Mauro Ronco, Cristianità n. 429 (2024)
Intervento, rivisto e annotato, svolto in occasione del convegno organizzato il 28 settembre 2024 a Piacenza, presso il PalabancaEventi, da Alleanza Cattolica su La Dottrina Sociale della Chiesa (cfr. la cronaca in questo numero, alle pp. 3-6).
1. L’oggetto della dottrina sociale
In uno scritto del 1981 Dottrina sociale e lavoro umano nel messaggio della «Laborem exercens» (1), Giovanni Cantoni (1938-2020) contesta l’opinione di quegli studiosi che, alla fine del pontificato del venerabile Pio XII (1876-1958) e, più ancora, nel periodo successivo alla conclusione del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), avevano sostituito la denominazione «dottrina sociale della Chiesa» con quella di «insegnamento sociale della Chiesa» (2).
Cantoni rivendicava alla dottrina sociale il carattere di scienza, cioè di un sapere secondo ragioni e princìpi, dottrina, pertanto, munita della nota della certezza. Il suo statuto è definito al n. 46 dell’enciclica Sollicitudo rei socialis, pubblicata da Papa san Giovanni Paolo II (1978-2005) nel 1987, ove è qualificata come «teologia morale» (3).
Il suo oggetto materiale è l’uomo. Quindi, gli atti o l’insieme dell’attività umana, le sue produzioni e tutto ciò che riceve l’impronta della sua esistenza costituiscono l’ambito fenomenico originale di questa scienza. Il suo oggetto formale è l’uomo in quanto uomo e, correlativamente all’estensione dell’oggetto materiale a tutti i fenomeni umani, l’oggetto formale si identifica con tutto ciò che di questi fenomeni è specificamente umano. Di conseguenza l’oggetto formale di questa scienza può riassumersi così: «la natura specifica dell’uomo e le sue proprietà» (4).
Questa scienza antropologica di carattere generale annovera come scienze subalterne l’antropologia morale, l’antropologia politica, l’antropologia giuridica, l’antropologia economica. Poiché i suoi effati sono stati oggetto di pronuncia autorevole del Magistero della Chiesa essa può definirsi «teologia morale».
La dottrina sociale, dunque, non va intesa riduttivamente, né alla stregua di un insegnamento particolare e contingente, che il Magistero della Chiesa somministra per risolvere con equità alcuni problemi, più o meno grandi, di carattere prevalentemente economico-sociale, che si pongono nel corso della storia. Ha per oggetto, invece, tutte le scienze pratiche dell’uomo e, in primis, la morale, la politica, il diritto e l’economia alla luce della filosofia e della teologia morale. L’uomo è capace di conoscere tramite l’esperienza e la ragione i princìpi di tali scienze; ma esse sono ultimamente discipline di «teologia morale», poiché vagliate dall’autorità della Chiesa che ne certifica la conformità al diritto naturale e al giudizio di Dio, evincibile dalla sua rivelazione eterna e immutabile.
2. La garanzia della Chiesa circa la verità della dottrina sociale
Per limitarci a due esempi storicamente importanti, è possibile contemplare l’impronta decisiva che la teologia morale impresse ai temi della schiavitù e della giustizia sociale.
Quanto al primo, la schiavitù fu sempre condannata dal magistero della Chiesa. Ma non può negarsi che essa, soprattutto come conseguenza del diritto di guerra, fu spesso presente, sia pure in forma strisciante, nell’ambito delle nazioni cristiane, fino a quando il problema si presentò in modo acuto e bruciante. Ciò accadde al momento dell’incontro fra la civiltà ispanica cristiana e i popoli delle Indie. La tendenza affiorante fra i primi coloni fu di trattare come schiavi, cioè come soggetti sine juribus, i popoli delle Americhe.
Questi eventi scossero la coscienza morale della Corona di Spagna, che si appellò al Pontefice romano. Alessandro VI (1492-1503), pur riconoscendo il diritto delle potenze cristiane alla colonizzazione, proclamò nella seconda bolla Inter coetera del 1493 il dovere dei principi cristiani di evangelizzare i popoli di quelle terre come persone pleno jure, dando severe istruzioni riguardo all’educazione cristiana che gli abitanti del luogo avrebbero dovuto ricevere: «Inoltre vi ingiungiamo, in virtù della santa obbedienza, di inviare laggiù, come promettete e come senza alcun dubbio farete per la vostra grandissima devozione e regale magnanimità, nelle suddette terre e isole, degli uomini retti e timorati di Dio, istruiti, abili e pieni di esperienza, perché istruiscano i nativi e gli abitanti nella fede cristiana ed inculchino loro buoni principii» (5).
Il giudizio fu inappellabile: la schiavitù è estranea al diritto umano e, dunque, non può entrare a far parte, neanche in modo palliato, nei codici delle nazioni civili.
La seconda scolastica spagnola trasse da questa verità morale le energie intellettuali per dettare al mondo i princìpi del diritto civile e internazionale. Alla base dei rapporti fra i popoli stanno i princìpi di uguaglianza e di rispetto dei diritti di ogni singola persona. Il diritto non è, secondo il teologo Francisco Suárez S.J. (1548-1617), la pretesa di una qualsiasi prestazione da parte di altri, bensì la facultas moralis di agire che spetta a ogni persona, in quanto persona, senza alcuna discriminazione di razza, di nazione, di ceto, di condizione sociale; facoltà, dunque, che riceve la sua misura dalla legge morale (6).
Sullo stesso principio dell’uguaglianza e della dignità di ogni popolo il domenicano Francisco de Vitoria (1483-1546) fondò il diritto internazionale secondo la formulazione contenuta nel De Indiis: «quod naturalis ratio constituit inter omnes gentes vocatur ius gentium», «il diritto delle genti è costituito da ciò che la ragione naturale ha stabilito nei rapporti fra tutti gli uomini» (7). Egli contemplò l’esistenza di una comunità internazionale — universalis respublica — fondata sulla socialità degli uomini e titolata a far leggi convenienti a tutti i popoli quali sono, appunto, quelle del diritto delle genti.
Secondo esempio: il secolo liberale conobbe la mercificazione del lavoro umano e perseguì sistematicamente l’impoverimento del povero tramite vari strumenti, fra cui in particolare: l’assolutezza del diritto di proprietà privata — cfr. art. 544 del Codice Civile francese del 1805: «La proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera la più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalle leggi o dai regolamenti»; quindi la privatizzazione delle partecipanze comunali e dei diritti demaniali, nonché l’alienazione dei beni ecclesiastici; ancora, il divieto dell’unione corporativa fra i lavoratori — «legge Le Chapelier», 14 giugno 1791 — e, infine, la libertà di usura. Fu la Chiesa a ergersi in difesa della giustizia sociale, condannando di volta in volta specificamente le singole misure di espropriazione liberale dei beni del popolo, fino a che, più in generale, denunciò lo stato di ingiustizia radicale in cui era precipitata la società nella seconda metà del secolo XIX con l’enciclica Rerum novarum (1891) di Papa Leone XIII (1878-1903).
3. L’opera di Giovanni Cantoni per la conoscenza e la diffusione della dottrina sociale
La dottrina sociale, patrimonio della Chiesa universale, ha formato un corpo sistematico pressoché completo in ordine ai vari capitoli dell’antropologia. È stata riconosciuta, a fini non tanto teorici, quanto soprattutto pratici, da una schiera di uomini e donne che non è errato definire tradizionalisti.
Bene inteso, con questo termine non alludo agli archeologisti, che magnificarono certi aspetti della storia medioevale per ammirarne staticamente la magnificenza — anche se non è cosa nociva lasciarsi attrarre dalle realizzazioni che la magnanimità delle persone hanno saputo erigere contro il logorio del tempo — e tanto meno ai tradizionalisti pagani, secondo i quali all’inizio vi è l’età dell’oro, non tanto intesa storicamente, quanto principialmente, giacché l’età dell’oro è per essi il mito esoterico della conoscenza originaria del segreto del bene e del male. Alludo, invece, ai tradizionalisti storici, coloro che furono tali non per attaccamento sentimentale alle cose del passato, bensì per l’amore che li tenne avvinti alle cose, alla realtà, a ciò che è stato bello e buono nella storia, e che avevano ricevuto come legato dalla fatica dei loro antenati. Questi tradizionalisti concreti rifuggirono sempre dalle elucubrazioni utopiche e distopiche circa un mondo perfetto del passato che mai era esistito.
Credo ora di poter affermare, senza tema di smentita, che il più insigne tradizionalista, che ha «scoperto» la dottrina sociale della Chiesa quale corpus integralmente da vivere, oltre che, ovviamente, da previamente conoscere, è stato Giovanni Cantoni.
Certamente vi sono stati studiosi che hanno acquisito competenze scientifiche elevate in materia di dottrina sociale, ma non vi è stato alcuno, prima di lui, che abbia avuto il coraggio intellettuale e l’energia morale di proporre, opportune et importune, tale dottrina come mezzo al fine di ricostruire una civiltà a maggior gloria di Dio e secondo il Suo piano provvidenziale.
L’immenso lavoro di Cantoni ha ripercorso l’intero itinerario del tradizionalismo contro-rivoluzionario, che, resosi conto, alla sequela di Joseph de Maistre (1753-1821), del carattere epocale della Rivoluzione detta «francese», ha ricercato nella voce sapiente della Chiesa di Roma le risposte agli interrogativi, soprattutto di ordine religioso e politico, che si erano aperti in ordine al quid faciendum avverso ai singoli implacabili passaggi del processo rivoluzionario.
Molti, anche fra i migliori tradizionalisti, hanno interrotto a un certo punto questa via, sia per la sfiducia che essa potesse dare risultati positivi nei termini temporali di qualche generazione, sia per l’oscurarsi, in certi periodi, della stessa dottrina sociale, che è ricomparsa in forma grandiosa nelle encicliche degli anni 1990 di san Giovanni Paolo II (1978-2005) Centesimus annus (1991), Veritatis splendor (1993) ed Evangelium vitae (1995).
Alla sfiducia Cantoni ha sempre risposto con saggezza che la ricostruzione — che si avrà soltanto con l’aiuto della volontà di Dio — di un mondo a misura d’uomo e per la maggior gloria di Dio non è cosa che possa nascere dall’opera da compiersi in qualche decennio, bensì dalle fatiche, dalle sofferenze e, forse, dal martirio dei cristiani che avranno superato per grazia di Dio e con il proprio sacrificio il tempo dell’abominio della desolazione, quale che ne sia la sua durata. Quanto all’oscuramento in certi momenti della dottrina, Cantoni mai ha dubitato della fede nella Chiesa e della saldezza del Magistero pontificio. Contro i critici o i dubbiosi, egli si è distinto per l’incrollabile fiducia nell’inerranza della magisterialità, anche per via ordinaria, della dottrina di Roma.
4. Il profilo giuridico della dottrina sociale
L’oggetto della mia relazione concerne in modo particolare l’aspetto giuridico della dottrina sociale. Ho osservato che il diritto è parte centrale della scienza sociale. Avendo per oggetto l’antropologia in tutti i suoi aspetti, è contraddittorio distinguere l’homo politicus dall’homo juridicus, oeconomicus o socialis. La dottrina è definita «sociale» perché assume a proprio oggetto tutte le dimensioni del vivere delle persone in società.
Fra le varie dimensioni della socialità spiccano per la loro rilevanza la dimensione politica e quella giuridica, strettamente connesse l’una con l’altra. La dimensione economica, alla base delle altre in quanto concerne la scoperta e l’uso delle risorse della terra per il mantenimento in vita di tutti gli uomini, è certamente essenziale, ma, essendo prossima ai bisogni elementari dell’uomo, ha un carattere per così dire più naturale che non la politica e il diritto. Per la determinazione di queste ultime dimensioni entrano maggiormente in gioco l’intelligenza e la volontà umana, potenze superiori dell’anima, che, in quanto tali, sono più facilmente soggette alla distorsione provocata dalla malizia dell’intelligenza e dalle pulsioni egoistiche della volontà.
La Rivoluzione, pertanto, prima si fece religiosa, soltanto in seguito politica e giuridica e ultimamente economica. La dottrina sociale della Chiesa si costruì quale corpo sistematico quando la Rivoluzione si era fatta sistemica e aveva coperto tutte le aree dell’agire dell’uomo nella relazione con Dio, con sé stesso, con gli altri e con il mondo creato. Con la Rivoluzione «francese» e, poi, con il liberalismo e i suoi fratelli minori, più selvaggi e impazienti, il socialismo e il comunismo, il processo si era fatto istituzionale. Da qui sorse la necessità di una risposta sistematica e di una elaborazione organica della dottrina sociale.
Tralascio per un momento la Rivoluzione religiosa. Dirò qualcosa sulla Rivoluzione politica e giuridica, soprattutto su quest’ultima, che si presentò all’inizio in sordina, quasi chiedendo scusa di fare ingresso sulla scena. Essa iniziò nella prima metà del secolo XVII. Non che in precedenza il nominalismo filosofico non avesse logorato la tenuta del diritto naturale classico e cristiano. Non va dimenticato, però, che nel secolo precedente tale diritto aveva ricevuto uno straordinario arricchimento grazie agli autori della Seconda Scolastica spagnola, fra gli altri, i domenicani Francisco de Vitoria e Domingo de Soto (1494-1560) e, più tardi, il gesuita Francisco Suárez.
Nel 1612 venne pubblicata la prima edizione in Amsterdam del De jure belli ac pacis dello studioso di denominazione calvinista arminiana Ugo Grozio (1583-1645) (8). L’opera appare ancora costruita come compendio ricco e articolato del diritto secondo la tradizione. Il farmaco velenoso si annida però nei Prolegomeni ove il filosofo olandese scrive che la sua costruzione potrebbe rimanere pienamente valida anche se Dio non esistesse e la sua Provvidenza non intervenisse nella storia (9).
Il passo decisivo venne compiuto da Thomas Hobbes (1548-1679) nel 1642 con la pubblicazione del De cive. Qui v’è la ribellione diretta contro il diritto tradizionale. Contraddicendo con orgoglio Aristotele (384-322 a.C.) e tutti coloro che avevano scritto prima di lui, Hobbes proclama che l’uomo non è un ente fatto per la società. L’uomo è gettato nel mondo in completa solitudine e ha un diritto individuale in omnia e in omnes. Cioè, un diritto assoluto sulle cose e sulle persone che egli esercita tramite la forza. Quest’ultima diventa pertanto la causa determinante del diritto. Da qui Hobbes evince la natura della società: il disordine assoluto, il «bellum omnium contra omnes», la prevaricazione del più forte sul più debole, che perdurano fino a quando appare un simulacro di ordine prodotto da colui che ha esercitato il suo diritto assoluto in modo talmente violento e fraudolento da essere rimasto il solo munito di potere. Con la sottomissione degli altri egli diventa il princeps absolutus, che può esercitare il suo ius originario in omnia e in omnes secondo la sua volontà arbitraria.
Il rovesciamento della verità del diritto è compiuto. È l’inizio del giusnaturalismo laico, in forza del quale il diritto e la società dovrebbero trovare il loro fondamento in sé stessi e non più in Dio e nella sua Provvidenza che opera nella storia.
5. Giambattista Vico primo tradizionalista contro la rivoluzione nel diritto
Contro la rivoluzione giuridica sorse il primo tradizionalista, Giambattista Vico (1668-1744), che scrisse le sue opere capitali, il De universi iuris uno principio et fine uno (10) e la Scienza Nuova nelle sue tre edizioni (11) al fine di restaurare la vera idea del diritto naturale classico, della giustizia e della storia universale alla luce della Provvidenza.
Nel Proloquio del De universi uno egli, richiamando i ragionamenti di Niccolò Machiavelli (1469-1527), di Hobbes, di Baruch Spinoza (1632-1677) e di Pierre Bayle (1647-1706), per i quali valgono le massime che «[…] l’umana società col timore si raffrena, e che le leggi altra cosa non sono se non un mezzo dalla podestà ritrovato a signoreggiare la sciocca moltitudine» (12), fonda la ricerca volta a «[…] stabilire esservi un diritto vero ed eterno, da tutti, sempre, e dovunque accettato. La metafisica è la dottrina che c’insegna l’eterna scienza delle verità, la quale viene diffinita: la critica della verità. La sola metafisica può dunque dimostrare l’esistenza del diritto, in modo da toglierci lo sciagurato arbitrio di metterne in dubbio la giustizia; e da quella filosofia potremo trarre principii giuridici universalmente e concordemente creduti. Essa ci sarà un eterno regolo, col quale potremo misurare quanto al gius naturale delle genti abbia tolto od aggiunto il gius civile romano, ed avremo pertanto la piena e ben disaminata cognizione dei principii di quel diritto» (13).
Al De universi uno segue l’immensa opera della Scienza Nuova, il poema della Provvidenza divina nella storia, che sa trarre il bene dai vizi dell’uomo: dalle pulsioni sessuali la sacralità dei matrimoni e la stabilità delle famiglie; dal desiderio di guadagno della mercatura la ricchezza delle nazioni; dalle pulsioni della violenza e della sopraffazione l’ordine delle milizie per la tutela armata della patria; dal ricordo impresso nell’anima dal senso comune in ordine all’immortalità dell’anima la tradizione delle sepolture e la speranza nella resurrezione dei corpi.
Nel libro primo — Dello Stabilimento de’ Principj — della Scienza Nuova terza (1744) Vico assume come princìpi questi tre costumi eterni ed universali: «Osserviamo tutte le Nazioni così barbare, come umane, quantunque per immensi spazj di luoghi, e tempi tra loro lontane divisamente fondate, custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione; tutte contraggono matrimonj solenni; tutte seppelliscono i loro morti: né tra nazioni quantunque selvagge, e crude si celebranoazioni umane con più ricercate cerimonie, e più consagrate solennità, che religioni, matrimonj, e seppolture: che per la Degnità, che idee uniformi nate tra’ popoli sconosciuti tra loro debbon’ aver un principio comune di Vero, dee essere stato dettato a tutte, che da queste tre cose incominciò appo tutte l’Umanità; e perciò si debbano santissimamente custodire da tutte; perché ‘l Mondonon s’infierisca, esi rinselvi di nuovo. Perciò abbiamo presi questi tre costumi eterni, ed universali, per tre primi Principj di questa Scienza» (14).
6. La battaglia di Vico per la verità del diritto
Vico, come accennato, è il primo tradizionalista. L’attitudine della sua mente, del suo cuore e del suo animo è commovente. Le battaglie politiche e militari che la cattolicità ha combattuto contro il protestantesimo e i suoi corollari politici e giuridici sono ormai tutte perdute. I tercios ispanici e napoletani, che mai si erano piegati sul fronte dell’onore, sono stati frantumati dalle soverchianti forze nemiche; sugli oceani sventolano le bandiere olandesi delle due Compagnie delle Indie, orientale e occidentale, che hanno il monopolio sui traffici e la giurisdizione sulla tratta degli schiavi, riempiendo le Americhe di tali persone e non più popolandole con uomini e donne intenzionati a unirsi con i nativi per costruire insieme con loro una nuova Cristianità (15).
Resta ferma però in Vico la convinzione che v’è ancora una guerra da combattere, a cui egli generosamente si dedica nella certezza che questa guerra deve essere combattuta al contempo per la verità metafisica e per la vera religione.
Presentando al cardinale Lorenzo Corsini (1652-1740), che divenne poi Papa Clemente XII (1730-1740), la prima edizione de la Scienza Nuova, ne spiega l’ispirazione con l’intento di «convincere di falso e i filosofi obbesiani e i filologi baileani, con dimostrar loro che ’l mondo delle nazioni non abbia retto pur un momento senza la religione d’una divinità provedente, e nello stesso tempo si rovesciano i tre sistemi del diritto naturale delle genti, che fondano Grozio e [Samuel von, 1632-1694] Pufendorf con ipotesi, e Seldeno [John Selden, 1584-1654], benché di fatto, ma niuno degli tre gli stabiliscono sulla Provedenza divina, siccome meglio di loro fecero i romani giureconsulti» (16).
Vico vuol compiere l’ardua ed esaltante impresa di riscoprire la verità tradita. Egli non lavora per vanità propria, ma per la gloria della Cristianità. In un passo del De constantia juris prudentis egli rimprovera infatti René Descartes «Cartesio» (1596-1650) e Nicolas Malebranche (1638-1715) per aver ritenuto che lo studio approfondito della filologia non si addicesse al filosofo. Attitudine che, se praticata senza moderazione «[…] conduce alla perdizione le repubbliche cristiane» (17). Se i due filosofi citati «[…] avessero studiato in nome della cristianità anziché a favore della loro privata gloria di filosofi, avrebbero dovuto sforzarsi di spingere tanto innanzi lo studio della filologia, da riportarla ai princìpi della filosofia» (18).
La Scienza Nuova è la risposta d’amore all’odio contro la metafisica che la cultura europea manifestò, sotto la dittatura protestante, nei due secoli succeduti alla rivoluzione del 1517. Egli profeticamente intravide gli effetti nefasti del giusnaturalismo moderno. Il sistema di Grozio è già inficiato dall’«etsi daremus» dei Prolegomeni, come se l’edificio del diritto potesse sussistere senza Dio e la sua Provvidenza.
I suoi autori pensarono erroneamente che il diritto naturale mai fosse esistito nel mondo e che fosse nato dalle loro massime. Essi poi non videro che le utilità — i bisogni, le necessità, le contingenze — sono variabili e cangianti; ma le utilità sono soltanto le occasioni del diritto: la sua causa è la giustizia. Egli intravide pertanto l’evoluzione del giusnaturalismo laico nel positivismo giuridico e, in tal modo, il tracollo del diritto e della giustizia nella vita delle nazioni.
7. Unità del diritto e cristianità
La Rivoluzione nasce nelle tendenze, si afferma nel costume, ma si consolida nel diritto. Vico percepì con intelligenza acutissima l’incarnarsi della Rivoluzione nel diritto, da cui poi sarebbe scesa a pervadere la politica e l’economia. Il protestantesimo, infatti, oltre a provocare la rivoluzione religiosa per eccellenza, con la frattura dell’unità del Corpo di Cristo, che è la sua Chiesa, lacerò anche l’inconsutile sua veste, che è l’unità delle nazioni nell’unica concezione del diritto.
Come primo tradizionalista egli combatté la battaglia più importante, dopo quella per l’unità della Chiesa, che consiste nella battaglia per l’unità del diritto e, dunque, per l’unità della cristianità.
Sotto questo punto di vista occorrerebbe forse rivisitare la genealogia del tradizionalismo, sostituendo, come primogenitura, la figura di Vico a quella di Joseph de Maistre, il quale, pur avendo combattuto con piena consapevolezza il nucleo della rivoluzione politica, non aveva per tempo percepito lo stretto legame della rivoluzione protestante e dei suoi corollari giuridici con la fondazione della massoneria spiritualistica e speculativa.
Quando la Rivoluzione «francese» generò il totalitarismo, proclamando la massima che fonte del diritto è soltanto la legge dello Stato, senza legge morale sopra di sé e senza diritti naturali delle persone e delle comunità intermedie a innervarla e a darle forza, allora il liberalismo ebbe campo libero per distruggere il tessuto sociale delle nazioni cristiane tramite la laicizzazione della famiglia; l’assolutezza del diritto di proprietà privata; la cancellazione dei corpi intermedi; la libertà dell’usura; il pervertimento democratico del potere politico.
Il Magistero della Chiesa di Roma si chinò sulle angustie dei popoli ingannati e conferì organicità e sistematicità ai vari capitoli di una dottrina giuridica, politica e sociale che Vico aveva iniziato a costruire per riparare la frattura religiosa generata dalla rivoluzione protestante.
La sua battaglia per la verità del diritto non fu vana, perché fornì gli utensili concettuali per l’elaborazione della dottrina che ha ripristinato i giusti concetti relativi ai diritti e ai doveri degli uomini e della famiglia, alla dignità del lavoro, al diritto alla proprietà e all’iniziativa economica, alla strutturazione dello Stato secondo i princìpi di sussidiarietà e di solidarietà.
8. Conclusioni
Se Vico fu il primo tradizionalista della modernità, Cantoni fu il primo tradizionalista della post-modernità. Egli comprese che per l’ascesi sociale non sarebbero servite dottrine nuove e che sarebbero stati esiziali i compromessi con gli errori sul diritto, sulla politica e sull’economia caratteristici di quei pensieri e di quelle prassi che avevano desertificato la cristianità e costruito gli Stati laicisti, prima liberali, poi socialisti, infine liberalsocialisti, per soffocare completamente i diritti e i doveri fondamentali dell’uomo; annientare la famiglia; arricchire i ricchi e pervertire l’opera dello Stato per farlo complice nell’elaborazione dei «nuovi» diritti contro le leggi stesse della natura e della ragione. Cantoni comprese — e cercò di insegnarlo ai militanti di Alleanza Cattolica e a tutti gli uomini tenacemente aggrappati alle verità assiomatiche del senso comune — che occorreva studiare e mettere in pratica i princìpi della dottrina sociale che il Magistero della Chiesa romana aveva conservato pur nelle bufere e nelle tempeste della modernità.
Mauro Ronco
Note:
1) Cfr. Giovanni Cantoni, Dottrina sociale e lavoro umano nel messaggio della «Laborem exercens», in Idem, Scritti di dottrina sociale. 1961-2005, Edizioni di «Cristianità», Piacenza 2024, pp. 49-122.
2) Cfr. ibid., p. 57.
3) San Giovanni Paolo II, Enciclica «Sollicitudo rei socialis» sul lavoro umano nel XX anniversario della «Populorum progressio»,30-12-1987, n. 46.
4) Félix Adolfo Lamas, El hombre y su conducta, Instituto de Estudios Filosóficos Santo Tomás de Aquino, Buenos Aires 2013, p. 83.
5) Alessandro VI, Bolla Inter coetera, 4 maggio 1493, nel sito web <https://www.cristoforocolombo.com/cristoforo-colombo/articoli-storici/bolla-inter-coetera>, consultato il 4-11-2024. Il Pontefice aveva emanato il giorno precedente un breve apostolico recante lo stesso titolo.
6) Cfr. Francisco Suarez, De Legibus ac Deo Legislatore, 1612 (trad. it., Trattato delle leggi e di Dio legislatore, a cura di Ottavio De Bertolis e Franco Todescan, CEDAM, Padova 2013).
7) Cfr. Francisco de Vitoria, De Indis recenter inventis relectio prior, I, 3, 1; Idem, Relectio de Potestate Civili, in Luis G. Alonso Getino (1877-1946) (a cura di), Relacciones Teológicas del Maestro Fray Francisco de Vitoria, La Rafa, Madrid 1934, II, § 21, p. 207: «Habet enim totus orbis, qui aliquo modo est una republica, potestatem ferendi leges aequas et convenientes omnibus, quales sunt in iure gentium», «Infatti il mondo, che in qualche modo è un’unica grande comunità, ha il potere di imporre leggi uguali e convenienti per tutti, quali sono nello ius gentium».
8) Cfr. Huig van de Groot, De jure belli ac pacis Libri tres in quibus Jus Naturae & Gentium, item Juris Publici praecipua explicantur, Parigi 1625, considerata l’editio princeps. La prima edizione fu ad Amsterdam (Apud Janssonio-Waesbergios) nel 1612 (trad. it., Il diritto della guerra e della pace. Prolegomeni e libro primo, a cura di Fausto Arici e Franco Todescan, introduzione di Guido Fassò (1915-1974), CEDAM, Padova 2010).
9) «Et haec quidem quae jam diximus, locum aliquem haberent, etiamsi daremus, quod fine summo scelere dari nequit non esse Deum, aut non curari ab eo negotia humana» (il sofisma di Grozio è nei Prolegomena del De jure belli ac pacis, § 11, ed. di Amsterdam).
10) Cfr. Giambattista Vico, De universi iuris uno principio et fine uno,in Idem, Opere giuridiche. Il diritto universale, a cura di Paolo Cristofolini (1937-2020),Sansoni, Firenze 1974, pp. 17-729.
11) Cfr. Idem, Principj di Scienza Nuova intorno alla natura delle nazioni per la quale si ritruovano i principj di altro sistema del Diritto Naturale delle Genti, 1a ed., 1725, in Idem, La Scienza Nuova. Le tre edizioni del 1725, 1730 e 1744,a cura di Manuela Sanna e Vincenzo Vitiello, Bompiani,Milano 2012, pp. 37-327.
12) Idem, De universi iuris uno principio et fine uno, cit., Proloquio dell’opera,p. 30.
13) Ibidem.
14) Idem, Princìpi di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni,3a ed., 1744,in Idem, La Scienza Nuova. Le tre edizioni del 1725, 1730 e 1744,cit., pp. 779-1264 (p. 895).
15) La Compagnia delle Indie Occidentali ebbe il monopolio sui traffici con le Indie Occidentali e la giurisdizione sulla tratta degli schiavi in Africa, Brasile, Caraibi e Nord America per dettato della Repubblica delle Sette Provincie Unite del 1621. Essa si affiancò alla Compagnia Olandese delle Indie Orientali, attiva nei territori coloniali olandesi dal 1602. I profitti delle due Compagnie furono immensi e segnarono l’apice dell’egemonia capitalistica olandese basata sull’accumulazione del denaro e sul dominio politico (sul punto cfr. Giovanni Arrighi [1937-2009], Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, il Saggiatore, Milano 1996, passim e soprattutto, pp. 97-174). Fu abbattuto il principio della civilizzazione dei popoli indiani tramite la territorializzazione, cioè il popolamento e l’unione dei coloni europei con le popolazioni indigene, per fare invece posto al principio opposto della depredazione delle ricchezze per l’accumulazione capitalistica. Né va dimenticato che una parte consistente dei profitti che rese possibile l’egemonia capitalistica olandese e, poi, inglese derivava «dalla pressione fiscale rovesciata imposta alla Spagna imperiale mediante la pirateria e la corsa» (ibid., p. 219).
16) G. Vico, Lettera di accompagnamento della prima Scienza Nuova al Cardinale Lorenzo Corsini in Roma, 20 novembre 1725 da Napoli, in Idem, Opere, a cura di Andrea Battistini, in due tomi, Mondadori, Milano 2005, tomo I, pp. 313-314 (p. 313).
17) Idem, De universi iuris uno principio et fine uno, cit., De constantia jurisprudentis,p. 398.
18) Ibid., p. 400.