Editoriale di Mons Corrado Sanguineti, Vescovo di Pavia, da Il Ticino del 04/10/2019. Foto redazionale
La scorsa settimana, esattamente mercoledì 25 settembre, è stata resa nota la sentenza della Corte Costituzionale sulla depenalizzazione del suicidio medicalmente assistito, in caso di «patologia irreversibile» e segnata da sofferenze «fisiche o psicologiche» ritenute «intollerabili», richiesto tramite il Servizio Sanitario Nazionale da una persona «pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Si tratta di un fatto grave, che apre grandi interrogativi, perché, anche se la sentenza pone alcuni “paletti”, si crea un “vulnus” nell’ordinamento legislativo, autorizzando, a determinate condizioni, la pratica del “suicidio assistito”. Rischiamo così di metterci su un piano inclinato che conduce a certe prassi che purtroppo caratterizzano alcuni Paesi europei, dove si giustifica il ricorso all’eutanasia e al suicidio assistito anche per ragioni e condizioni che facilmente possono determinarsi nell’esistenza di una persona (es. depressione, anoressia). C’è una mentalità crescente che invoca un preteso “diritto alla morte”, come libera autodeterminazione della persona, o ragioni di pietà e di dignità che giustificherebbero la cessazione delle cure. Come dimostra ciò che sta accadendo in Olanda e in Belgio, si tende così a considerare chi è in condizioni di grave fragilità un soggetto che alla fine diventa un peso per la società e per chi lo deve curare, accentuando un drammatico senso d’inutilità nel cuore del malato che trova un motivo in più per “togliere il disturbo”. In un lucido articolo, apparso venerdì 27 settembre sul quotidiano “Avvenire”, don Roberto Colombo, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha prospettato tre vie che andrebbero percorse, per limitare le potenziali conseguenze negative della sentenza, se non vogliamo cedere a quella “cultura della morte” (San Giovanni Paolo II) o “cultura dello scarto” (Francesco) che fa coincidere il valore e il bene della vita con condizioni di piena efficienza: «Potremmo chiamarle la via della garanzia di legge, la via dell’educazione culturale ed ecclesiale, e la via della testimonianza di cura incondizionata».
Le tre vie per limitare le conseguenze negative della sentenza
La prima via, prospettata dal cardinale Bassetti, presidente della Cei, e dal dottor Anelli, presidente della “Fnomceo”, oltre che da altri soggetti e associazioni, chiede al Parlamento di intervenire, in tempi brevi, con una legge in materia, riconoscendo il diritto all’obiezione di coscienza del personale sanitario nei confronti di richieste di eutanasia e assistenza al suicidio: ciò è necessario per salvaguardare la libertà di coscienza degli operatori sanitari che si riconoscono a servizio della vita umana, bene indisponibile, secondo l’antica etica del giuramento d’Ippocrate e della tradizione cristiana e laica d’Europa. C’è da sperare che i cattolici, presenti in differenti formazioni politiche, insieme ai laici più attenti al valore della libertà di coscienza, possano creare un’attiva maggioranza trasversale: là dove sono in gioco valori e beni fondamentali dell’uomo, dovrebbe realizzarsi una piena unità d’intenti e d’azione, anche nell’ambito parlamentare. La seconda via si percorre sul piano educativo e culturale, nella cornice di una società democratica e pluralista, sapendo sostenere ragioni e argomentazioni in un confronto vivace e rispettoso: «Occorre ricostruire una cultura della vita e dell’amore alla vita che sappia esibire e difendere con forza intellettuale – anche in un contradditorio serrato, pubblico, ma sempre leale – i dati della realtà umana, clinica, familiare e sociale e le evidenze della ragione antropologica, medica, giuridica e politica». Qui, anche come cristiani, dobbiamo superare la paura di essere “divisivi”, affrontando temi dibattuti: è falsa l’obiezione che affrontare questi argomenti nelle famiglie, nella scuola, in parrocchia, negli ambienti della cultura, della società e della politica sia fonte di ‘divisione’, perché in realtà, «la ‘divisione’ già è stata posta dalla legislazione e dalle sentenze sul ‘fine vita?: esse, di fatto, non raccolgono il consenso di tutta la comunità civile ed ecclesiale». La terza via è quella oggi decisiva: si tratta d’indicare e di sostenere testimonianze reali di cura incondizionata, che mostrino quanto sia più umana e adeguata al bisogno di chi soffre un’accoglienza amorosa, che si faccia carico della sofferenza, che lenisca il dolore, con il ricorso alle cure palliative, che aiuti a mettere in luce altre dimensioni della vita e della persona, al di là della malattia e della condizione invalidante: «Si apre la via della testimonianza di una dedizione incondizionata di genitori, figli, fratelli e sorelle, personale sanitario, comunità e associazioni di volontari alla cura degli ‘ultimi’ tra i malati e i sofferenti, quelli di cui una medicina e una società fondata sull’efficienza della donna e dell’uomo e sul consumismo delle loro vite, scartate quando ritenute ‘inutili’, inclina in diversi modi a disfarsi».
Quante esperienze positive in famiglie lasciate sole!
Quante esperienze positive e impressionanti di cura si trovano, a volte nascoste, in famiglie che troppe volte sono lasciate sole dallo Stato! Quanti luoghi di cura dell’umano, che permettono a uomini e donne di ritrovare senso e dignità nella loro condizione di sofferenza e di disabilità, all’inesorabile avanzare degli anni, con tutti i limiti che vengono sempre più in primo piano. Certo, situazioni di grave, prolungata e progressiva invalidità, che rendono la persona totalmente dipendente dall’altro, saranno sempre più insostenibili se cresce la solitudine sociale, se ogni famiglia è isolata e sola, se non si coltivano reti buone di relazioni e non si favorisce una positiva sinergia tra soggetti e operatori che possono offrire
un loro specifico apporto, una loro presenza accanto al sofferente, a chi è affetto da patologie invalidanti, a chi vive i momenti terminali della propria esistenza, e ai loro familiari. Qui, infine, si pone la ricchezza singolare della testimonianza cristiana, che come Chiesa e come credenti siamo chiamati a vivere. Perché il dramma più profondo che rende a volte insopportabile un’esistenza segnata da una malattia grave e progressiva, è la mancanza di un significato nell’umano dolore; allo stesso modo, la vecchiaia che si prolunga ormai per tanti anni, soprattutto quando porta con sé disagi, limitazioni e senso d’inutilità e abbandono, rischia di apparire a molti una stagione della vita priva di senso, ridotta a una triste anticamera della morte. Suonano sempre più vere le parole pronunciate più di vent’anni fa dall’allora cardinale Joseph Ratzinger, nel suo intervento al Meeting di Rimini nell’agosto 1990: «Una visione del mondo che non può dare un senso anche al dolore e renderlo prezioso non serve a niente. Essa fallisce proprio là dove fa la sua comparsa la questione decisiva dell’esistenza. Coloro che sul dolore non hanno nient’altro da dire se non che si deve combatterlo, ci ingannano. Certamente bisogna fare di tutto per alleviare il dolore di tanti innocenti e per limitare la sofferenza. Ma una vita umana senza dolore non c’è, e chi non è capace di accettare il dolore, si sottrae a quelle purificazioni che sole ci fanno diventar maturi». La fede in Cristo, «uomo dei dolori che ben conosce il patire», la luce della sua Pasqua di morte e di risurrezione, la certezza della vita eterna come destino ultimo dell’uomo sono i grandi doni di cui vive la Chiesa, e che umilmente e tenacemente, come cristiani, possiamo scoprire e comunicare agli uomini e alle donne che conoscono l’umano soffrire e cercano, camminando nella notte, un’ipotesi di significato, una ragione affidabile di speranza. In fondo, se crescono prospettive di pensiero nichilista, se ci sono leggi che tendono a tollerare e a favorire la pratica del suicidio assistito e dell’eutanasia – alla fine forme di rinuncia a vivere, segni di un’umanità sempre più fragile e sprovveduta, priva di ragioni di vita – il motivo radicale è il venir meno nella coscienza e nell’esperienza dei nostri contemporanei di una mentalità cristiana, di una concezione della vita, del dolore, della morte plasmata dalla fede in Cristo. Il contributo più vero e sostanziale che possiamo offrire al nostro tempo, alla libertà di ogni persona, è la testimonianza dell’umanità della fede: l’amicizia con Cristo, come esperienza vivente in un popolo, nel tessuto di una comunità credente, rende finalmente umano anche il dolore, nel mistero della croce, e si apre alla speranza di una vita che non muore, che cammina verso la pienezza della risurrezione.