’esasperazione identitaria, che vede un nemico da sottomettere o da eliminare in ogni «diverso», per religione, per cultura o per razza. Se la prima ideologia può avere come conseguenza politica una sorta di repubblica universale composta da uomini privati di ogni legame familiare, nazionale e religioso, la seconda tende all’edificazione di Stati etnici, che sostituiscono gli Stati nazionali mettendo alla base dell’appartenenza civile l’etnia invece della nazionalità.
Anche la guerra nel Kosovo (1), come le precedenti in Croazia dal 1991 al 1992 e in Bosnia dal 1992 al 1995, conferma a grandi linee questo quadro di fondo.
Non mi pare però condivisibile l’opinione di molti analisti e politologi, secondo cui i tre momenti della guerra nella ex Jugoslavia sarebbero il frutto di uno scontro fra i difensori della civiltà occidentale moderna — che vorrebbe difendere il tipo di convivenza fra diverse comunità in atto in Bosnia-Erzegovina e, in particolare, a Sarajevo — e una prospettiva caratterizzata dal nazionalismo etnico come quella praticata dallo Stato serbo presieduto da Slobodan Miloševič. Non la condivido perché mi pare semplicistico identificare il modello di convivenza fra religioni, culture ed etnie diverse con la moderna civiltà occidentale nata dai princìpi della Rivoluzione francese. Si tratta di una prospettiva che confonde la convivenza fra esperienze culturali diverse — nel rispetto da parte di tutte le comunità del diritto naturale come base della convivenza stessa, che è stata la consuetudine dei sistemi imperiali in Occidente — con l’indifferenza verso la verità, e quindi con un uso selettivo del diritto naturale — testimoniato dalla sistematica violazione del diritto alla vita dal concepimento alla morte naturale praticata dalla legislazione dei paesi occidentali —, che è invece all’origine della cultura dominante oggi nello stesso mondo occidentale. Si potrebbe invece sostenere che le guerre nei Balcani hanno riproposto l’interrogativo se l’amore per la verità e per la propria identità etnica, nazionale e religiosa, possa e debba essere motivo di confronto quotidiano con le altre comunità, oppure debba diventare motivo di conflitti sanabili soltanto con la guerra e la separazione. In altri termini: se i valori della libertà religiosa e dell’identità di un popolo debbano necessariamente produrre soltanto indifferenza, come nell’attuale cultura occidentale dominante, oppure lo scontro fra diverse concezioni della vita, e non possano invece sfociare nella ricerca della verità e nel confronto fra realtà diverse, sotto l’autorità di uno Stato — o di un protettorato internazionale nel caso balcanico —, che garantisca la convivenza per tutte le comunità che s’impegnino a rispettare il diritto naturale, o come più comunemente si dice, i «diritti umani».
2. I 79 giorni di guerra in Kosovo
Iniziata il 25 marzo 1999, la campagna aerea promossa dalla NATO, la North Atlantic Treaty Organization, l’Organizzazione del Patto del Nord Atlantico, contro la Repubblica di Serbia termina con la sospensione definitiva dei bombardamenti stabilita dal segretario generale della stessa organizzazione, Javier Solana, il 21 giugno 1999. Essa ha raggiunto l’obiettivo di costringere il governo serbo a ordinare al suo esercito — 45.000 soldati — e alle diverse milizie — specialmente quelle dipendenti dal MUP, il ministero dell’Interno, indicate in modo particolare come responsabili del tentato genocidio della popolazione di etnia albanese — di abbandonare il Kosovo, permettendo così il rientro dei profughi albanesi e garantendo al Kosovo, grazie a un protettorato internazionale che prevede la presenza di una forza multinazionale sul territorio, il raggiungimento dell’autonomia nell’ambito di una soluzione politica da precisare entro tre anni.
Il conflitto si conclude senza l’intervento di truppe di terra della NATO, come invece ritenuto indispensabile da molti esperti militari, grazie all’ impiego di oltre mille aerei, di cui 770 dell’aviazione statunitense, e con un costo per gli USA di quattro miliardi di dollari. Sulle caratteristiche della pulizia etnica attuata dalle truppe serbe nei mesi precedenti e durante la guerra si è scritto e soprattutto si è potuto vedere molto in televisione, ma sono i numeri che devono far riflettere: 580.000 sfollati interni, 840.000 profughi accolti nei paesi dell’area balcanica e 72.000 in altri paesi (2), su una popolazione di quasi due milioni di abitanti; un milione e 650 mila secondo il censimento del 1991, ma con un ritmo di crescita impressionante, se si pensa che il 52% della popolazione kosovara ha meno di 19 anni. Inoltre, secondo il plenipotenziario dell’ONU in Kosovo, Bernard Kouchner, il costo umano della pulizia etnica sarebbe approssimativamente di 11.000 albanesi uccisi.
3. I problemi della ricostruzione
Conclusa la guerra, si pone il problema di realizzare la ricostruzione della convivenza in Kosovo fra la minoranza serba e la maggioranza albanese, creando le condizioni per impedire un controesodo dei primi e garantendo i secondi dal riproporsi delle intollerabili condizioni di emarginazione che hanno originato l’intervento della NATO.
Secondo don Lush Gjergji — un sacerdote cattolico albanese del Kosovo, parroco di Binca, un paese ai confini con la Macedonia, presidente dell’associazione umanitaria Madre Teresa, con la quale ha contribuito ad alleviare l’indigenza dei kosovari durante gli anni successivi all’annullamento di ogni autonomia da parte del governo di Miloševič, dopo il 1989 — le condizioni minime per avviare la ricostruzione del paese sono: «1. La demilitarizzazione totale dell’UÇK, ma anche dei serbi del Kosovo, che hanno ancora depositi di armi all’interno del paese; 2. la costituzione di un protettorato internazionale che non agisca soltanto sul piano militare, ma anche a livello civile, cosa che ancora non si vede; 3. la costituzione di tribunali internazionali, quindi composti non da serbi né da albanesi; 4. un progetto che preveda la costituzione di uno Stato kosovaro che non ricalchi il modello dello Stato nazionale (una nazione, uno Stato) ma che sia pluralistico, cioè aperto alla convivenza fra le diverse religioni, culture ed etnie» (3).
4. Il precedente bosniaco
Si ripropone in Kosovo quanto si è verificato al termine della guerra in Bosnia con gli accordi di Dayton del 24 novembre 1995, che sancivano la fine del conflitto e la possibilità del ritorno a casa di tutti i profughi. In realtà, su due milioni e centomila profughi delle diverse etnie della Bosnia — vi sono fonti che arrivano a ipotizzarne tre milioni —, sembra siano rientrati nelle loro case soltanto in duecentomila. Così il pericolo della costituzione di Stati etnici diventa reale, nei fatti almeno, come soluzione più comoda soprattutto per le forze internazionali che dovrebbero garantire la tregua militare sul territorio. A questo proposito il presidente della Repubblica Ceca Vaclav Havel ha detto: «[I negoziatori di Dayton] accettando un’interpretazione etnica del conflitto e proponendo un regolamento etnico che consisteva nel dividere equamente — etnicamente — il territorio, si sono ingenuamente resi garanti dell’ideologia mostruosa dei suoi istigatori. Hanno abbandonato i valori di una civiltà che erano stati chiamati a difendere. Non hanno capito il senso nascosto di questa guerra.
«La nozione di Stato tribale e di vendetta sanguinaria trascina i popoli in una sfera infernale. Ciò che sta accadendo in Bosnia è un test per tutta l’Europa. Le frontiere geografiche tra i popoli diventano meno importanti delle frontiere mentali e morali tra coloro che hanno iniziato la pulizia etnica, lo stupro organizzato delle donne di un altro popolo, i genocidi e gli attacchi terroristici contro i civili, e coloro che desiderano vivere in pace e comportarsi come esseri umani. La soluzione non consiste nel prendere posizione a favore di un popolo contro un altro, ma nell’opporsi con forza a tutti coloro che coltivano l’odio nell’anima degli uomini e nel sostenere con altrettanta forza coloro che cercano di spezzare questo circolo vizioso e di restaurare il rispetto reciproco e la collaborazione. Se l’idea di una coesistenza pacifica perde la partita in Bosnia, la perderà in tutta l’ Europa» (4). Non è certamente facile ipotizzare una soluzione istituzionale al dramma provocato dalle tre guerre combattute nella penisola balcanica negli anni 1990, ma si possono indicare alcuni pericoli latenti.
Anzitutto va evitata la comoda soluzione, per le forze internazionali, degli Stati etnici — «Forte è la tentazione di adottare le soluzioni più facili e semplici, soprattutto quella di una divisione del Kosovo, accettando l’omogeneizzazione etnica e l’unione all’Albania del settore albanese. Così facendo, si renderanno inevitabili nuovi conflitti anche a breve termine. Gli accordi di Dayton non potranno reggere. Si dovrà accettare che la Republika Srpska [la repubblica dei serbi di Bosnia, ndr] si unisca a Belgrado, l’Erzegovina alla Croazia e che i musulmani bosniaci vengano concentrati in una specie di Bantustan assistito e protetto a tempo indeterminato dalla comunità internazionale» (5). L’alternativa non può consistere nella riproposizione della Jugoslavia socialista di Tito (Josip Broz, 1892-1980), neppure nella versione federalista della Costituzione del 1974, ma nella faticosa preparazione di tutti i popoli balcanici e delle rispettive classi dirigenti all’accettazione di una o due confederazioni fra Stati indipendenti che valorizzino le specificità dei singoli popoli e quanto hanno in comune, ricordando, per inciso, che nei giorni in cui veniva sancita la «dissociazione» della Croazia dalla Jugoslavia, nel giugno del 1991, il futuro presidente croato Franjo Tudjman (6) si dichiarava disponibile a valutare la possibilità di una Confederazione con gli altri paesi della Jugoslavia, e forse quella dichiarazione non era soltanto «propagandistica» (7).
5. Guerra e religioni
Spesso, da intellettuali e giornalisti autorevoli, la guerra in Kosovo, come del resto anche le due precedenti, è stata descritta come una guerra nella quale la religione ha svolto un ruolo molto importante. Così, i mezzi di comunicazione hanno ricordato il richiamo da parte dei serbi alla battaglia del 28 giugno 1389 di Kosovo Polje o Campo dei Merli, come momento epico della storia serba, che indica nel Kosovo la culla della civiltà di questo popolo. Secondo la tradizione insegnata a tutti i bambini serbi, re Lazar Hrebeljanovič (1329- 1389), in seguito a una visione divina, avrebbe scelto il regno celeste in cambio della vittoria terrena contro l’esercito islamico, e così il 28 giugno, detto Vidovdan, il giorno di san Vito secondo il calendario ortodosso, è diventato la festa nazionale dei serbi. Essi celebrano una sconfitta, attraverso la quale avrebbero però espresso la loro imitazione di Cristo crocifisso. «In Kosovo lo spirito del 1389, politi- camente interpretato, ha portato alla repressione del movimento na- zionale albanese. In realtà la battaglia del Campo dei Merli aveva visto schierati accanto ai serbi numerosi albanesi, all’epoca ancora cristiani, contro i turchi musulmani. Prìncipi albanesi erano alleati con prìncipi serbi: il fatto non stupisce se solo si pensa all’accanita resistenza antiturca di Skanderbeg, l’“athleta Christi” albanese, nel secolo successivo.
«Si deve anche ricordare, dal momento che i serbi non si accontentano del mito ma affermano la fondatezza storica di uno scontro esclusivamente serbo-turco, come sul Campo dei Merli, nel 1389, vi fossero anche militi serbi schierati a fianco degli ottomani, poiché esistevano vassalli serbi del sultano» (8).
Ora, quello che vale per il conflitto in Kosovo vale anche per la guerra in Bosnia: il popolo serbo ha una splendida tradizione e tutti i popoli cristiani d’Europa devono essergli grati per aver resistito all’egemonia turca, per secoli, ma a maggior ragione bisogna ricordare che la Croazia, definita da Papa Leone X (1513-1521), nel 1519,«antemurale della Cristianità» (9), non soltanto ha resistito, ma ha anche difeso la Cristianità occidentale dall’aggressione ottomana. Tutto questo però non ha nulla a che vedere con l’odioso nazionalismo del governo di Belgrado. Ha scritto l’arcivescovo di Sarajevo, S. Em. il card. Vinko Puljič: «L’inizio della guerra è ateo… Secondo una statistica ufficiale in Bosnia-Erzegovina solo il 10% dei serbi era battezzato, in Serbia il 7%, in Montenegro il 3%, nella Krajna il 2%. Inoltre l’esercito jugoslavo era ateo e comunista. La guerra è stata iniziata da loro e quindi non ci sono motivazioni religiose alle radici di questo con- flitto» (10).
Ciò non vuol dire che la motivazione religiosa non sia stata utilizzata, come spiega lo stesso cardinale: «All’inizio della guerra i musulmani erano tolleranti. Quanto più aumentava la loro tragedia a causa dell’aggressione serba, tanto più si manifestava l’istinto dell’autodifesa. In ciò sono stati aiutati da alcuni paesi islamici, mentre l’ONU e l’ Europa li abbandonavano al loro destino e impedivano loro di armarsi per difendersi contro lo schiacciante apparato bellico dei serbi. E così, col perdurare della guerra, sta acquistando sempre più importanza il fondamentalismo» (11).
Lo stesso scenario verificatosi dopo la fine della guerra in Bosnia sembra ripetersi in Kosovo: la costituzione, di fatto, di Stati omogenei dal punto di vista etnico, perché i profughi serbi non si sentono sicuri di poter rientrare nelle case d’origine senza subire nuovi maltrattamenti. Si tratta di capire se l’amministrazione degli Stati Uniti d’America — che ha deciso il conflitto e che sta gestendo il dopo-guerra — riterrà utile favorire o contrastare questa eventualità. L’amministrazione USA — sempre secondo don Gjergji — ha già ottenuto significativi successi con l’intervento militare in Kosovo: «Oltre a fermare Miloševič e far diventare il Kosovo un problema internazionale, l’intervento della NATO ha umiliato l’Europa, incapace di affrontare una situazione che sarebbe stata di sua competenza geografica, decidendo in proprio le modalità dell’intervento e mettendo i governi europei di fronte al fatto compiuto; ha umiliato la Russia, riducendo la sua diplomazia a fare da ambasciatrice della NATO presso Miloševič; e forse ha voluto sondare la capacità di reazione della Cina, se il bombardamento dell’ambasciata non è stato un errore». Si tratta ora, terminata la guerra, di preparare il futuro del Kosovo, tenendo conto che è di prioritaria importanza per gli albanesi chi deterrà il potere politico a Belgrado, perché — l’opinione è dello stesso don Gjergji — «[…] molto dipenderà dall’evoluzione democratica della Serbia. […] osservo che estremismi e indipendentismi possono nascere come reazione alle dittature» (12).
«Che fare, dunque, del Kosovo? Sopprimerlo in quanto territorio politico, conservarlo con la sua ridotta autonomia attuale, dotarlo di una nuova autonomia estesa, elevarlo al rango di terza repubblica dell’attuale Jugoslavia, riconoscerne l’indipendenza, riunirlo all’ Albania, oppure spartirlo?» (13).
Sono diverse soluzioni proposte, la prima dal Partito Radicale Serbo, la seconda auspicata da Miloševič, la terza dalla comunità internazionale e dai negoziati del 1999 a Rambouillet e a Parigi, la terza, la quarta e la quinta soluzione dai diversi movimenti albanesi, secondo le possibilità del momento, mentre, per quanto riguarda la spartizione, l’esperto di storia balcanica Michel Roux, docente nell’università di Toulouse-Le-Mirail, ne descrive le varie proposte avanzate da diverse fonti serbe (14).
Molto dipenderà dalla capacità dell’opposizione serba di allontanare Miloševič dal potere politico, in particolare di quella parte dell’opposizione guidata dal leader del Partito Democratico Zoran Djindjič piuttosto che di quella rappresentata dal Partito del Rinnovamento Serbo di Vuc Draškovič, uscito dal governo guidato dal partito di Miloševič durante la guerra e animato da un nazionalismo ideologico molto simile a quello del presidente della Serbia. Ma molto di più dipenderà dalla reale volontà dei paesi occidentali di aiutare queste forze di opposizione — questa volta concretamente, non come nei primi anni 1990, quando vennero abbandonate al loro destino — a superare e sconfiggere l’inevitabile repressione da parte del regime.
6. Una rilettura del «Kanun»
Importante sarà anche quanto accadrà nel campo albanese. L’UÇK, Ushtria Çlirimtare e Kosoves, l’Esercito per la Liberazione del Kosovo — dice don Gjergji —, ha espresso «la depressione popolare di fronte all’impossibilità di ogni altra soluzione che non fosse quella di morire combattendo».
Ma tutti dovrebbero venire a conoscenza di un fenomeno assolutamente ignoto, almeno in Occidente, cioè dello straordinario lavoro di educazione popolare — dal quale sarebbe poi nata la Lega Democratica del Kosovo, fondata e guidata da Ibrahim Rugova — svolto in Kosovo a partire dal 1990 da un cosiddetto movimento di riconciliazione, che, attraverso una rilettura del diritto consuetudinario albanese — quello raccolto nel codice di Lek Dukagjini, per secoli trasmesso oralmente (15) —, ha portato all’estinzione di 1275 «vendette del sangue» (16) e di un numero imprecisato di conflitti e dissidi minori (17). Un lavoro importante in sé, ma anche per le sue conseguenze politiche, perché ha permesso che la resistenza albanese in Kosovo si esprimesse per quasi un decennio sul piano civile e con modalità pacifiche — fino alla nascita dell’UÇK e all’inizio delle operazioni militari, nel marzo del 1998 —, dando vita a un’autentica società parallela a quella statale, a un «paese reale» opposto a quello legale, che ricorda per analogia l’esperienza del movimento cattolico italiano dopo il 1870.
Marco Invernizzi
Note:
(1) Cfr. GIOVANNI CANTONI, Kosovo, ex Ju- goslavia, marzo 1999: un’ appendice «calda» della «guerra fredda», in Cristianità, anno XXVII, n. 287-288, marzo-aprile 1999, pp. 3-4; e il mio La «pulizia etnica» nel conflitto balcanico, ibid., anno XXVII, n. 289, maggio 1999, pp. 5-10.
(2) Cfr. ADRIATICUS, Italia-Europa-USA: la grande partita della ricostruzione, in limes. Rivista Italiana di Geopolitica, n. 2/1999, pp. 55-66, Figura 2. Sfollati e profughi nei Balcani, p. 58, fonti dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati aggiornate al 30 maggio 1999.
(3) Dopo aver trascorso il periodo del bombardamento della NATO, 79 giorni, nella sua parrocchia di Binca con duecento fedeli — quelli che non erano fuggiti in Macedonia — don Gjergji è tornato in Italia, nei primi giorni di luglio del 1999, per riprendere le sue attività editoriali con la casa editrice Velar di Bergamo. Durante la sua breve permanenza nel nostro paese, ho avuto modo d’incontrarlo due volte e da queste conversazioni ho tratto le citazioni riportate nel testo senza indicazione di fonte.
(4) VACLAV HAVEL, «Il nostro destino si gioca in Bosnia», in World Media – La Stampa, 21-2-1996, cit. in GIANCARLO E VALENTINO SALVOLDI E LUSH GJERGJI, Kosovo. Non violenza per la riconciliazione, Editrice Missionaria Italiana (EMI), Bologna 1999, pp. 116-117.
(5) MILES, I Balcani in Europa: tra utopia e magia nera, in limes. Rivista Italiana di Geopolitica, cit., pp. 67-77 (p. 73).
(6) Nato a Veliko Trgovišče, in Croazia, il 14 maggio 1922, Tudjman partecipa alla resistenza antinazista ed entra nell’Accademia militare di Belgrado dopo la seconda guerra mondiale. Lascia l’esercito jugoslavo dopo aver raggiunto il grado di generale, a soli 39 anni, nel 1961. Nello stesso anno fonda l’Istituto di Storia del Movimento dei Lavoratori in Croazia, che dirige fino al 1967, collegato al Comitato Centrale della Lega dei Comunisti, partito del quale fa parte. Nel 1963 comincia a insegnare all’università di Zagabria e nel 1965 ottiene il dottorato in Scienze Storiche con una tesi sulla storia della Jugoslavia dal 1918 al 1941. Nel 1965 viene eletto in parlamento. Per il suo revisionismo storico è accusato di antimarxismo e di posizioni nazionaliste e nel 1967 viene espulso dal partito. Imprigionato più volte dopo il 1972 e interdetto da ogni attività pubblica per cinque anni in un processo del 1981, dopo il 1987 può riavere il passaporto e recarsi all’estero, dove comincia a organizzare un movimento anticomunista fra i numerosi croati all’estero. Nel 1989 fonda l’Unione Democratica Croata, diventandone presidente. Dopo la vittoria elettorale del suo partito, nel 1990, viene eletto presidente della Repubblica, ancora socialista, il 30 maggio dello stesso anno. Dopo la promulgazione di una nuova Costituzione, avvenuta il 22 dicembre 1990, è confermato in carica, come ancora accadrà con le elezioni presidenziali del giugno del 1997.
(7) Come invece la ritiene STEFANO BIANCHINI, Sarajevo le radici dell’odio. Identità e destino dei popoli balcanici, Edizioni Associate, Roma 1996, 2a ed. rivista e aggiornata, p. 78; in senso contrario, cfr. CHRISTOPHER CVIIC, Rifare i Balcani, trad. it., il Mulino, Bologna 1993, p. 115: «Il 4 ottobre 1990 Croazia e Slovenia proposero la trasformazione della Jugoslavia in una “confederazione” fra stati, caratterizzata da legami deboli sul modello della Comunità europea, con un mercato unico e una politica estera e militare comune».
(8) ROBERTO MOROZZO DELLA ROCCA, Kosovo. La guerra in Europa. Origini e realtà di un conflitto etnico, Guerini e Associati, Milano 1999, pp. 26-27.
(9) Questa definizione attribuita al popolo croato è contenuta in un messaggio inviato da Papa Leone X ai croati tramite Toma Niger (ca. 1450-dopo 1531), vescovo di Skradin, diplomatico e umanista, segretario del Bano croato Petar Berislavič: «Figlio, va’ e saluta il tuo Bano e tutto il popolo croato. E dì a tutti: il Capo della Chiesa non permetterà che cada la Croazia, il più saldo scudo e antemurale della Cristianità» (cit. in Franko Miloševič et Alii , Povijest hrvatskog naroda od VI. Stoljeâa do naèih dana [Storia del popolo croato dal secolo VI ai nostri giorni], Skoljèka Knjiga, Zagabria 1995, p. 85).
(10) Cit. in G. E V. SALVOLDI e L. GJERGJI, Bosnia: «non potete obbligarci a odiare». Una Chiesa per la pace, EMI, Bologna 1996, p. 34.
(11) Ibid., p. 36.
(12) DON L. GJERGJI, «Il calvario del mio Kosovo: la guerra si poteva evitare, adesso costruiamo la pace», intervista a cura di Paolo Brivio, in il Resegone. Settimanale Cattolico d’Informazione, anno 118, n. 27, Bergamo 2-7-1999.
(13) MICHEL ROUX, Spartire il Kosovo? Elementi per un dossier, in limes. Rivista Italiana di Geopolitica, cit., pp. 199-213 (p. 201).
( 14) Cfr. ibidem.
(15 ) Cfr. Il Kanun. Le basi morali e giuridiche della società albanese, trad. di padre Paolo Dodaj, con un’introduzione di Patrizia Resta, BESA, Lecce 1996.
(16 ) Cfr. ibid., soprattutto libro decimo, capo XXII, 118-140, §§ 822-990, pp. 124- 140.
(17) Cfr. G. e V. SALVOLDI e L. GJERGJI, Kosovo. Non violenza per la riconciliazione, cit. pp. 37-73.