La candidata emergente alla guida del Partito Democratico, Elly Schlein, nelle sue idee e nella sua biografia riflette l’evoluzione della sinistra italiana, dalle radici comuniste alla trasformazione in “partito radicale di massa”, centrato sui “nuovi diritti” e ostile alla famiglia naturale e alla vita, per aprirsi infine alla prospettiva del “socialismo verde”. Fallito il social-comunismo, la “transizione ecologica”, giustificata dalla pretesa emergenza climatica globale, diviene il grimaldello per imporre restrizioni a proprietà privata, privacy e libertà, verso un nuovo statalismo e una pianificazione sovranazionale. La Schlein incarna in modo esemplare prospettiva e narrazione del nuovo “socialismo liberale del XXI° secolo”, portata avanti dall’iniziativa del Great Reset di Davos. Ecco perché può divenire la segretaria del nuovo Partito Democratico.
di Maurizio Milano
La sinistra ha finalmente trovato la sua pasionaria, l’anti-Meloni. Sì, perché se c’è una costante nella storia della sinistra italiana è il suo definirsi sempre “contro qualcuno”, come se non riuscisse proprio a coagularsi “attorno a qualcosa”: nulla di meglio, si sa, di un nemico comune per ricompattare le fila deluse e disorientate, riscoprendo così il senso del “noi”. Elena Ethel Schlein, detta Elly, classe 1985, di famiglia colta e facoltosa di origine ebraica aschenazita, con tre nazionalità (italiana, svizzera e statunitense) e due “generi” in quanto, per sua stessa dichiarazione, «ho amato molti uomini e ho amato molte donne», inizia la sua vita politica partecipando come volontaria nell’organizzazione delle due campagne elettorali di Barack Obama (1961-), Presidente degli Stati Uniti d’America dal 2009 al 2017. Insomma, non proprio l’ultima arrivata o una “borgatara” di umili origini, come Giorgia Meloni (1977-). Viene eletta al Parlamento Europeo nel 2014 col Partito Democratico (PD), dal quale uscirà nel 2015 in dissenso con la linea politica adottata dall’allora segretario e Presidente del Consiglio, Matteo Renzi (1975-), una linea da lei definita «di centro-destra»; aderirà quindi a Possibile, partito meteora fondato da Giuseppe Civati, detto Pippo (1975-). Ultimamente è stata vicepresidente della giunta regionale dell’Emilia-Romagna, cioè la vice del governatore Stefano Bonaccini (1967-) che è il favorito, sulla carta, per conquistare la leadership del PD. La Schlein si è infine candidata nelle ultime elezioni politiche nazionali come indipendente nella lista del Partito Democratico – Italia Democratica e Progressista, la principale coalizione elettorale di centro-sinistra, venendo eletta deputata. A inizio dicembre si è ufficialmente candidata alla segreteria del partito, in vista delle primarie del PD, inizialmente previste per marzo 2023 e recentemente anticipate al 19 febbraio con la speranza di interrompere l’impressionante emorragia di consensi, con gli ultimi sondaggi che fotografano il PD in caduta libera al di sotto del 15%. La sinistra italiana, infatti, non si è più ripresa dalla sonora sconfitta elettorale del 25 settembre scorso, in cui è stata travolta da un forte centro-destra guidato, ironia della sorte, da una donna, una donna del popolo, una donna di destra: triplice iattura, insomma; l’inchiesta per corruzione in corso, a carico di europarlamentari di sinistra, completa il quadro desolante, andando a sfatare definitivamente quel mito di superiorità morale che la sinistra aveva sempre alimentato. Il 12 dicembre scorso, la Schlein ha preso la tessera del PD nella storica sezione della “Bolognina”, dalla quale nel 1989 l’allora segretario Achille Occhetto (1936-), in concomitanza con l’inizio dell’implosione dell’Unione Sovietica, aveva avviato la famosa “svolta”: un processo che dalle radici del “Partito Comunista Italiano” (PCI) porterà nel 1991 alla costituzione del “Partito Democratico della Sinistra” (PDS), nel 1998 divenuto “Democratici di Sinistra” (DS) e quindi nel 2007 “Partito Democratico”, evolvendo sempre più in un vero e proprio partito radicale di massa. È possibile che si sia aperta – «in punta di piedi», per usare le parole della Schlein – una nuova “svolta della Bolognina”, che porterà a una differente organizzazione del partito, con un nome rinnovato che ricordi il mondo del lavoro e, insieme, la sfida ambientalista. Elly Schlein è perfettamente a suo agio negli ambienti internazionali e cosmopoliti che contano, ed è sicuramente molto attenta alla base del partito, così come lamenta frequentemente l’esistenza della povertà; parla però “di” poveri, non “ai” poveri o “con i” poveri, con cui non ha sicuramente avuto molto a che fare finora, per la sua appartenenza famigliare e storia personale. Scontato il consenso “dall’alto”, la Schlein avrà necessità di raggiungere anche quelle classi sociali di “periferia”, che per il mondo da cui proviene rappresentano poco più che un’astrazione intellettuale. Per ricostruire il partito dalle macerie, Elly Schlein guarda ancora più a sinistra, dal Movimento 5 Stelle alla sinistra massimalista, col rischio calcolato di perdere la componente popolare che fa capo a Pierluigi Castagnetti (1945-), “cattolico democratico e dossettiano”, tra i “padri fondatori” del PD: speriamo, perché potrebbe essere la fine di quello specchietto per le allodole che tanto male ha fatto alla presenza dei cattolici in politica.
Nella sintesi di idee e valori, e nella stessa biografia di Elly Schlein, le radici socialcomuniste si fondono con i “nuovi diritti” del partito radicale di massa – dall’aborto all’eutanasia, dall’ideologia LGBT alla liberalizzazione della cannabis –, fino ad abbracciare la prospettiva del “socialismo verde”: laddove non hanno funzionato la teoria marxiana e la prassi leninista, ecco che si mira a cambiare radicalmente il sistema economico, sociale e politico, usando il grimaldello verde dell’emergenza climatica, nella prospettiva della sostenibilità e dell’inclusività. Notevole la sua suggestione comunicativa, che crea una “narrazione” in cui accogliere i delusi e i nostalgici, facendo leva “sulle emozioni e sui sentimenti”, come dice Klaus Schwab (1938-): la Schlein dimostra di avere ben appreso la lezione del fondatore e chairman del World Economic Forum di Davos, che considera essenziale puntare sulla “narrazione”, anzi sulla “grande narrazione”, da lui considerata assai più efficace dei “dati di fatto” e della “realtà” per muovere le “azioni e reazioni umane”; “per costruire un futuro migliore”, ovviamente.
Per assaporare lo stile comunicativo di Elly Schlein godiamoci, si fa per dire, alcuni stralci del discorso del 4 dicembre scorso ai suoi sostenitori al Centro culturale Monk di Roma, un evento che ha preso il nome del suo sito web “Parte da Noi!”. Sottolineo la forza evocativa del linguaggio usato, dove l’“io” non esiste e tutto è un “noi”: la singola persona non conta, giacché «i grandi cambiamenti non muovono mai sulle spalle delle traiettorie individuali ma delle mobilitazioni collettive […] siamo qui per far partire un percorso collettivo plurale». Qualsiasi cosa significhi, è certamente una frase ad effetto, che colpisce l’immaginazione. L’inclusione riguarda poi sempre “tutte e tutti”: chi volesse trovare nei discorsi della Schlein l’uso del collettivo “tutti” per indicare contemporaneamente uomini e donne, resterebbe deluso.
Un punto chiave nell’intervento della Schlein è la critica al modello economico attuale, in piena sintonia con la prospettiva e il linguaggio usato da Schwab nel testo “Stakeholder Capitalism: A Global Economy that Works for Progress, People and Planet”, dove il leader di Davos condanna la svolta “neoliberista” di Reagan e della Thatcher negli anni ’80 del secolo scorso, indicando che gli stakeholder centrali del nuovo modello saranno le “persone” e il “pianeta”. In piena sintonia, la Schlein si domanda infatti «come cambiamo il modello di sviluppo neoliberista che si è rivelato assolutamente insostenibile, per le persone e per il pianeta […] possiamo dirlo o qualcuno pensa che in questi anni è andato tutto bene?». Occorre «tenere insieme la giustizia sociale e la giustizia climatica». «Le tre sfide sono: diseguaglianze, clima e precarietà […] Per ridurre le diseguaglianze dobbiamo riscoprire una parola fondamentale: redistribuzione». Occorre quindi forte «progressività fiscale»: e dire che la pressione fiscale in Italia è già su livelli vessatori ma, si sa, ciò non dipende da una spesa pubblica esorbitante, inefficiente e inefficace, ma dai soliti cattivi evasori.
L’uso manipolatorio del linguaggio lascia intendere che il sistema attuale sia caratterizzato da un eccesso di libertà dei privati: indipendentemente dal giudizio che si può dare sul liberismo, il sistema dominante si caratterizza invece per un crony capitalism, un corporativismo pubblico-privato clientelare, che è semmai speculare al preteso liberismo. Giocando sulla constatazione retorica degli innegabili mali del modello attuale, che vengono furbescamente attribuiti a una libertà sfrenata che noi piccoli non riusciamo davvero a vedere da nessuna parte, la Schlein offre la stessa soluzione di Schwab: occorre aumentare ancora la pianificazione centralizzata, la pressione fiscale e le politiche redistributive. Da una diagnosi maliziosa consegue una terapia che rischia di aggravare il male che si pretenderebbe voler curare: la Schlein, infatti, afferma che il punto centrale è «come accompagniamo le piccole e medie imprese in una conversione ecologica necessaria». E se un piccolo e medio imprenditore non accettasse di “convertirsi”? Siccome il grande capitale economico-finanziario è già stato ingaggiato nell’iniziativa di reset, rimane solo da convincere la base, rieducandola con un’adeguata narrazione. I punti in comune con il linguaggio e la retorica di Schwab sono davvero molti, e qui si nota il salto di qualità rispetto al socialismo ortodosso novecentesco: ascoltando la Schlein sembra quasi di essere a Davos, non a Roma.
«La destra non vede l’emergenza climatica […], se non salviamo il pianeta non ci salviamo nemmeno noi […] serve una legge sul clima…che accompagni settore per settore dell’economia alla conversione necessaria […] per sviluppare un grande piano infrastrutturale green, a cominciare dall’energia rinnovabile». «Le energie pulite e rinnovabili sono le vere energie di pace […] per tenere insieme clima e lavoro e diseguaglianze». Di nuovo, emerge in modo evidente la prospettiva del Green Deal della Commissione Europea e del Build Back Better dell’amministrazione Biden: «La giustizia sociale e climatica sono inscindibili, esattamente come sono inscindibili i diritti sociali e i diritti civili […] abbiamo una visione intersezionale che combatte qualsiasi forma di discriminazione, quelle razziste, quelle sessiste, quelle abiliste (sic), quelle omobilesbotransfobiche (sic), che non può che oltrepassare i confini perché nessuna delle sfide principali si può affrontare solo più a livello nazionale […] serve rilanciare con forza il disegno federalista europeo, perché finalmente c’è stato un risveglio dopo la pandemia, con il Next Generation EU». Insomma, “green is the new red”, come ben evocato dalla copertina verde-rossa del suo libro “La nostra parte: Per la giustizia sociale e ambientale, insieme”,nella prospettiva di una governance mondiale. Il socialismo e il liberalismo ‒ per lo meno quello spirito “liberale” illuministico, ostile alla verità, alla tradizione e alla civiltà cristiana, tipico dei liberal del mondo anglosassone, per intenderci ‒ si danno la mano in una nuova “dittatura del relativismo”, quel “socialismo liberale del XXI secolo” in corso di attuazione.
La Schlein annuncia poi con trasporto: «Vogliamo un paese in cui lavoro e povero non stanno nella stessa frase, è semplice». Sì, in effetti dirlo è semplice e magari scalda anche il cuore, per un attimo. Ma se la soluzione fosse davvero così semplice, perché il PD non l’ha realizzata nei lunghi anni in cui è stato al governo del Paese? Senza neppure la necessità di confrontarsi col consenso elettorale, tra l’altro, visto che si trattava di esecutivi “tecnici”. E ancora: «mentre le destre si nutrono di diseguaglianze, noi vogliamo liberare le persone dai bisogni»: d’altronde già Karl Marx (1818-1883), nella Critica del programma di Gotha, del 1875, scriveva: «finalmente la società potrà scrivere sulle sue bandiere: ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni». Peccato che «per volere dare tutto a tutti bisogna essere Dio, oppure avere solamente nulla da offrire», come ammoniva il filosofo cattolico francese Gustave Thibon (1903-2001). E la sinistra, aggiungo io, non è Dio. E ancora: «la destra pensa che il lavoro sia un favore e noi pensiamo che sia un diritto [… occorre] incalzare il governo sulla necessità di fissare un salario minimo». Diversi sono poi i riferimenti al sindacato e alla Spagna, governata da un esecutivo di estrema sinistra, perché «serve un nuovo statuto dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori», perché «la lotta paga, la lotta paga sempre». Lotta continua, insomma. Rimuovere la povertà “per legge” è un chiodo fisso delle sinistre: la povertà non si risolve però con politiche redistributive, come il reddito di cittadinanza, oppure fissando dei minimi salariali che potrebbero anzi avere l’effetto indesiderato di accrescere la disoccupazione; occorre, invece, valorizzare il risparmio e gli investimenti, l’innovazione tecnologica e la formazione, la libertà economica, per far salire la produttività e quindi, come conseguenza, anche le occasioni di lavoro e salari e stipendi in termini reali. La sinistra massimalista abbisognerebbe di un sano “ritorno al reale”, che non pare dietro l’angolo, anzi.
La Schlein soggiunge poi che occorre «difendere la sanità pubblica universalistica» e chiede «più scuola pubblica», dove per «pubblica» si intende ovviamente «statale»; ribadisce il dovere morale e giuridico dell’accoglienza in Italia “senza se e senza ma” e invoca un «nuovo welfare universalistico», perché «il welfare non è un costo, è un investimento». Per non farsi mancare nulla, la Schlein si lancia poi in un imbarazzante: «voglio mandare un abbraccio a Roberto Saviano […] non si possono colpire gli intellettuali, le scrittrici e gli scrittori», riuscendo a far passare Saviano (1979-) come una povera vittima innocente perché la Meloni, che lo ha querelato per diffamazione, lo avrebbe fatto a scopo intimidatorio, approfittando del suo nuovo status di premier. Come dubitare che la destra stia attuando una svolta autoritaria nel Paese, visto che un valente intellettuale di sinistra non può neppure più dare pubblicamente della «bastarda» alla leader di Fratelli d’Italia? Uno dei punti che stanno più a cuore alla Schlein, che si sente appunto l’anti-Meloni, è che «non ce ne facciamo niente di una premier donna che non aiuta le altre donne, che non ne difende i diritti, a partire da quelli sul proprio corpo». Serve «una leadership non femminile ma femminista». Ciliegina sulla torta, e sembra di viaggiare nel tempo tornando indietro al femminismo degli anni ’70, occorre «liberare il tempo delle donne in una società patriarcale […] non basta cambiare il gruppo dirigente se non ritroviamo un’identità chiara e un blocco sociale di riferimento […] serve una cosa nuova [… da proporre] a donne e giovani rimasti schiacciati da dinamiche patriarcali o paternalistiche». Insomma, serve «un’alternativa alla peggiore destra di sempre che oggi governa il Paese». Manca solo “l’utero è mio e lo gestisco io”, ma sarebbe ovviamente poco inclusivo e decisamente reazionario in tempi così gender fluid. Mi chiedo come abbia fatto la Meloni a divenire premier in simile contesto, maschilista e misogino.
È apprezzabile il fatto che la Schlein non evochi più il Babau del fascismo, segno che è più intelligente del resto della classe dirigente del partito, e sicuramente più sulla “frontiera rivoluzionaria”. Ascoltando la Schlein, i precedenti dirigenti, come Piero Fassino (1949-), Pier Luigi Bersani (1951-) ed Enrico Letta (1966-), appaiono come i vecchi burocrati della nomenklatura sovietica, il retaggio di una sinistra “novecentesca” e limitata ai confini nazionali: la Schlein è molto più avanti di loro, a partire dall’uso del linguaggio e della “narrazione globalista” utilizzata, e quindi molto più pericolosa. La nuova sinistra della Schlein parla contemporaneamente di accoglienza “senza se e senza ma”, di diritto all’aborto, all’eutanasia e alla droga libera, di inclusività LGBT, di transizione ecologica, di sostenibilità, di digitalizzazione, di poveri, di una fiscalità ancora più redistributiva, di nuove pianificazioni dall’alto, di una governance sovranazionale. Sembrerebbero discorsi contro il potere se non fossero le stesse cose che si dicono a Davos, dove si riunisce la più importante “community” pubblico-privata mondiale, un neo-corporativismo globalista per “creare un mondo migliore”, una “nuova normalità” e un “nuovo umanesimo”, nella cosiddetta “era post-pandemica”. Imposto dall’alto.
Infine, la Schlein sottolinea che «siamo qui non per fare una nuova corrente o per tenerci quelle di prima ma per superarle con un’onda di partecipazione, mischiando le nostre storie […] anche di chi la pensa un po’ diversamente da noi […] siamo un’onda, non una corrente nuova, non ci saranno mai gli schleiniani [occorre] una leadership più plurale e collettiva […] una squadra per una condivisione plurale delle scelte». Qualsiasi cosa ciò significhi.
La Schlein chiude con un enfatico: «Io, insieme a voi, voglio diventare la nuova segretaria del partito democratico!”. Finalmente, e per la prima e unica volta, la Schlein riesce a dire “io”, ma aggiunge subito dopo «insieme a voi»: c’è del metodo in questa follia. Il comizio si chiude con il programma che la Schlein dice di essersi sempre prefissa nella sua azione politica: «costruire un campo ecologista, progressista e femminista […] per sentirsi tutte e tutti a casa». Con un immancabile finale «grazie a tutte e grazie a tutti!». Io avrei gettato il cuore oltre l’ostacolo, con un ancora più moderno: “grazie a tuttӘ”, ma è di pronuncia ancora più difficile del suo cognome e forse la Schlein se lo tiene in serbo per celebrare la vittoria alle primarie di febbraio.
A fronte del radioso futuro evocato, il suggestivo comizio si chiude con una standing ovation: l’emozione finora trattenuta, rigorosamente collettiva e plurale, si sfoga in un amarcord, con “tutte e tutti” che intonano un sentimentale, euforico e liberatorio “Bella Ciao”. In onore di Elly Schlein?
Martedì, 27 dicembre 2022