Giovanni Cantoni, Cristianità n. 78-79 (1981)
Dopo la terza enciclica di Giovanni Paolo II
Dottrina sociale e lavoro umano nel messaggio della «Laborem exercens»
VI. Osservazioni per una lettura “integrale” dell’enciclica
Il necessario collegamento del documento pontificio con il Magistero precedente. I messaggi riformistici lanciati oltre la cortina di ferro: dalla statalizzazione alla «socializzazione». Ipotesi sulla tragedia polacca e i suoi dilemmi.
A conclusione della lettura dell’enciclica di Giovanni Paolo II sul lavoro umano, mi pare necessaria qualche osservazione, che credo si imponga sia a spiegazione della lettura stessa, sia a integrazione di elementi trascurati nel corso di essa, in quanto isolatamente incidentali.
La prima di queste osservazioni mi spinge a ripetere quanto ho già detto d’esordio ed è contenuto nel documento, allorché il Papa afferma di volere riflettere principalmente sul lavoro umano, dedicando questa riflessione «all’uomo nel vasto contesto di questa realtà che è il lavoro» (n. 1) e ciò facendo «non in modo difforme, ma piuttosto in collegamento organico con tutta la tradizione» (n. 2) della dottrina sociale della Chiesa e delle sue iniziative, sempre in campo sociale. Ebbene, credo si debba affermare di nuovo che il criterio di composizione del documento deve essere assunto anche come criterio di lettura, come tecnica feconda per la sua reale comprensione e per la identificazione delle «cose nuove e cose antiche» che in esso sono contenute, di modo che tali «cose nuove» non siano interpretate come contrapposte alle «cose antiche», o ancora meno come negazione di esse, ma piuttosto come organici sviluppi. Perciò, questo documento di riflessione e di approfondimento di una importantissima dimensione della vita dell’uomo, proprio perché verte su tema rilevante – «probabilmente la chiave essenziale […] di tutta la questione sociale» (n. 3) – necessita di essere letto in una prospettiva di sintonia non soltanto con tutto il magistero del regnante Pontefice, ma anche all’interno del grande quadro costituito dal corpo della dottrina sociale della Chiesa. Si potrebbe notare che questa esigenza sostanzia la corretta esegesi di ogni nuovo contributo magisteriale. Non lo nego, ma se la riaffermo in questa occasione non è certo con l’intenzione di escluderla in altre circostanze, ma solamente per sottolineare il fatto che tale esigenza è tanto più urgente e da soddisfare imperativamente, quanto più la nuova espressione del Magistero è specifica, divenendo così essenziale al fine di non perdere l’equilibrio nella recezione e nella interpretazione del suo messaggio (1).
Questa esigenza, poi, si fa ancora maggiore quando il messaggio verte su una realtà il cui significato viene enfatizzato rispetto alla corrente semantizzazione – «con la parola “lavoro” viene indicata ogni opera compiuta dall’uomo, indipendentemente dalle sue caratteristiche e dalle circostanze, cioè ogni attività umana che si può e si deve riconoscere come lavoro in mezzo a tutta la ricchezza delle azioni, delle quali l’uomo è capace ed alle quali è predisposto dalla stessa sua natura, in forza della sua umanità» (premessa) – e la cui espressione concreta è un «agere», un «facere», un «operari», che si presenta, quindi, come una realtà «dinamica», quasi come un rapporto, una «relatio», continuamente ridefinito dai suoi termini «statici» – «il lavoro inteso come un’attività “transitiva”, cioè tale che, prendendo l’inizio nel soggetto umano, è indirizzata verso un oggetto esterno» (n. 4) -, fra i quali è giustamente privilegiato l’uomo, dal cui «esse» l’«operari» consegue. A conferma del carattere «dinamico» del lavoro e quindi, in un certo senso, indefinito e sfuggente, «relativo», si può notare come nelle costanti elencazioni dei contenuti essenziali della dottrina sociale naturale e cristiana raramente esso compare accanto alla famiglia, alla proprietà privata, ai corpi intermedi e allo Stato.
1. Dalla giustizia alla carità e alla riforma dei costumi
Così, per esempio – e per restare all’interno del magistero del regnante Pontefice – si deve osservare come la sottolineatura massiccia dei diritti dell’«uomo del lavoro» – facilmente riducibile, nella corrente lettura, a «lavoratore» simpliciter – e il continuo riferimento alla giustizia, obbliga a ricordare che «l’esperienza del passato e del nostro tempo dimostra che la giustizia da sola non basta e che, anzi, può condurre alla negazione e all’annientamento di se stessa, se non si consente a quella forza più profonda, che è l’amore, di plasmare la vita umana nelle sue varie dimensioni. È stata appunto l’esperienza storica che, fra l’altro, ha portato a formulare l’asserzione: summum ius, summa iniuria. Tale affermazione non svaluta la giustizia e non attenua il significato dell’ordine che su di essa si instaura; ma indica solamente, sotto altro aspetto, la necessità di attingere alle forze dello spirito, ancor più profonde, che condizionano l’ordine stesso della giustizia» (2).
Uscendo poi dall’ambito del magistero del Santo Padre Giovanni Paolo II, ma sullo stesso punto, si deve necessariamente richiamare la pratica costante della dottrina sociale consistente nell’evidenziare la parte che, nella «graduale soluzione della questione sociale» (n. 3) – «che continuamente si ripresenta e si fa sempre più complessa» (n. 3) e che «deve essere cercata nella direzione di “rendere la vita umana più umana” (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, 38: AAS 58 (1966), p. 1055)» (n. 3) -, ha il rinnovamento dei costumi, la riforma morale, dal momento che in tale dottrina si nega che «la così detta questione sociale sia soltanto economica, laddove sta con ogni certezza ch’essa è principalmente morale e religiosa, e che perciò bisogna scioglierla a tenore delle leggi morali e religiose» (3).
2. Il problema del risparmio e del diritto di trasmissione ereditaria
Passando ad altro punto – ma nella stessa prospettiva – si deve notare come Giovanni Paolo II, per esempio, in conformità con la angolazione adottata nel suo testo, sottolinei intenzionalmente lo scopo ultimo del lavoro, «l’uomo stesso» (n. 6; cfr. anche nn. 9 e 16) e metta invece in minore risalto e luce lo scopo immediato della attività lavorativa, «il fine prossimo che si propone l’artigiano, […] la proprietà privata» (4), sia nella forma di «cosa» che in quella di salario, di mercato. Ma il prodotto del lavoro può diventare «capitale» soltanto se sottratto al consumo – nota lo stesso Pontefice che «il lavoro è una delle caratteristiche che distinguono l’uomo dal resto delle creature, la cui attività, connessa con il mantenimento della vita, non si può chiamare lavoro» (premessa) – e tale sottrazione, che costituisce propriamente il processo di «capitalizzazione», è frutto del risparmio, degno pendant della laboriosità di cui tesse le lodi il Papa (cfr. n. 9), applicato al prodotto del lavoro, così come nell’uso del capitale compare ed è ben presente il rischio di investimento. E merita segnalazione non soltanto il risparmio individuale, personale, ma anche quello familiare, dal momento che è proprio nella famiglia che consuetamente si legano «il diritto naturale di proprietà privata e di trasmissione ereditaria dei propri beni, diritto che lo Stato non può sopprimere, perché “l’uomo è anteriore allo Stato” (Encicl. Rerum novarum, n. 5)» (5). In verità questi elementi compaiono in filigrana quando nel testo si nota che «l’uomo […] può rendersi conto facilmente che col suo lavoro entra in un duplice patrimonio, cioè nel patrimonio di ciò che è dato a tutti gli uomini nelle risorse della natura, e di ciò che gli altri hanno già in precedenza elaborato sulla base di queste risorse» (n. 13), così che, «se nel processo del lavoro si scopre qualche dipendenza, questa è la dipendenza dal Datore di tutte le risorse della creazione, ed è a sua volta la dipendenza da altri uomini, da coloro al cui lavoro ed alle cui iniziative dobbiamo le già perfezionate e ampliate possibilità del nostro lavoro» (n. 13). Ma queste possibilità sono il risultato della appropriazione da parte dell’uomo di parti delle diverse ricchezze della natura (cfr. n. 12), cioè di proprietà frutto del lavoro, ma anche del risparmio e dell’investimento, e possibile oggetto della trasmissione ereditaria, e questa complessità della «dipendenza da altri uomini» (n. 13) deve essere tenuta assolutamente presente quando si deve interpretare un testo come il seguente: «Se infatti è una verità che il capitale, come l’insieme dei mezzi di produzione, è al tempo stesso il prodotto del lavoro di generazioni, allora è parimente vero che esso si crea incessantemente grazie al lavoro effettuato con l’aiuto di quest’insieme dei mezzi di produzione, che appaiono come un grande banco di lavoro, al quale s’impegna, giorno per giorno, la presente generazione dei lavoratori» (n. 14). Diversamente i diritti della «presente generazione dei lavoratori» sono esposti al rischio di subentrare ingiustamente a quelli di una «generazione di lavoratori» passata, che ha dissodato un campo – per usare l’esempio di Leone XIII – rendendolo «da silvestre […] fruttifero, da sterile ferace. Questi miglioramenti prendono siffattamente corpo in quel terreno, che la maggior parte ne sono inseparabili. Or che giustizia sarebbe questa – si chiede Leone XIII -, che un altro il quale non l’ha lavorato, subentrasse a goderne i frutti? Come l’effetto appartiene alla sua causa, così il frutto del lavoro deve appartenere a chi lavora» (6), sì che ne possa lecitamente e legittimamente disporre anche a vantaggio dei suoi discendenti.
Si può, da tutto questo, ricavare la sentenza secondo cui, per esempio, il Papa spregia il risparmio o nega il diritto di trasmissione ereditaria? No certamente, dal momento che per esempio, parlando dei sindacati dei lavoratori industriali, ammette che «i rappresentanti di ogni professione possano servirsene [di «associazioni di questo tipo»] per assicurare i loro rispettivi diritti» (n. 20), e prevede, tra l’altro, «le unioni dei datori di lavoro» (n. 20), ai quali implicitamente vengono riconosciuti dei diritti.
Ma, come si vede, è necessaria, forse indispensabile, quella che, servendomi di un modo espressivo del Pontefice stesso, chiamerei una lettura «integrale» del suo documento, cioè una lettura fatta alla luce di tutto il suo magistero e di tutto il Magistero sociale della Chiesa, allo scopo di evitare letture parziali, dialettiche e dialettizzanti. Guai ai lettori di una sola enciclica!
3. Per una riforma del regime collettivistico?
Una seconda osservazione sul testo si costruisce sui numerosi cenni, variamente sparsi in tutto il documento, nei quali le riforme auspicate nel regime socio-economico del mondo detto «libero» vengono dichiarate auspicabili, esplicitamente o implicitamente, anche nei paesi soggetti al giogo comunista, alla tirannia di chi pratica l’«abuso dell’idea di giustizia», per tacere di quello dell’idea di pace.
Del regime socio-economico in essi instaurato «siamo […] testimoni» (n. 15), dice il Papa, e a suo proposito «non si può e non è nemmeno necessario entrare in particolari, poiché questi sono conosciuti sia grazie ad una vasta letteratura, sia in base alle esperienze pratiche» (n. 11): si tratta della storica incarnazione della cosiddetta «dittatura del proletariato», cioè del «monopolio del potere nelle singole società, per introdurre in esse, mediante l’eliminazione della proprietà privata dei mezzi di produzione, il sistema collettivistico» (n. 11), quindi della realizzazione di quel «programma del collettivismo, proclamato dal marxismo e realizzato in vari Paesi del mondo» (n. 14), dal quale «diverge radicalmente» (n. 14) «la dottrina della Chiesa sulla proprietà, sul diritto di proprietà privata, anche quando si tratta di mezzi di produzione» (n. 14), ricordato, confermato e «tuttora insegnato dalla Chiesa» stessa (n. 14).
4. Diritti del lavoro e diritti dell’uomo
In tale regime socio-economico, dopo «l’eliminazione aprioristica della proprietà privata dei mezzi di produzione» (n. 14) – dal momento che «l’attuazione di questo programma premette la collettivizzazione dei mezzi di produzione» (n. 11) -, la «nuova classe», cioè il «gruppo di persone […] che, pur non avendone la proprietà, ma esercitando il potere nella società, dispongono di essi al livello dell’intera economia nazionale oppure dell’economia locale» (n. 14), «può assolvere i suoi compiti in modo soddisfacente dal punto di vista del primato del lavoro» (n. 14). Ma «i diritti umani che scaturiscono dal lavoro» (n. 16) «devono essere esaminati nel vasto contesto dell’insieme dei diritti dell’uomo» (n. 16), in considerazione del fatto che «il rispetto di questo vasto insieme di diritti dell’uomo costituisce la condizione fondamentale per la pace» (n. 16). Infatti, «l’uomo che lavora desidera non solo la debita remunerazione per il suo lavoro, ma anche che sia presa in considerazione nel processo stesso di produzione la possibilità che egli lavorando, anche in una proprietà comune, al tempo stesso sappia di lavorare “in proprio”. Questa consapevolezza viene spenta in lui nel sistema di un’eccessiva centralizzazione burocratica, nella quale il lavoratore si sente un ingranaggio di un grande meccanismo mosso dall’alto e – a più di un titolo – un semplice strumento di produzione piuttosto che un vero soggetto di lavoro, dotato di propria iniziativa. La dottrina della Chiesa ha sempre espresso la ferma e profonda convinzione che il lavoro umano non riguarda soltanto l’economia, ma coinvolge anche, e soprattutto, i valori personali» (n. 15).
Ergo, la ipotizzata possibilità che la «nuova classe» assolva «i suoi compiti in modo soddisfacente dal punto di vista del primato del lavoro» (n. 14) non impedisce che la struttura sociale globale porti, in quanto tale, «all’offesa dei fondamentali diritti dell’uomo» (n. 14), che non sono assolutamente esauriti dai diritti del lavoro e che nel loro insieme soltanto costituiscono «la condizione fondamentale per la pace» (n. 16). Infatti, «il senso essenziale dello Stato, come comunità politica, consiste nel fatto che la società o chi la compone, il popolo, è sovrano della propria sorte. Questo senso non viene realizzato, se, al posto dell’esercizio del potere con la partecipazione morale della società o del popolo, assistiamo all’imposizione del potere da parte di un determinato gruppo a tutti gli altri membri di questa società» (7): ed è precisamente quanto accade in ogni regime comunista.
Siccome, poi, «il sistema economico stesso e il processo di produzione traggono vantaggio proprio quando questi valori personali sono pienamente rispettati» (n. 15), e «in caso contrario, in tutto il processo economico sorgono necessariamente danni incalcolabili» (n. 15), ecco che le drammatiche condizioni economiche in cui versano i paesi a regime collettivistico si rivelano testimonianze e tragica conferma della nota sentenza di Leone XIII, secondo cui «le fonti stesse della ricchezza, tolto all’ingegno e all’industria individuale ogni stimolo, inaridirebbero: e la sognata uguaglianza non altro sarebbe di fatto che una condizione universale di abiezione e di miseria» (8).
5. I problemi politici sollevati da una ipotizzata decongestione dell’economia statalizzata
Di fronte a questa situazione, che conosce sia di principio che per diretta esperienza, il Pontefice lancia oltre la cortina di ferro programmi riformistici, tesi alla decongestione della economia statalizzata, nella forma di una «socializzazione» di ritorno, cioè di un trasferimento del potere economico, della gestione del «capitale», dallo Stato alla società e quindi a sue articolazioni, corpi intermedi sui generis come possono essere industrie autogestite, nella prospettiva della instaurazione di un lavoro «in proprio» che è la forma – nella nostra economia complessa – per rispettare la «ragione che depone in favore della proprietà privata dei mezzi […] di produzione» (n. 15).
Il mondo si chiede quale può essere l’esito storico di questi messaggi, con particolare attenzione alla Polonia, che ne è, con ogni evidenza, la destinataria privilegiata. La risposta a questo quesito sta nella verifica del rapporto tra «il monopolio dell’amministrazione e della disposizione dei mezzi di produzione» (n. 14) e il «monopolio del potere nelle singole società» (n. 11): se il «sistema di un’eccessiva centralizzazione burocratica, nella quale il lavoratore si sente un ingranaggio di un grande meccanismo mosso dall’alto» (n. 15) è il frutto inevitabile del fatto che «la società […], qual è immaginata dal socialismo, non può esistere né concepirsi disgiunta da una costrizione veramente eccessiva» (9), dalle due l’una: o la rivendicazione socio-economica trascende in rivendicazione socio-politica e oltre – in considerazione dell’ateismo sistematico (10) -, oppure il sindacato, cioè l’organismo rivendicativo, diventa di Stato, sì che il regime si trasforma, mutatis mutandis, in quella parodia del regime corporativo che si realizzò, per esempio, nel regime fascista, con qualche sostanziale peggioramento, derivante dall’assenza della parte padronale, in Polonia coincidente con lo Stato, ad un tempo padrone e giudice. E questo regime «condendo» si può descrivere, con i dovuti tagli, con le parole di Pio XI a proposito del-
l’esperimento corporativo fascista: «Lo Stato riconosce giuridicamente il sindacato e non senza carattere monopolistico […]. L’ascrizione al sindacato è facoltativa, ed è soltanto in questo senso che l’organizzazione sindacale può dirsi libera […]. Lo sciopero è vietato» (11).
Giovanni Cantoni
Note:
(1) L’esigenza di questa lettura collegata ai precedenti magisteriali si evidenzia anche confrontando il proposito di Giovanni XXIII, che nella Mater et Magistra dice di volere «ribadire e precisare punti di dottrina già esposti» (in Grandi encicliche sociali, cit., p. 275) e che presenta la sua enciclica come «la sintesi degli insegnamenti di tre Papi: Leone e i due Pii, il decimoprimo e il duodecimo» (Allocuzione ai lavoratori, del 14-5-1961, in Discorsi Messaggi Colloqui del Santo Padre Giovanni XXIII, cit., p. 296), con quello di Giovanni Paolo II che afferma di scrivere «Non tanto per raccogliere e ripetere ciò che è giù contenuto nella dottrina della chiesa» (n. 3).
(2) GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Dives in misericordia, del 30-11-1980, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. III, 2, p. 1562.
(3) LEONEX XIII, Enciclica Graves de communi, del 18-1-1901, in Le encicliche sociali dei Papi. Da Pio IX a Pio XII (1854-1956), cit., p. 230. Cfr. anche PIO XI, Enciclica Quadragesimo anno, cit., ibid., pp. 467-468.
(4) IDEM, Enciclica Rerum novarum, cit., ibid., p. 177.
(5) PIO XI, Enciclica Quadragesimo anno, cit., ibid., pp. 450-451.Vedi anche LEONE XIII, Enciclica Rerum novarum, cit., ibid., p. 181: «Per legge inviolabile di natura incombe al padre il mantenimento della prole: e per impulso della natura medesima, che gli fa scorgere nei figli un’immagine di sé, e quasi un’espansione e continuazione della sua persona, egli è mosso a provvederli in modo, che nel difficile corso della vita possano onestamente far fronte ai propri bisogni: cosa non possibile ad ottenersi se non mediante l’acquisto di beni fruttiferi, ch’egli poi trasmetta loro in retaggio».
(6) LEONE XIII, Enciclica Rerum novarum, cit., ibid., p. 180.
(7) GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Redemptor hominis, del 4-3-1979, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, Vol. II, 1, p. 641.
(8) LEONE XIII, Enciclica Rerum novarum, cit., in Le encicliche sociali dei Papi. Da Pio IX a Pio XII (1854-1956), cit., p. 182.
(9) PIO XI, Enciclica Quadragesimo anno, cit., ibid., p. 475.
(10) Cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, n. 20.
(11) PIO XI, Enciclica Quadragesimo anno, cit., in Le encicliche sociali dei Papi. Da Pio IX a Pio XII. (1854-1956), cit., pp. 466-467.