Giovanni Cantoni, Cristianità n. 78-79 (1981)
Dopo la terza enciclica di Giovanni Paolo II
Dottrina sociale e lavoro umano nel messaggio della «Laborem exercens»
V. Elementi per una graduale soluzione della questione sociale
Proprietà, salario e sindacato nella prospettiva della verità cristiana sul lavoro. Le proposte per un mondo più umano e più conforme al piano di Dio. Spunti di spiritualità del lavoro.
«Il processo storico – qui brevemente presentato – […] è certo uscito dalla sua fase iniziale, ma […] continua ad essere in vigore, anzi ad estendersi nei rapporti tra le nazioni e i continenti» (n. 14); «tante tensioni, conflitti e crisi […], in rapporto con la realtà del lavoro, sconvolgono la vita delle singole società ed anche di tutta l’umanità» (n. 1); «la distribuzione sproporzionata di ricchezza e di miseria, l’esistenza di Paesi e di Continenti sviluppati e non, esigono una perequazione e la ricerca delle vie per un giusto sviluppo di tutti» (n. 2). Perciò, «se nel passato al centro […] si metteva soprattutto […] il problema della “classe”, in epoca più recente si pone in primo piano il problema del “mondo”» (n. 2); e, «alla vigilia di nuovi sviluppi nelle condizioni tecnologiche, economiche e politiche che, secondo molti esperti, influiranno sul mondo del lavoro e della produzione non meno di quanto fece la rivoluzione industriale del secolo scorso» (n. 1), anche se «non spetta alla Chiesa analizzare scientificamente le possibili conseguenze di tali cambiamenti sulla convivenza umana. La Chiesa però ritiene suo compito di richiamare sempre la dignità e i diritti degli uomini del lavoro e di stigmatizzare le situazioni, in cui essi vengono violati, e di contribuire ad orientare questi cambiamenti perché si avveri un autentico progresso dell’uomo e della società» (n. 1). Quindi, contribuire alla «graduale soluzione della questione sociale» (n. 3). In questa prospettiva, lo stesso ordine di valori che è servito per giudicare il passato, deve servire per orientare nel presente e valutare i programmi per il futuro.
Dunque, il lavoro è una delle caratteristiche che distinguono l’uomo dalle altre creature – anche se, evidentemente, non l’unica -, sì che il primo fondamento del valore del lavoro è l’uomo stesso. Quindi, il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro; quindi, ancora, l’uomo non deve essere trattato come uno strumento di produzione, ma si deve costantemente affermare il primato dell’uomo di fronte alle cose.
1. La destinazione universale dei beni e il diritto di proprietà
Il primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale, poi, cioè il principio dell’uso comune dei beni dell’intera creazione, pone il problema della modalità attraverso cui si può realizzare tale universale destinazione. Per questa ragione «col lavoro rimane pure legato sin dall’inizio il problema della proprietà: infatti, per far servire a sé e agli altri le risorse nascoste nella natura, l’uomo ha come unico mezzo il suo lavoro. E per poter far fruttificare queste risorse per il tramite del suo lavoro, l’uomo si appropria di piccole parti delle diverse ricchezze della natura: del sottosuolo, del mare, della terra, dello spazio» (n. 12).
Così, attraverso il lavoro, l’uomo incontra la proprietà privata «sin dall’inizio» (n. 12), e in questa appropriazione originaria «rientrano, oltre che le risorse della natura messe a disposizione dell’uomo, anche quell’insieme di mezzi, mediante i quali l’uomo se ne appropria, trasformandole a misura delle sue necessità» (n. 12), cioè «l’insieme dei mezzi di produzione, che sono considerati, in un certo senso, come sinonimo di “capitale”» (n. 12).
«Prima di tutto, alla luce di questa verità, si vede chiaramente che non si può separare il “capitale” dal lavoro, e che in nessun modo si può contrapporre il lavoro al capitale né il capitale al lavoro, né ancora meno – come si spiegherà più avanti – gli uomini concreti, che sono dietro a questi concetti, gli uni agli altri» (n. 13). Infatti, «quando si parla dell’antinomia tra lavoro e capitale, non si tratta solo di concetti astratti o di “forze anonime”, operanti nella produzione economica. Dietro l’uno e l’altro concetto ci sono gli uomini, gli uomini vivi, concreti; da una parte coloro, che eseguono il lavoro senza essere proprietari dei mezzi di produzione, e dall’altra coloro, che fungono da imprenditori e sono proprietari di questi mezzi, oppure rappresentano i proprietari» (n. 14).
Ebbene, chiarito che «retto, cioè intrinsecamente vero e al tempo stesso moralmente legittimo, può essere quel sistema di lavoro che alle sue stesse basi supera l’antinomia tra lavoro e capitale, cercando di strutturarsi secondo il principio sopra esposto della sostanziale ed effettiva priorità del lavoro, della soggettività del lavoro umano e della sua efficiente partecipazione a tutto il processo di produzione, e ciò indipendentemente dalla natura delle prestazioni che sono eseguite dal lavoratore» (n. 13), il Pontefice dice che «l’Enciclica Rerum Novarum, che ha come tema la questione sociale, pone l’accento anche su questo problema [il problema della proprietà privata], ricordando e confermando la dottrina della Chiesa sulla proprietà, sul diritto di proprietà privata, anche quando si tratta dei mezzi di produzione. Lo stesso ha fatto l’Enciclica Mater et Magistra» (n. 14).
2. La dottrina della Chiesa sulla proprietà e gli inaccettabili programmi del capitalismo «rigido» e del collettivismo
Nella evidente impossibilità di citare tutti i riferimenti alla proprietà privata contenuti nella dottrina della Chiesa, o anche soltanto nelle due encicliche richiamate, credo opportuno trascrivere almeno due passi rispettivamente ricavati da tali documenti. Leone XIII dichiara: «Naturale diritto dell’uomo è […] la privata proprietà dei beni; e l’esercitare questo diritto è, specialmente nella vita socievole, non soltanto lecito, ma assolutamente necessario» (1). Giovanni XXIII afferma che «il diritto di proprietà privata sui beni anche produttivi ha valore permanente, appunto perché è diritto naturale fondato sulla priorità ontologica e finalistica dei singoli esseri umani nei confronti della società. Del resto vano sarebbe ribadire la libera iniziativa personale in campo economico, se a siffatta iniziativa non fosse consentito di disporre liberamente dei mezzi indispensabili alla sua affermazione. Inoltre storia ed esperienza attestano che nei regimi politici, che non riconoscono il diritto di proprietà privata sui beni anche produttivi, sono compresse o soffocate le fondamentali espressioni della libertà» (2).
Perciò «il suddetto principio, così come fu allora ricordato e come è tuttora insegnato dalla Chiesa, diverge radicalmente dal programma del collettivismo, proclamato dal marxismo e realizzato in vari Paesi del mondo nei decenni seguiti all’epoca dell’Enciclica di Leone XIII. Esso, al tempo stesso, differisce dal programma del capitalismo praticato dal liberalismo e dai sistemi politici che ad esso si richiamano» (n. 14).
Dal momento che qualcuno, in questa affermazione pontificia, ha voluto vedere «una distanza maggiore dell’insegnamento della Chiesa dall’etica del capitalismo» (3) – cioè, di fatto, un mutamento rispetto al giudizio sempre espresso dal Magistero sulla intrinseca perversità del comunismo (4), di contro alla riformabilità dell’ordinamento capitalistico, che, inteso come «quell’ordinamento economico in cui generalmente si contribuisce all’attività economica dagli uni col capitale, dagli altri con il lavoro, […] non è in sé da condannarsi. E infatti non è di sua natura vizioso» (5) – è opportuno soffermarsi sul punto con qualche cura.
Nel primo caso, dunque, cioè in quello relativo al confronto tra la dottrina della Chiesa e il programma del collettivismo, la divergenza viene definita radicale, come fra chi afferma il diritto di proprietà privata anche dei mezzi di produzione e chi radicalmente e assiomaticamente lo nega, la valuta anzi un male in sé e mira a distruggerne ogni e qualsiasi incarnazione storica, allo scopo traendo pretesto dalla sua possibile ingiustizia. Nel secondo caso, cioè in quello relativo al confronto fra la dottrina della Chiesa e il programma del capitalismo, «la differenza consiste nel modo di intendere lo stesso diritto di proprietà» (n. 14). cioè il diritto di proprietà da entrambe le dottrine affermato e sostenuto, anche se diversamente inteso: non si tratta, quindi, di una divergenza radicale e perciò insanabile, ma di una differenza certo non piccola, ma relativa alla considerazione da attribuire a un istituto, quello della proprietà privata anche dei mezzi di produzione, da entrambe le prospettive apertamente affermato, e nel documento in esame riconfermato.
Venendo alle differenze – che, non essendo una divergenza radicale, devono essere trattate in extenso -, il Papa ricorda che «la tradizione cristiana non ha mai sostenuto questo diritto come un qualcosa di assoluto ed intoccabile. Al contrario, essa l’ha sempre inteso nel più vasto contesto del comune diritto di tutti ad usare i beni dell’intera creazione: il diritto della proprietà privata come subordinato al diritto dell’uso comune, alla destinazione universale dei beni.
«Inoltre, la proprietà secondo la dottrina della Chiesa non è stata mai intesa in modo da poter costituire un motivo di contrasto sociale nel lavoro. […] la proprietà si acquista prima di tutto mediante il lavoro perché essa serva al lavoro. Ciò riguarda in modo particolare la proprietà dei mezzi di produzione. Il considerarli isolatamente come un insieme di proprietà a parte al fine di contrapporlo nella forma del “capitale” al “lavoro” e ancora più di esercitare lo sfruttamento del lavoro, è contrario alla natura stessa di questi mezzi e del loro possesso. Essi non possono essere posseduti contro il lavoro, non possono essere neppure posseduti per possedere, perché l’unico titolo legittimo del loro possesso – e ciò sia nella forma della proprietà privata, sia in quella della proprietà pubblica o collettiva – è che essi servano al lavoro; e che conseguentemente, servendo al lavoro, rendano possibile la realizzazione del primo principio di quell’ordine, che è la destinazione universale dei beni e il diritto al loro uso comune. […] Nello spazio dei decenni che ci separano dalla pubblicazione dell’Enciclica Rerum Novarum, la dottrina della Chiesa ha sempre ricordato tutti questi princìpi, risalendo agli argomenti formulati nella tradizione molto più antica, per es. ai noti argomenti della Summa Theologiae di San Tommaso d’Aquino (per il diritto di proprietà: cfr. Summa Th. II-II, Q. 66, aa. 2, 6; De Regimine Prìncipum, L. I, c. 15. Per la funzione sociale della proprietà: cfr. Summa Th. II-II, Q. 134, a. 1, ad 3).
«Nel presente documento, che ha come tema principale il lavoro umano, conviene confermare tutto lo sforzo con cui la dottrina della Chiesa sulla proprietà ha cercato e cerca sempre di assicurare il primato del lavoro e, per ciò stesso, la soggettività dell’uomo nella vita sociale e, specialmente, nella struttura dinamica di tutto il processo economico. Da questo punto di vista continua a rimanere inaccettabile la posizione del “rigido” capitalismo, il quale difende l’esclusivo diritto della proprietà privata dei mezzi di produzione come un “dogma” intoccabile nella vita economica. Il principio del rispetto del lavoro esige che questo diritto sia sottoposto ad una revisione costruttiva, sia in teoria che in pratica. Se infatti è una verità che il capitale, come l’insieme dei mezzi di produzione, è al tempo stesso il prodotto del lavoro di generazioni, allora è parimente vero che esso si crea incessantemente grazie al lavoro effettuato con l’aiuto di quest’insieme dei mezzi di produzione, che appaiono come un grande banco di lavoro, al quale s’impegna, giorno per giorno, la presente generazione dei lavoratori. Si tratta qui, ovviamente, delle varie specie di lavoro, non solo del cosiddetto lavoro manuale, ma anche del molteplice lavoro intellettuale, da quello di concetto a quello direttivo» (n. 14).
3. Le proposte della dottrina sociale cristiana per la diffusione della proprietà
«Da questo punto di vista, quindi, in considerazione del lavoro umano e dell’accesso comune ai beni destinati all’uomo, è anche da non escludere la socializzazione, alle opportune condizioni, di certi mezzi di produzione» (n. 14).
E ancora: «In questa luce acquistano un significato di particolare rilievo le numerose proposte avanzate dagli esperti della dottrina sociale cattolica ed anche dal supremo Magistero della Chiesa (cfr. Pio PP. XI, Lett. Enc. Quadragesimo Anno: AAS 23 (1931). p. 199; Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, 68: AAS 58 (1966), pp. 1089 s.). Sono, queste, le proposte riguardanti la comproprietà dei mezzi di lavoro, la partecipazione dei lavoratori alla gestione e/o ai profitti delle imprese, il cosiddetto azionariato del lavoro, e simili. Indipendentemente dall’applicabilità concreta di queste diverse proposte, rimane evidente che il riconoscimento della giusta posizione del lavoro e dell’uomo del lavoro nel processo produttivo esige vari adattamenti nell’àmbito dello stesso diritto della proprietà dei mezzi di produzione; e ciò prendendo in considerazione non solo le situazioni più antiche, ma prima di tutto la realtà e la problematica, che si è creata nella seconda metà del secolo in corso, per quanto riguarda il cosiddetto Terzo Mondo ed i vari nuovi Paesi indipendenti che son sorti, specialmente ma non soltanto in Africa, al posto dei territori Coloniali di una volta» (n. 14).
4. «Socializzare» non significa statalizzare o nazionalizzare
Dopo avere ampiamente trattato della differenza tra la dottrina della Chiesa e il programma del capitalismo, qualificato come «rigido», in evidente diversificazione da un capitalismo non «rigido»; dopo avere avanzato, le proposte per adattamenti e una revisione costruttiva, sia teorica che pratica, del diritto di proprietà dei mezzi di produzione in tale programma; dopo avere ricordato e confermato il principio della proprietà privata e avere dichiarato che è tuttora insegnato dalla Chiesa, il Pontefice passa a differenziare tali proposte – e soprattutto la «socializzazione» «di certi mezzi di produzione», «da non escludere, alle opportune condizioni» – dal programma del collettivismo, con cui qualcuno potrebbe maliziosamente confonderle.
In proposito afferma: «Se dunque la posizione del “rigido” capitalismo deve essere continuamente sottoposta a revisione in vista di una riforma sotto l’aspetto dei diritti dell’uomo, intesi nel modo più vasto e connessi con il suo lavoro, allora dallo stesso punto di vista si deve affermare che queste molteplici e tanto desiderate riforme non possono essere realizzate mediante l’eliminazione aprioristica della proprietà privata dei mezzi di produzione. Occorre infatti, osservare che la semplice sottrazione di quei mezzi di produzione (il capitale) dalle mani dei loro proprietari privati non è sufficiente per socializzarli in modo soddisfacente. Essi cessano di essere proprietà di un certo gruppo sociale, cioè dei proprietari privati, per diventare proprietà della società organizzata, venendo sottoposti all’amministrazione ed al controllo diretto di un altro gruppo di persone, di quelle cioè che, pur non avendone la proprietà, ma esercitando il potere nella società, dispongono di essi al livello dell’intera economia nazionale oppure dell’economia locale.
«Questo gruppo dirigente e responsabile può assolvere i suoi compiti in modo soddisfacente dal punto di vista del primato del lavoro – ma può anche adempierli male, rivendicando al tempo stesso per sé il monopolio dell’amministrazione e della disposizione dei mezzi di produzione e non arrestandosi neppure davanti all’offesa dei fondamentali diritti dell’uomo. Così, quindi, il solo passaggio dei mezzi di produzione in proprietà dello Stato, nel sistema collettivistico, non è certo equivalente alla “socializzazione” di questa proprietà» (n. 14).
Nel testo citato è chiarito in modo inequivocabile che la «socializzazione» di cui parla il Pontefice – e che non si può «escludere», quindi non contemplare programmaticamente; per «certi mezzi di produzione», quindi non per tutti; e «alle opportune condizioni», quindi non a ogni condizione – diverge radicalmente dalla statalizzazione e dalla collettivizzazione, il cui unico risultato si rivela essere un semplice mutamento di proprietà, tra l’altro, cioè indipendentemente dalla offesa alla giustizia, non obbligatoriamente felice: infatti, la «utopia di una società senza classi […] si rivela ben presto la creazione di nuove classi» (6) e «le riforme audaci, che sono necessarie, non hanno come obiettivo unico la collettivizzazione dei mezzi di produzione, ancora meno se con questo si intende la concentrazione di tutto nelle mani dello Stato, convertito nell’unica autentica forza capitalistica» (7).
Il proseguimento dell’ultima citazione del regnante Pontefice introduce alla illustrazione della intentio riformistica: «Queste riforme devono avere come scopo il permettere l’accesso di tutti alla proprietà, dal momento che essa costituisce in un certo modo condizione indispensabile della libertà e creatività dell’uomo, quello che gli permette di uscire dall’anonimato e dalla “alienazione”, quando si tratta di collaborare con il bene comune» (8). Tale intenzione riformistica si rivela essere quella di diffondere la proprietà, i cui possibili titolari possono essere, accanto ai singoli e allo Stato, le articolazioni del corpo sociale, i corpi intermedi.
5. I corpi intermedi e la ragione della proprietà privata
«Si può parlare di socializzazione solo quando sia assicurata la soggettività della società, cioè quando ognuno, in base al proprio lavoro, abbia il pieno titolo di considerarsi al tempo stesso il “com-proprietario” del grande banco di lavoro, al quale s’impegna insieme con tutti. E una via verso tale traguardo potrebbe essere quella di associare, per quanto è possibile, il lavoro alla proprietà del capitale e di dar vita a una ricca gamma di corpi intermedi a finalità economiche, sociali, culturali: corpi che godano di una effettiva autonomia nei confronti dei pubblici poteri, che perseguano i loro specifici obiettivi in rapporti di leale collaborazione vicendevole, subordinatamente alle esigenze del bene comune, e che presentino forma e sostanza di una viva comunità, cioè che in essi i rispettivi membri siano considerati e trattati come persone e stimolati a prendere parte attiva alla loro vita (cfr. Giovanni PP. XXIII, Lett. Enc. Mater et Magistra: AAS 53 (1961), p. 419)» (n. 14). Il proposito pontificio richiama la sentenza di Giovanni XXIII secondo cui «non basta affermare il carattere naturale del diritto di proprietà privata anche sui beni produttivi; ma ne va pure insistentemente propugnata la effettiva diffusione fra tutte le classi sociali» (9), e, quanto alle modalità, l’osservazione puntuale di Pio XII secondo cui «la nazionalizzazione delle imprese […], invece di attenuare il carattere meccanico della vita e del lavoro in comune, […] anche quando è lecita, rischia piuttosto di accentuarla ulteriormente», con il conseguente invito a «l’istituzione di associazioni o unità corporative, in tutte le branche dell’economia nazionale» (10). La proposta si fonda, in ultima analisi, su una ragione basilare che, «secondo il pensiero di San Tommaso d’Aquino», «soprattutto […] depone in favore della proprietà privata dei mezzi stessi di produzione» (n. 15).
Tale ragione tiene conto, «in generale, che l’uomo che lavora desidera non solo la debita remunerazione per il suo lavoro, ma anche che sia presa in considerazione nel processo stesso di produzione la possibilità che egli lavorando, anche in una proprietà comune, al tempo stesso sappia di lavorare “in proprio”. Questa consapevolezza viene spenta in lui nel sistema di un’eccessiva centralizzazione burocratica, nella quale il lavoratore si sente un ingranaggio di un grande meccanismo mosso dall’alto e – a più di un titolo – un semplice strumento di produzione piuttosto che un vero soggetto di lavoro, dotato di propria iniziativa. La dottrina della Chiesa ha sempre espresso la ferma e profonda convinzione che il lavoro umano non riguarda soltanto l’economia, ma coinvolge anche, e soprattutto, i valori personali. Il sistema economico stesso e il processo dl produzione traggono vantaggio proprio quando questi valori personali sono pienamente rispettati» (n. 15).
Perciò, «se accettiamo che per certi fondati motivi, eccezioni possono essere fatte al principio della proprietà privata – e nella nostra epoca siamo addirittura testimoni che è stato introdotto il sistema della proprietà “socializzata” -, tuttavia l’argomento personalistico non perde la sua forza né a livello di princìpi, né a livello pratico. Per essere razionale e fruttuosa, ogni socializzazione dei mezzi di produzione deve prendere in considerazione questo argomento. Si deve fare di tutto perché l’uomo, anche in un tale sistema, possa conservare la consapevolezza di lavorare “in proprio”. In caso contrario, in tutto il processo economico sorgono necessariamente danni incalcolabili e danni non solo economici, ma prima di tutto danni nell’uomo» (n. 15).
«Così, quindi, il principio della priorità del lavoro nei confronti del capitale è un postulato appartenente all’ordine della morale sociale» (n. 15), ma il pratico rispetto di tale postulato comporta la diffusione della proprietà o, almeno, di uno spirito proprietario. «Tale postulato ha la sua importanza-chiave tanto nel sistema costruito sul principio della proprietà privata dei mezzi di produzione, quanto nel sistema in cui la proprietà privata di questi mezzi è stata limitata anche radicalmente. Il lavoro è, in un certo senso, inseparabile dal capitale e non accetta sotto nessuna forma quell’antinomia, cioè la separazione e la contrapposizione in rapporto ai mezzi di produzione, che ha gravato sopra la vita umana negli ultimi secoli, come risultato di premesse unicamente economiche. Quando l’uomo lavora, servendosi dell’insieme dei mezzi di produzione, egli al tempo stesso desidera che i frutti di questo lavoro servano a lui e agli altri e che, nel processo stesso del lavoro, possa apparire come corresponsabile e co-artefice al banco di lavoro, presso il quale si applica» (n. 15).
Se «la dignità della persona umana esige dunque normalmente come fondamento naturale per vivere, il diritto all’uso dei beni della terra; a cui corrisponde l’obbligo fondamentale di accordare una proprietà privata, possibilmente a tutti» (11), «nel sistema in cui la proprietà privata […] è stata limitata anche radicalmente» (n. 15), sistema di cui «nella nostra epoca siamo […] testimoni» (n. 15), l’indispensabile processo di privatizzazione del capitale di Stato passa, in una prospettiva riformistica, attraverso una «socializzazione» di tale capitale, cioè una sua attribuzione alla società distinta dalla sua organizzazione.
6. Il dovere e il diritto al lavoro. Il problema del salario
Dopo la proprietà. viene naturalmente in questione il salario. Infatti, «se il lavoro – nel molteplice senso di questa parola – è un obbligo, cioè un dovere, al tempo stesso è anche una sorgente di diritti da parte del lavoratore. Questi diritti devono essere esaminati nel vasto contesto dell’insieme dei diritti dell’uomo» (n. 16).
In proposito il Papa dice: «parlando dell’obbligo del lavoro e dei diritti del lavoratore corrispondenti a questo obbligo, noi abbiamo in mente, prima di tutto, il rapporto tra il datore di lavoro – diretto o indiretto – e il lavoratore stesso» (n. 16).
«Se il datore di lavoro diretto è quella persona o istituzione, con la quale il lavoratore stipula direttamente il contratto di lavoro secondo determinate condizioni, allora come datore di lavoro indiretto si devono intendere molti fattori differenziati, oltre il datore di lavoro diretto, che esercitano un determinato influsso sul modo in cui si formano sia il contratto di lavoro, sia, in conseguenza, i rapporti più o meno giusti nel settore del lavoro umano» (n. 16).
Venendo ai diritti dei lavoratori, il Pontefice mette in risalto il primo, e cioè il diritto al lavoro, cui corrisponde il problema della disoccupazione. In proposito, le indicazioni si rifanno al quadro generale. Viene infatti detto che «per contrapporsi al pericolo della disoccupazione, per assicurare a tutti un’occupazione, le istanze che sono state noi definite come datore di lavoro indiretto devono provvedere ad una pianificazione globale in riferimento a quel banco di lavoro differenziato, presso il quale si forma la vita non solo economica, ma anche culturale di una data società: esse devono fare attenzione, inoltre, alla corretta e razionale organizzazione del lavoro a tale banco. Questa sollecitudine globale in definitiva grava sulle spalle dello Stato, ma non può significare una centralizzazione unilateralmente operata dai pubblici poteri. Si tratta, invece, di una giusta e razionale coordinazione nel quadro della quale deve essere garantita l’iniziativa delle singole persone, dei gruppi liberi, dei centri e complessi di lavoro locale, tenendo conto di ciò che è già stato detto sopra circa il carattere soggettivo del lavoro umano» (n. 18).
Quindi, funzione coordinatrice dello Stato rispetto alla vita autonoma della società in tutte le sue articolazioni. Analoghe considerazioni si impongono nei rapporti tra i singoli Stati e, all’interno dei singoli Stati, tra i diversi settori di occupazione, dal momento che solo «su tale via si può attuare il piano di un universale e proporzionato progresso di tutti» (n. 18). In proposito è indispensabile notare «che l’elemento costitutivo e, al tempo stesso, la più adeguata verifica di questo progresso nello spirito di giustizia e di pace […] è proprio la continua rivalutazione del lavoro umano, sia sotto l’aspetto della sua finalità oggettiva, sia sotto l’aspetto della dignità del soggetto d’ogni lavoro, che è l’uomo. Il progresso, del quale si tratta, deve compiersi mediante l’uomo e per l’uomo e deve produrre frutti nell’uomo» (n. 18).
«Tutto ciò che è stato detto in precedenza sulla dignità del lavoro, sulla dimensione oggettiva e soggettiva del lavoro dell’uomo, trova un’applicazione diretta al problema del lavoro agricolo e alla situazione dell’uomo che coltiva la terra nel duro lavoro dei campi. Si tratta, infatti, di un settore molto vasto dell’ambiente di lavoro del nostro pianeta, non limitato alle società che hanno già conquistato un certo grado di sviluppo e di progresso. Il mondo agricolo, che offre alla società i beni necessari per il suo quotidiano sostentamento, riveste una importanza fondamentale» (n. 21). «Perciò occorre proclamare e promuovere la dignità […] specialmente del lavoro agricolo, nel quale l’uomo in modo tanto eloquente, “soggioga” la terra ricevuta in dono da Dio ed afferma il suo “dominio” nel mondo visibile» (n. 21).
Nello stesso ambito del diritto al lavoro si situano il problema delle persone handicappate e quello della emigrazione (cfr. nn. 22 e 23).
All’interno della verifica del progresso sociale «è particolarmente importante ed è, in un certo senso, la verifica-chiave» (n. 19), «la concreta verifica della giustizia di tutto il sistema socio-economico e, ad ogni modo, del suo giusto funzionamento» (n. 19), il giusto salario.
Infatti, «il problema chiave dell’etica sociale […] è quello della giusta remunerazione per il lavoro che viene eseguito. Non c’è nel contesto attuale un altro modo più importante per realizzare la giustizia nei rapporti lavoratore-datore di lavoro, di quello costituito appunto dalla remunerazione del lavoro» (n. 19), dal momento che «il rapporto tra il datore di lavoro (prima di tutto diretto) e il lavoratore si risolve in base al salario, cioè mediante la giusta remunerazione del lavoro che è stato eseguito» (n. 19).
«In ogni sistema, senza riguardo ai fondamentali rapporti esistenti tra il capitale e il lavoro, il salario, cioè la remunerazione del lavoro, rimane una via concreta, attraverso la quale la stragrande maggioranza degli uomini può accedere a quei beni che sono destinati all’uso comune: sia beni della natura, sia quelli che sono frutto della produzione» (n. 19). In questa direzione si apre il campo del cosiddetto salario familiare, così come di altri provvedimenti sociali orientati al sostegno della famiglia, alla rivalutazione sociale dei compiti materni e, quindi, alla vera promozione della donna. Accanto al salario, vengono in questione anche altre prestazioni sociali relative alla vita e alla salute dei lavoratori e delle loro famiglie, il diritto al riposo settimanale e annuale, ecc.
7. Il sindacato, la lotta per la giustizia e la ricostruzione della comunità
Diffusione della proprietà, dunque, e salario familiare sono i modi principali indicati dal Pontefice per migliorare la fruizione dei beni destinati a tutti. Un ultimo punto del documento è quello relativo al diritto dei lavoratori di associarsi, diritto che costituisce anche il presupposto per la costruzione dello strumento che permette il perseguimento di un ordine socio-etico «nelle moderne società industrializzate» (n. 20), cioè il sindacato.
Il compito del sindacato consiste nella «difesa degli interessi esistenziali dei lavoratori in tutti i settori, nei quali entrano in causa i loro diritti» (n. 20). Di «associazioni di questo tipo» (n. 20) possono servirsi i rappresentanti di ogni professione: «Esistono, quindi, i sindacati degli agricoltori e dei lavoratori di concetto; esistono pure le unioni dei datori di lavoro» (n. 20).
«La dottrina sociale cattolica non ritiene che i sindacati costituiscano solamente il riflesso della struttura “di classe” della società e che siano l’esponente della lotta di classe, che inevitabilmente governa la vita sociale. Sì, essi sono un esponente della lotta per la giustizia sociale, per i giusti diritti degli uomini del lavoro a seconda delle singole professioni. Tuttavia, questa “lotta” deve essere vista come un normale adoperarsi “per” il giusto bene: in questo caso, per il bene che corrisponde alle necessità e ai meriti degli uomini del lavoro, associati secondo le professioni; ma questa non è una lotta “contro” gli altri. Se nelle questioni controverse essa assume anche un carattere di opposizione agli altri, ciò avviene in considerazione del bene della giustizia sociale, e non per “la lotta”, oppure per eliminare l’avversario. Il lavoro ha come sua caratteristica che, prima di tutto, esso unisce gli uomini, ed in ciò consiste la sua forza sociale: la forza di costruire una comunità. In definitiva, in questa comunità devono in qualche modo unirsi tanto coloro che lavorano, quanto coloro che dispongono dei mezzi di produzione, o che ne sono i proprietari. Alla luce di questa fondamentale struttura di ogni lavoro – alla luce del fatto che, in definitiva, in ogni sistema sociale il “lavoro” e il “capitale” sono le indispensabili componenti del processo di produzione – l’unione degli uomini per assicurarsi i diritti che loro spettano, nata dalla necessità del lavoro, rimane un fattore costruttivo di ordine sociale e di solidarietà, da cui non è possibile prescindere» (n. 20).
Ecco dunque ribadita la funzione del sindacato, rappresentante di legittimi interessi sociali, quantitativi, ma anche qualitativi – si parla, infatti, del «bene che corrisponde alle necessità e ai meriti degli uomini del lavoro» (n. 20) -, che pratica una «lotta leale: non per eccitare l’odio di classe, ma per garantire al ceto degli operai una condizione sicura e stabile» (12). «Al disopra della distinzione tra datori di lavoro e lavoratori, che minaccia di divenire sempre più una inesorabile separazione, c’è il lavoro stesso, il lavoro, compito della vita personale di tutti svolto al fine di procurare alla società i beni e i servizi che le sono necessari o utili. Così inteso, il lavoro è atto, per sua stessa natura, a unire gli uomini veramente e intimamente; è capace di ridare forma e struttura alla società divenuta amorfa e priva di consistenza, e, mediante ciò, di sanare nuovamente le relazioni fra la società e lo Stato» (13).
8. Le possibili deviazioni del sindacato e l’uso dello sciopero
Il Papa mette quindi in guardia contro «una specie di “egoismo” di gruppo o di classe» (n. 20): infatti, benché le richieste sindacali «possano e debbano tendere pure a correggere – per riguardo al bene comune di tutta la società – anche tutto ciò che è difettoso nel sistema di proprietà dei mezzi di produzione o nel modo di gestirli e di disporne. La vita sociale ed economico-sociale è certamente come un sistema di “vasi comunicanti”, ed a questo sistema deve pure adattarsi ogni attività sociale, che ha come scopo quello di salvaguardare i diritti dei gruppi particolari» (n. 20).
Se «in questo senso l’attività dei sindacati entra indubbiamente nel campo della “politica”, intesa questa come una prudente sollecitudine per il bene comune» (n. 20), il loro compito non è di fare politica nel senso corrente, né quello di essere partiti politici, con i quali non devono «avere dei legami troppo stretti» (n. 20), dal momento che, se ne hanno, non svolgono il loro compito specifico, «che è quello di assicurare i giusti diritti degli uomini del lavoro nel quadro del bene comune dell’intera società» (n. 20), e sono facilmente strumentalizzati.
Fra i mezzi a disposizione del sindacato per il perseguimento di questi «giusti diritti» (n. 20) vanno annoverati a diverso titolo, il «loro impegno di carattere istruttivo, educativo e di promozione dell’auto-educazione» (n. 20) – affinché, «grazie all’opera dei suoi sindacati, il lavoratore possa non soltanto “avere” di più, ma prima di tutto “essere” di più» (n. 20) -, e il «metodo dello “sciopero”, cioè del blocco del lavoro» (n. 20), «metodo riconosciuto dalla dottrina sociale cattolica come legittimo, alle debite condizioni e nei giusti limiti» (n. 20), ma «mezzo estremo» (n. 20), di cui non si «può abusare» (n. 20), «specialmente per giochi “politici”» (n. 20) e nel campo «di servizi essenziali alla convivenza civile» (n. 20).
9. Dalla virtù della laboriosità alla spiritualità del lavoro
Sull’asse delle considerazioni etico-sociali, che, partendo dalla Genesi, descrivono la posizione dell’uomo nel creato, dopo il peccato e nonostante il peccato, come una situazione di vocazione a dominare la terra, e sulla solida base della virtù della laboriosità (cfr. n. 9) si innestano gli elementi «di una spiritualità del lavoro, tale da aiutare tutti gli uomini ad avvicinarsi per il suo tramite a Dio, Creatore e Redentore, a partecipare ai suoi piani salvifici nei riguardi dell’uomo e del mondo e ad approfondire nella loro vita l’amicizia con Cristo, assumendo mediante la fede una viva partecipazione alla sua […] missione» (n. 24).
Perciò dice il Papa che «l’uomo creato a immagine di Dio, mediante il suo lavoro partecipa all’opera del Creatore […]. Questa verità noi troviamo già all’inizio stesso della Sacra Scrittura, nel Libro della Genesi, dove l’opera stessa della creazione è presentata nella forma di un “lavoro” compiuto da Dio durante i “sei giorni” (cfr. Gen. 2, 2; Es. 20, 8-11; Dt. 5, 12 ss.), per “riposare” il settimo giorno (cfr. Gen. 2, 3)» (n. 25).
«L’uomo deve imitare Dio sia lavorando come pure riposando, dato che Dio stesso ha voluto presentargli la propria opera creatrice sotto la forma del lavoro e del riposo» (n. 25).
Di questa imitazione di Dio creatore è modello perfetto Gesù Cristo, con la sua vita nascosta a Nazareth, nell’esercizio dell’attività di carpentiere. E alla scuola del divino Maestro opera e insegna san Paolo, con esortazioni e comandi.
Quindi l’imitazione del Padre passa attraverso l’imitazione del Figlio – per Filium ad Patrem – e attraverso la croce di Cristo passa la sopportazione della fatica che il peccato ha aggiunto al lavoro, all’opera dell’uomo. Così, «il sudore e la fatica, che il lavoro necessariamente comporta nella condizione presente dell’umanità, offrono al cristiano e ad ogni uomo, che è chiamato a seguire Cristo, la possibilità di partecipare nell’amore all’opera che il Cristo è venuto a compiere (cfr. Gv. 17, 4)» (n. 27).
«Nel lavoro umano il cristiano ritrova una piccola parte della croce di Cristo e l’accetta nello stesso spirito di redenzione, nel quale il Cristo ha accettato per noi la sua croce. Nel lavoro, grazie alla luce che dalla risurrezione di Cristo penetra dentro di noi, troviamo sempre un barlume della vita nuova, del nuovo bene, quasi come un annuncio dei nuovi cieli e di una terra nuova” (cfr. 2 Pt. 3, 13; Ap. 21, 1), i quali proprio mediante la fatica del lavoro vengono partecipati dall’uomo e dal mondo» (n. 27), di modo che «l’uomo, diventando sempre più ciò che per volontà di Dio deve essere, si prepara a quel “riposo” che il Signore riserva ai suoi servi ed amici (cfr. Mt. 25. 21)» (n. 25).
Così, «il cristiano che sta in ascolto della parola del Dio vivo, unendo il lavoro alla preghiera, sappia quale posto occupa il suo lavoro non solo nel progresso terreno, ma anche nello sviluppo del Regno di Dio, al quale siamo tutti chiamati con la potenza dello Spirito Santo e con la parola del Vangelo» (n. 27).
Giovanni Cantoni
Note:
(1) LEONE XIII, Enciclica Rerum novarum, del 15-5-1891, cit., in Le encicliche sociali dei Papi. Da Pio IX a Pio XII (1854-1956), cit., p. 187.
(2) GIOVANNI XXIII, Enciclica Mater et Magistra, del 15-5-1961, in Grandi encicliche sociali, cit., p. 293.
(3) Scoprire i nuovi significati del lavoro umano. L’enciclica sociale di Giovanni Paolo II, in La Civiltà Cattolica, anno 132, n. 3151, 3-10-1981, p. 10.
(4) Cfr. PIO XI, Enciclica Divini Redemptoris, cit., in Le encicliche sociali dei Papi. Da Pio IX a Pio XII (1854-1956), cit., p. 627.
(5) IDEM, Enciclica Quadragesimo anno, cit., ibid., pp. 468-469.
(6) GIOVANNI PAOLO II, Omelia della messa ai giovani e agli studenti, a Belo Horizonte, dell’1-7-1980, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. III, 2, p. 8.
(7) IDEM, Allocuzione ai vescovi del Brasile, a Fortaleza, del 10-7-1980, ibid., p. 232.
(8) Ibidem. Credo indispensabile segnalare, comunque, che il termine «socializzazione» non compare nel testo latino, e quanto viene così tradotto è quasi sempre «collatio in commune» e non una pur esistente «socializatio» (cfr., per esempio, CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, nn. 6, 25, 42 e 75).
(9) GIOVANNI XXIII, Enciclica Mater et Magistra, cit. in Grandi encicliche sociali, cit., p. 294.
(10) PIO XII, Lettera per la XXXIII Settimana Sociale di Francia, del 10-7-1946, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. VIII, pp. 456-457.
(11) IDEM, Radiomessaggio Natalizio al mondo, del 24-12-1942, ibid., vol. IV, p. 337.
(12) IDEM, Discorso al Convegno romano di studi sul lavoro femminile, promosso dalle Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani, del 15-8-1945, ibid., vol. VII, p. 137.
(13) IDEM, Lettera per la XXXIV Settimana Sociale di Francia, del 18-7-1947, ibid., vol. IX, p. 590.