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Elogio della ripetizione

18 Novembre 2023 - Autore: Stefano Chiappalone

Un dipinto, un libro, un brano musicale o un’antifona liturgica: se non vogliamo trarne solo un’informazione o un’emozione fugace occorre ritornarci su, assimilarli, “ruminarli”.

di Stefano Chiappalone

Il termine «ripetitivo» assume solitamente un’accezione spregiativa. Eppure ci sono esperienze, momenti talmente straordinari da definirli «irripetibili»: non li si può ripetere, ma se solo si potesse… La nostra giornata è costellata da vari «buongiorno», «come stai?» e innumerevoli altre ripetizioni di parole e gesti più o meno consapevoli, che nessuno definirebbe ripetitive, nella misura in cui intessono la trama del nostro vivere e relazionarci. Del resto, come abbiamo imparato a parlare e camminare, se non ripetendo?

«Repetita iuvant» era una delle espressioni più ricorrenti sulla bocca di Giovanni Cantoni (1938-2020), come molti lettori ricorderanno (a proposito: l’atto di ricordare non è a sua volta un ripetere, nella memoria e nel cuore?). Era ed è in fondo il più antico metodo di apprendimento, meglio ancora di assimilazione: è forse questo a fare la differenza tra una ripetizione piena, che a partire dallo stesso punto (o parola o frase…) scava sempre più in profondità, «ruminando» (altra espressione cantoniana), e una ripetizione vuota, trita, appunto ripetitiva. E ce ne sono, ma la chiave sta nell’assimilare, non nell’eliminare: vorremmo forse abolire il «buongiorno» solo perché qualcuno ce lo ha detto distrattamente e di malavoglia? 

Per comprenderlo potremmo ricorrere a un esempio liturgico e – latu sensu, ma neanche troppo – poetico: l’introito dell’antico messale. L’antifona iniziale che dà il “la” all’intera celebrazione permane anche nella versione riformata, ma in quella tradizionale vi è un dettaglio apparentemente inutile e… ripetitivo (a viste superficiali). A titolo di esempio prendiamo la Messa di Cristo Re: «Dignus est Agnus, qui occísus est, accípere virtútem, et divinitátem, et sapiéntiam, et fortitúdinem, et honórem. Ipsi glóriaet impérium in sǽcula sæculórum. Deus, iudícium tuum Regi da: et iustítiam tuam Fílio regis» («L’Agnello immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza e sapienza e forza e onore: a lui gloria e potenza nei secoli, in eterno. Dio, dà al Re il tuo giudizio e al figlio del Re la tua giustizia»). A questo punto segue il Gloria Patri e ritorna il primo versetto: «Dignus est Agnus, ecc.». A che pro? L’utilità, non certo materiale, ma simbolica e spirituale, sipercepisce ancora meglio nella forma cantata, dove il gregoriano dilata le parole ampliando al contempo, a ogni ripetizione, la stessa capienza dell’anima che le fa proprie. 

Nel versetto ripetuto si realizza in musica lo stesso movimento ascensionale delle volute d’incenso, che a ogni movimento (ripetitivo!) del turibolo al contempo si allargano e salgono. Limitarsi a una lettura frettolosa, come se fosse il trafiletto di un giornale, equivarrebbe a spegnere di botto l’incenso un’istante dopo averlo acceso, senza dargli la possibilità di invadere le navate – e i sensi. Un dipinto si può – si deve – rivedere infinite volte per non fermarsi all’effimero “mi piace / non mi piace”: ora se ne coglie un particolare, ora se ne approfondisce un simbolo, ora una pennellata o una velatura, una luce o un’espressione prima sfuggite, quali altrettanti tasselli che non ci restituiscono una diversa immagine, ma la stessa, messa sempre più a fuoco.

Ciascuno ha il suo brano musicale preferito (o più di uno): lo avrà ascoltato una volta sola, forse? Oppure si annoierà a riascoltarlo? Pur non sperimentando più lo stesso e identico “brivido” della “prima volta”, man mano che ne impara a memoria la melodia, il testo (se presente), sperimenterà sempre qualcosa di nuovo.

Così un libro letto solo per informarci o intrattenerci si ripone appena finito, mentre il livre de chevet (il libro da comodino o, se vogliamo, quello che porteremmo sulla proverbiale “isola deserta”) è oggetto di continua rilettura, ripetizione, ruminazione, assimilazione e paradossalmente senza mai trovarlo ripetitivo. Così facendo, leggiamo lo stesso libro senza mai vivere la stessa esperienza, ma sempre trattenendo qualcosa che viene a costituire un perenne depositum di cose “antiche e nuove”. Del resto, scrive Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), «si deve leggere solo per scoprire ciò che va eternamente riletto».

Sabato, 18 novembre 2023

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