Paolo Mazzeranghi, Cristianità n. 132 (1986)
Edmund Burke, Riflessioni sulla Rivoluzione francese, Ciarrapico, Roma 1984, pp. 396, L. 15.000
Edmund Burke nasce a Dublino il 1º gennaio 1729 da madre cattolica e da padre, avvocato e procuratore, appartenente alla Chiesa di Stato irlandese. Si dedica giovanissimo all’attività pubblicistica, con interessi che spaziano dalla critica letteraria alla storia e ai problemi coloniali; entra in politica attiva nel 1 759, e viene eletto nel 1765 alla Camera dei Comuni per il partito Whig. Nel 1773 soggiorna brevemente in Francia. Già agli inizi del 1790 si esprime pubblicamente contro gli avvenimenti in atto in quel paese; il 1º novembre 1790 vengono pubblicate le Riflessioni sulla Rivoluzione francese e sulle deliberazioni di alcune società di Londra ad essa relative: in una lettera destinata ad un gentiluomo parigino. Lo sviluppo dei temi contenuti in quest’opera diviene uno dei suoi principali interessi, e gli inimica la dirigenza Whig (cfr., al riguardo, il suo Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs, in conseguenza di alcune recenti discussioni in Parlamento, relative alle riflessioni sulla Rivoluzione francese, in Scritti politici, UTET, Torino 1963, pp. 445-579) fino alla rottura definitiva consumata nel 1794. Muore il 9 luglio 1797.
Edmund Burke inizia le sue magistrali riflessioni negando l’esistenza di una comune radice tra la Rivoluzione francese e quella inglese del 1688, la cosiddetta «gloriosa Rivoluzione», che portò alla deposizione da parte del parlamento del re Giacomo II – cattolico, e la cui successione sarebbe stata ugualmente cattolica nella persona del figlio Giacomo Edoardo – e all’incoronazione del calvinista Guglielmo d’Orange e della moglie Maria, figlia protestante di Giacomo II.
La deposizione di un re, atto estremo da parte del parlamento in una particolarissima contingenza, non sarebbe sortita, secondo l’autore, da un presunto diritto del popolo inglese, o del popolo in generale, di scegliere i propri sovrani e deporli a proprio piacimento.
«Gl’Inglesi considerano il principio giuridico della ereditarietà nella successione dinastica tra le conquiste del diritto e non già tra i torti da riparare […]. L’Inglese considera il proprio organismo statale, così com’è, cosa di inestimabile pregio; e concepisce il principio della indisturbata successione dinastica come garanzia di stabilità e di perpetuità per tutti gli altri organi del sistema costituzionale» (p. 54).
Come il popolo non è la fonte dell’autorità, così non gli si può attribuire un diritto astratto, come preteso dagli illuministi, ma lo si deve considerare geloso fruitore di quei diritti concreti riconosciuti dai regnanti e sanciti dai documenti alla base del diritto costituzionale inglese. «Voi potrete dunque vedere come dalla Magna Charta fino alla Dichiarazione di Diritto il nostro sistema costituzionale si sia conformato ad una direttiva politica uniforme, facendo ricorso alle nostre asserite libertà come a un patrimonio di carattere ereditario che a noi deriva dai progenitori e che dobbiamo trasmettere ai posteri, essendo questa una dotazione particolare e privilegiata del popolo inglese senza alcun riferimento a qualsivoglia sistema teorico di diritto affermato in via generica ed aprioristica. In questo modo il nostro sistema costituzionale riesce a conservare la propria unità pur nella grande differenza delle parti che lo compongono. Noi abbiamo una corona ereditaria, una nobiltà egualmente ereditaria; anche la Camera dei Comuni e il popolo godono ereditariamente di privilegi, di franchigie, di libertà derivati da una lunga serie di antenati» (p. 66).
Ci si potrebbe legittimamente chiedere se questa pretesa di perfetta continuità sia giustificata. La posizione confessionale e politica di Edmund Burke – i partiti Tory e Whig nascono proprio in conseguenza della questione dinastica ricordata, essendo i Whig contrari a Giacomo II e alla successione in linea cattolica – lo porta a sottovalutare la frattura costituita dalle vicende religiose inglesi, soprattutto nel loro riflettersi sui rapporti tra Chiesa e Stato e tra Stato e sudditi. Da un punto di vista istituzionale, già molti anni prima della stesura delle Riflessioni sulla Rivoluzione francese, Edmund Burke individua i mutamenti intervenuti all’apice del sistema rappresentativo inglese: il parlamento, che per tradizione aveva principalmente una funzione di codificazione di norme preesistenti e di difesa dei diritti corrispondenti di fronte al potere regale, si è venuto trasformando in assemblea permanente fonte di nuova legislazione.
Fatta questa premessa, rimane la rilevanza intrinseca delle tesi dello studioso e politico irlandese, anche se non verificate appieno a proposito della storia inglese.
Straordinaria è invece – considerando la naturale e frequente opposizione tra tempestività e profondità di giudizio – l’acutezza dell’autore nel distinguere due eventi che hanno in comune il nome con cui vengono qualificati per la mancanza, nel vocabolario politico classico, di un termine atto a designare ciò che di assolutamente inedito sta accadendo in Francia, cioè la distruzione di un ordine politico e sociale plurisecolare e un «riordino della società futura» (p. 124) in base a concezioni tanto inedite quanto innaturali e arbitrarie.
La Francia all’alba della Rivoluzione necessita di riforme? La risposta è affermativa, se «riformare», significa depurare un corpo politico e sociale fondamentalmente sano da scorie che si sono venute accumulando e che l’appesantiscono e lo sfigurano, non essendo utilizzate per il suo crescere organico; ma «crescere» non vuol dire sovvertire la legge di sviluppo dell’organismo, che si manifesta nella continuità con il passato. Uno Stato non si costituisce grazie al «genio» di un solo individuo o di un partito, ma con il lavoro che generazioni svolgono per vari secoli. Alla formazione e alla conservazione di uno Stato è necessaria la collaborazione di tutta una comunità che trascende l’individuo sia nello spazio che nel tempo: «I legislatori che organizzarono le antiche repubbliche sapevano che il loro compito era troppo arduo per essere assolto col solo concorso della metafisica di un subalterno e la matematica d’un gabelliere» (p. 305).
L’ancorarsi al passato nel procedere alle «riforme» politiche viene lucidamente visto da Edmund Burke non come conservatorismo sterile e ripetitivo, né come, nel senso oggi corrente, onorevole compromesso, marcia lenta in una direzione di cui si presuppone la ineluttabilità storica, a fronte della Rivoluzione vista come marcia veloce. Riforma e Rivoluzione non sono, in altre parole, due modalità dello stesso processo, ma costituiscono i termini di un’alternativa drammatica: governare gli uomini in modo conforme alla loro natura essenziale facendo tesoro di tutta l’esperienza delle generazioni che precedono, oppure reinventare le forme politiche sulla base di una natura umana ridefinita a priori. «Noi ci spaventiamo all’idea che ogni uomo debba vivere e far negozio con il solo patrimonio della sua ragione privata e particolare, perchè sospettiamo che questo sia individualmente ben piccolo; e pensiamo che i singoli farebbero molto più utilmente ricorso al grande capitale collettivo della nazione e dei secoli» (p. 153).
Al contrario, «[…] avete preferito agire come se foste un popolo che non vanta alcun passato di civiltà e deve riprendere la sua vita tutta da capo» (p. 71).
Edmund Burke intuisce quella che agii osservatori posteriori si rivelerà una costante dell’utopismo rivoluzionario, cioè l’odio per il passato e il desiderio di ricreare un «uomo nuovo» in un «mondo nuovo», qualunque sia il tributo di sofferenze necessario. Gli obiettivi specifici della Rivoluzione francese possono dunque essere ricavati e contrario considerando ciò che l’autore a ragione ritiene essere le matrici dell’Occidente.
«Non vi è cosa più certa di questa: che le nostre tradizioni e la nostra civiltà e tutti quegli alti valori che si trovano connessi sia con le prime che con la seconda sono dipesi in questo nostro mondo europeo, attraverso un’ampia successione di secoli, da due principi; e certamente risultano dalla combinazione di entrambi. Voglio dire dallo spirito che è proprio dei gentiluomini e dallo spirito che è proprio della religione» (p. 139).
Il fatto che «[…] un uomo possa giungere a tal grado di presunzione da considerare il proprio paese nè più nè meno che come una carte blanche, sopra la quale sia possibile a lui di scribacchiare ciò che gli sembra meglio» (p. 263) può ricondursi esclusivamente a vizio intellettuale? È possibile addebitare all’inesperienza pratica di coloro che hanno elaborato la nuova costituzione della Francia nei salotti letterari o in modesti studi legali di provincia la serie ininterrotta di ingiustizie perpetrate dal nuovo regime? Edmund Burke introduce l’idea che a fondamento di tutto vi sia la volontà dei club, le cui risoluzioni diventano tanto slogan per eccitare gli animi nelle sommosse popolari che decisioni politiche nell’Assemblea nazionale, aprendo uno scorcio sulle realtà così efficacemente investigate, un secolo più tardi, da Augustin Cochin (cfr. Meccanica della Rivoluzione, trad. it., Rusconi, Milano 1971; e Lo spirito del giacobinismo, trad. it., Bompiani, Milano 1981).
«È notorio che tutte le loro decisioni sono già fissate prima di esser discusse. È fuor di dubbio che sotto il terrore delle baionette, delle “lanterne”, degli incendi appiccati alle case private, quella gente si trova costretta ad adottare tutte le crude e disperate misure che vengono suggerite da Clubs composti con mostruosi residui di ogni condizione, lingua, nazionalità» (p. 123).
Ma l’opera dei club non è altro che il risultato di un piano d’azione di respiro più ampio, elaborato dalle logge attraverso i philosophe e che si proietta in tutta Europa. «Era indifferente per loro che questi sovvertimenti si compissero attraverso le formule del dispotismo o attraverso i terremoti di una sommossa popolare. La corrispondenza ingaggiata tra questa combriccola e il defunto Re di Prussia getterà luce non piccola sulle intenzioni recondite di quei messeri» (p. 192).
Grande attenzione viene dedicata da Edmund Burke alle misure che colpiscono il clero nelle sue risorse economiche – soppressione della decima, il 4 agosto 1789, e confisca dei beni ecclesiastici, il 2 novembre dello stesso anno -, avvisaglie prossime della persecuzione che avrà come tappe fondamentali la soppressione del clero regolare, il 13 febbraio 1790, e la promulgazione della Costituzione civile del clero, il 24 agosto dello stesso anno. Al di là delle pretestuose giustificazioni economiche, peraltro smentite dal totale insuccesso, l’autore considera le misure anzidette in primo luogo come radicali attentati al diritto di proprietà, e, più in profondità, come manifestazioni del carattere anticristiano della Rivoluzione.
La confisca dei beni della Chiesa e il sussidio statale per il mantenimento del clero «[…] per la degnazione insolente di un ateismo riconosciuto e confessato […]» (p. 183), risultano ancora più odiosi quando riguardano i patrimoni degli ordini monastici, di cui l’autore, in palese contrasto con la corrente libellistica illuminista, sottolinea le doti spirituali e le benemerenze sociali. Tali ordini «[…] alimentavano una schiera di uomini di natura tutt’affatto speciale, consacrati al benessere collettivo e tali che agivano soltanto secondo principi e relazioni di interesse pubblico; uomini che non avevano alcuna possibilità di convertire il patrimonio comune in altrettante fortune private; uomini che rinnegavano ogni principio di egoismo e che, quand’anche peccassero d’avarizia, commettevano tale peccato ai fini della comunità; uomini per i quali la povertà individuale costituiva un titolo d’onore ed accoglievano il dovere dell’obbedienza in luogo dei diritti di libertà» (p. 264).
Troppo poco tempo intercorre tra la promulgazione della Costituzione civile del clero e l’uscita di queste Riflessioni sulla Rivoluzione francese perché l’autore possa approfondire l’esame di quella che gli pare assurda e funesta introduzione del principio democratico all’interno della Chiesa. Con la consueta acutezza ne scorge però il senso e l’esito: «A farla breve, mio caro Signore, sembrami che questa nuova costituzione ecclesiastica sia soltanto un provvedimento transitorio per preparare un atto ulteriore di abolizione totale, formulata come si voglia, della religione cristiana; cosa che si compirà quando la coscienza degli uomini sarà pronta per quest’ultimo colpo […]» (p. 248).
Anche in questo caso, si tratta di un piano di ampio respiro: «La cabala letteraria aveva organizzato qualche anno addietro alcunché di simile ad un piano regolare inteso a distruggere la religione cristiana. Quei filosofanti perseguivano il loro oggetto con tal grado di zelo che fin qui non si era riscontrato fuorchè nei propagatori di qualche sistema religioso» (pp. 190-191).
È oltremodo significativo ritrovare questi elementi nello scritto di un politico irlandese protestante, sia pure paleoliberale, evidentemente «non papista» e non certo sospettabile di simpatie verso i gesuiti, ai quali viene normalmente ascritta la teoria del complotto anticristiano rivelatosi nella Rivoluzione francese (per un esame delle varie «letture» di essa, cfr. Massimo Introvigne, La Rivoluzione francese: verso una interpretazione teologica?, in Quaderni di «Cristianità», anno I, n. 2, estate 1985, pp. 3-25).
Ma proprio questa «diversità» di Edmund Burke nell’ambito del pensiero contro-rivoluzionario in formazione rende preziose le sue riflessioni, prima testimonianza critica sulla Rivoluzione francese; e non perché tale critica necessiti di essere convalidata da un malinteso pluralismo interpretativo, ma per la oggettiva necessità di molteplici angolazioni al fine di una migliore e più adeguata comprensione di un quadro di tali proporzioni. L’Inghilterra può essere considerata, quantomeno fino all’epoca in cui Edmund Burke visse e con le riserve già avanzate, il paese più «medioevale» dell’Occidente, sotto il profilo delle istituzioni politiche e giudiziarie. Nessuno forse meglio dell’uomo politico irlandese avrebbe dunque potuto contrapporre in modo così efficace l’astratta libertà dei phifosophe, che portò a quella «[…] dispotica violazione perpetrata a danno della fede, delle coscienze, delle tradizioni, delle proprietà individuali […]» (p. 262), alle libertà concrete della società medioevale, mai scomparse del tutto – neppure durante il periodo dell’assolutismo – prima, appunto, della Rivoluzione francese.
Paolo Mazzeranghi