Di Domenico Menorello del 01/02/2020
Caro direttore, mentre leggevo la recente ‘Relazione al Parlamento sullo stato delle dipendenze in Italia’ sono riaffiorate alla mia memoria un’immagine e un’esperienza dell’adolescenza, che lasciarono – grazie a Dio – il segno sulla mia giovinezza. In una serata piena di stelle di un campo estivo parrocchiale sulle Dolomiti di 35 anni fa, un giovane prete domandò a bruciapelo a noi quindicenni attorno a un fuoco: «Voi perché non vi drogate?», bocciando una dopo l’altra le raffazzonate risposte ‘moralmente corrette’, così come quelle dettate da preoccupazioni per la salute. Non gli bastava nemmeno la paura per le tante morti di amici poco più grandi di noi, in quegli anni falciati a decine dall’eroina. Fu soddisfatto solo quando uno di noi semplicemente rispose che non lo faceva perché «non ne ho bisogno».
A quale bisogno esistenziale risponde la droga? Questa domanda non viene più posta. Anzi, di fronte al dramma sociale descritto dalle impressionanti 296 pagine del Dipartimento politiche antidroga della Presidenza del Consiglio – 660mila ragazzi consumatori di droghe nel 2018 (il 25,6%) – Governo e Parlamento hanno offerto un silenzio a mio avviso immorale. Dopo la sentenza con la quale la Cassazione ha definito «legittima» la coltivazione domestica di cannabis a «uso personale», nei giorni scorsi solo poche voci si sono levate per denunciare i danni neuropsichiatrici provocati massivamente dalle cosiddette droghe leggere. Perché, salvo sparute eccezioni, le forze parlamentari tacciono di fronte alle conseguenze sanitarie attestate dalle fonti governative preposte? E perché evidenze tanto gravi sulla salute dei giovani sembrano non avere alcun ruolo nel contenere il dilagare dell’utilizzo di droghe? Perché non scatta una rivolta dei padri e delle madri a difesa dei nostri ragazzi? E come è potuto accadere che il rischio di danni neurofisici tanto estesi non abbia trattenuto le sezioni unite penali della Cassazione?
Aveva davvero ragione quel giovane prete: a spingere verso la droga ci sono ragioni più profonde. Dobbiamo aiutarci ad avere il coraggio di osare un giudizio esistenziale e chiedere un dialogo pubblico su un livello più essenziale, che metta a nudo il dramma umano, il ‘bisogno’ di cui la droga pretende di essere una risposta.
La droga, pesante o leggera che sia, allontana la realtà, promette una fuga dalle circostanze concrete. È il crinale più grave. Perché il lasciarsi interrogare dalla realtà, dalla vita come ‘dato’, dalla sua bellezza come dalla sua sfidante drammaticità, è la strada per imparare uno sguardo pienamente umano, per desiderare e sperare il compimento di sé in una pienezza di vita. Chiudere questa apertura è disumano. Se cerchiamo di fuggire il reale è perché di esso prevale la paura, come se si volesse fuggire da un corridoio senza luce, pieno di nulla. A far paura è il nichilismo, affermato teoricamente nella sua versione edulcorata del relativismo, o inculcato dalla mentalità dominante. La droga dilaga se svanisce la speranza di un senso nella vita, se nessuno sa mostrare il «centuplo quaggiù».
Perciò chi tace di fronte al nulla da cui scappano migliaia di giovani, chi addirittura offre come modello la coltivazione dello stesso nulla per «uso personale » nega la speranza che rende la vita desiderabile e umana. Chi, invece, non si arrende a questa ‘cassazione della speranza’ non si arrende alla droga. Non la desidera. Perché – come sentii dire quella notte – non ne ha bisogno.
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