Francesco Pappalardo, Cristianità n. 363 (2012)
Emanuele Pagano, L’Italia e i suoi Stati nell’età moderna. Profilo di storia (secoli XVI-XIX), La Scuola, Brescia 2010, pp. 416, € 21,00
Emanuele Pagano, professore associato di Storia Moderna all’Università Cattolica di Milano, ha studiato lungamente l’Italia di Napoleone Bonaparte (1769-1821), producendo una sintesi di storia amministrativa (cfr. Enti locali e Stato in Italia sotto Napoleone. Repubblica e Regno d’Italia (1802-1814), Roma, Carocci, 2007), quindi ha pubblicato L’Italia e i suoi Stati nell’età moderna. Profilo di storia (secoli XVI-XIX), un manuale sulla civiltà italiana “destinato a un pubblico vario” (p. 5) e volto a descriverne innanzitutto le caratteristiche e l’identità profonda.
Nella breve Introduzione (pp. 5-8) Pagano presenta alcune tesi sviluppate nell’opera. La storia della nazione italiana si presenta luminosa e talvolta in anticipo, anziché in ritardo, rispetto a quella di altri Paesi europei. L’Italia da un lato appartiene alla grande civiltà europea, “espressione del cristianesimo ed erede del mondo greco-romano” (p. 6), dall’altro lato presenta specifici caratteri originali e una propria personalità, plasmata da processi secolari che hanno trovato un significativo punto di equilibrio nel Concilio di Trento (1545-1563), nella stabilizzazione del quadro politico generale dopo le cosiddette Guerre d’Italia (1494-1559) e nella definizione di un canone artistico e letterario che è “originale rielaborazione cristiana e cattolica di moduli classici” (p. 7).
Le pagine che introducono la Parte prima. La civiltà italiana. Fattori di unità, caratteri originali, tratti europei (pp. 9-172) sintetizzano La questione dell’identità italiana (pp. 11-12): senza soffermarsi “sulla persistenza millenaria di un quadro ambientale — la penisola nel Mediterraneo chiusa da una catena alpina” (p. 11), percepito come unitario già dagli antichi, Pagano rammenta che la nozione d’Italia fin dal secolo XIII indica un insieme geo-culturale, quindi una civiltà letteraria e artistica e poi un ambito politico-diplomatico. Se questo sentire unitario è forse patrimonio di una ristretta cerchia di persone, le popolazioni nutrono comunque “[…] un ben più largo senso di appartenenza a una comune madre, che abbracciava le tante “piccole patrie”” (p. 12), la Chiesa romana, custode del cattolicesimo, che “[…] costituì, in una pluralità di “vissuti”, la filigrana e l’orizzonte comune del vivere associato” (ibidem).
L’unità di fondo della Penisola — sostiene Pagano nel capitolo primo, Chiesa cattolica e vita religiosa (pp. 13-56) — è il risultato di un processo molto lungo, che ha plasmato caratteri religiosi, culturali e civili riconoscibili da tutti come italiani e grazie al quale il cattolicesimo è stato lungamente “la filigrana dell’esistenza” (p. 14). Non ha senso concepire la storia religiosa come distinta oppure opposta a una storia generale “laica”, perché la cultura cristiana permeava tutti gli ambiti della vita degli abitanti della Penisola e degli altri Paesi della Cristianità. Gli eventi del secolo XVI, cioè la Riforma protestante e la “gigantesca “guerra civile intercristiana” — tra cattolici e protestanti, ma anche tra le stesse confessioni riformate” (p. 23) che ne segue, nonché la crescente minaccia ottomana, sono affrontati mediante una nuova evangelizzazione, un vigoroso contrasto dell’eresia, equiparata alla sedizione politica, e il sostegno alla controffensiva politica e militare condotta dalla monarchia iberica. “Su ciò vi fu un accordo di fondo tra la Santa Sede e gli Stati italiani, sia pure poi declinato in modalità differenti di azione locale” (p. 24). In un alternarsi di repressione e persuasione intervengono sia il Sant’Uffizio — con un ruolo rilevante nel contrasto della superstizione, della magia e dei residui paganeggianti diffusi nel mondo rurale — sia la complessiva ristrutturazione delle istituzioni ecclesiastiche, la capillare azione missionaria svolta dai nuovi ordini religiosi e il “complessivo progetto educativo” (p. 42) portato avanti dalla Chiesa cattolica, innanzitutto con la diffusione del sacramento della confessione, “consolazione di anime afflitte, percorso di perfezione spirituale e morale, destinata a lasciare un’impronta profonda su molte generazioni di italiani che nel sacerdote confessore (alter Christus) cercavano, e spesso, trovavano, il medico dell’anima” (p. 40). È significativo che la progressiva emarginazione della Chiesa e la soppressione di molti ordini religiosi, a partire dall’età dell’Illuminismo, abbiano aperto larghe e drammatiche falle nel tessuto assistenziale e latamente educativo della società. “[…] tra il secondo Settecento e il corso dell’Ottocento (per tacere, qui, del XX secolo) la Chiesa cattolica visse un epocale, gigantesco assalto alle sue prerogative, ai suoi beni, alle persone dei suoi membri, ai suoi rapporti con il popoli, con la società” (p. 56).
Nel capitolo secondo vengono delineati i Profili culturali (pp. 57-90) della nazione. La cultura scaturita dalla civiltà romana e da quella cristiana è fondamentale nella formazione dell’identità italiana, sviluppatasi secondo “un modello di eccellenza a lungo insuperato nella vita dei popoli europei” (p. 57). Nei secoli XV e XVI l’interesse umanistico per i canoni classici, che in alcuni casi condurrà al materialismo naturalistico o a uno spiritualismo paganeggiante; la forte avversione per ogni concezione iconoclasta propria dei musulmani e, in alcuni periodi, dei cristiani d’Oriente, ma anche di molte denominazioni protestanti, portatrici di una “[…] furia distruttiva che non risparmiò statue, dipinti, altari, reliquie, vetrate di chiese” (p. 58); la persuasione del valore catechistico e missionario dell’opera d’arte cristiana; il mecenatismo dei pontefici, che rispettano la libertà creativa degli artisti, consentono la formazione di un patrimonio artistico che sarà “la cifra principale dell’”essere italiano” nel mondo” (p. 59). Al fiorire delle arti si accompagna “una teoria del vivere civile più accettabile” (p. 63), che non solo comprende le “buone maniere”, oggetto di un’ampia trattatistica di cui è insigne rappresentante il Galateo del fiorentino Giovanni della Casa (1503-1556), ma anche ispira un modello complessivo di comportamento, descritto nel Cortegiano del nobile mantovano Baldassar Castiglione (1478-1529), e trova la sua “trasposizione architettonica” (p. 64) nell’abitazione signorile, che sostituisce i fortilizi e gli antichi manieri.
Accanto all’azione unificante della religione cattolica e ai peculiari luoghi di cultura — “le molte città con gli innumerevoli palazzi e i capolavori d’arte, i famosi collegi di educazione, i rinomati corsi universitari, ma anche la dolcezza e la varietà degli ambienti paesistici” (pp. 66-67) —, pure la musica e la precoce creazione di una lingua letteraria, “il volgare illustre, nel tipo linguistico toscano” (p. 70), concorrono a consolidare il senso di appartenenza a una civiltà. Nella cultura rientra anche il diritto, per secoli elemento di coesione della civiltà europea, in un’epoca in cui l’azione di governo era essenzialmente “giurisdizione” e gli uffici principali erano magistrature e tribunali, che svolgevano un’opera di mediazione dei conflitti più che una funzione amministrativa. In particolare, nel campo dell’interpretazione giurisprudenziale si afferma il cosiddetto mos italicus, grazie al quale le principali corti della Penisola “[…] parteciparono di una cultura giuridica comune che contribuirono ad alimentare, fondata su una grande tradizione italiana e, al tempo stesso, aperta alla più generale corrente europea” (p. 85).
Peculiarità degli ordinamenti prerivoluzionari è la presenza di una pluralità di diritti in una società organizzata sulla base non d’individui ma di comunità politiche e sociali giuridicamente differenziate. Il terzo capitolo, Moduli del governo civile, ceti e società (pp. 91-117), presenta la società italiana, una delle più complesse d’Europa, come “una società composita” (p. 97), in cui anche “il capo dell’aggregato domestico assumeva una piena responsabilità giuridica dei servitori che vivevano sotto il suo stesso tetto” (p. 110). Pagano si sofferma innanzitutto sulla nobiltà nelle tre tipologie — feudale, patrizia e di toga —, precisando il carattere variegato del feudalesimo in età moderna, “non riducibile a mera e universale oppressione” (p. 102) ma “spesso riconducibile a legami di reciprocità, accettabili per entrambe le parti” (ibidem), tanto che l’eversione della feudalità avviata nella seconda metà del secolo XVIII porrà fine a una tradizionale stabilità economico-sociale e porterà a un generale peggioramento delle condizioni di vita dei contadini. Anche il mondo dell’artigianato, del commercio e delle manifatture si presenta con gerarchie, intrecci parentali e collegamenti molto articolati con la vita civile, organizzato in corporazioni di mestiere che, se da un lato controllavano con una certa rigidità il mercato del lavoro, dall’altro tutelavano i propri affiliati con meccanismi di solidarietà che andavano al di là della semplice funzione di ammortizzatori sociali. Infine, si apre la grande zona grigia della marginalità — “poveri, mendicanti, vagabondi, criminali, prostitute, orfani, malati” (p. 100) —, ingrossatasi in seguito all’esplosione demografica del secolo XVI, alle crisi economiche congiunturali e alle guerre. L’imponente reticolo caritativo-assistenziale, gestito da laici e da religiosi, anche congiuntamente, impedisce sollevazioni popolari paragonabili a quelle verificatesi in altre parti d’Europa; ma il fastidio per i marginali cresce con la diffusione del razionalismo e delle ideologie utilitaristiche, portando all’adozione di soluzioni drastiche — brefotrofi, case di lavoro coatto, manicomi —, finché nel 1808, nel napoleonico Regno d’Italia, l’assistenza è concentrata nelle mani del ministro dell’Interno, derubricando la questione a mero problema di ordine pubblico.
Viene anche ridimensionato il ruolo della Chiesa nelle rilevazioni demografiche, affidate all’anagrafe civile per esigenze di controllo fiscale e militare da parte di uno Stato sempre più presente nella vita dei cittadini e avviato sulla strada della laicizzazione. Nel capitolo quarto, Demografia e famiglia (pp. 118-148), viene descritto lo sviluppo della popolazione nei secoli dal XVI al XVIII, frutto di una duplice eredità: “una ricchezza immateriale, fatta di tradizioni famigliari, religiose, di valori spirituali che si esprimevano in una volontà di durata, in una fiducia nella vita, nonostante tutto; e un patrimonio di beni mobili e immobili” (p. 121), accumulato “grazie anche a una capacità notevole di investimento e di riconversione in settori differenziati” (ibidem). Il cardine dello sviluppo demografico è l’istituto familiare e più propriamente l’aggregato domestico, cioè l’insieme delle persone viventi sotto lo stesso tetto, inteso in una dimensione non solo spaziale — consanguinei, affini e servitù — ma anche temporale, l’insieme delle generazioni, di cui andavano tramandati i beni patrimoniali e i valori morali e identitari. È difficile descrivere l’inesauribile complessità delle tipologie familiari, dal momento che “le famiglie furono i nuclei basilari dell’organizzazione sociale e agirono come importanti variabili del gioco politico, dalle grandi dinastie principesche alle reti parentali degli umili villaggi” (p. 131). Sono tramontate “le teorie evolutive rigidamente unidirezionali” (p. 134), secondo cui le famiglie passano inevitabilmente da un modello patriarcale, fondato sulla rigida separazione dei ruoli e sul controllo delle emozioni e degli affetti, al modello della famiglia coniugale, basata sul trionfo del privato e dei sentimenti. Quella che viene considerata indifferenza nei confronti di lutti e disgrazie era piuttosto rassegnazione di fronte alla caducità della vita, così come le dure condizioni dell’esistenza imponevano spesso rapporti asciutti, e comunque solidali, fra i membri delle famiglie. Ne emerge una storia delle donne e dell’infanzia lontana dalle letture non scientifiche e ideologiche proprie della teoria del gender e attenta invece alla reciprocità di scambi, di condizionamenti e di mediazioni che hanno caratterizzato a lungo le relazioni fra le differenti componenti familiari.
Nel capitolo quinto, dedicato ai Quadri geo-economici fra integrazione e differenziazione (pp. 149-172), viene messo in discussione il paradigma storiografico della “decadenza” politica e soprattutto economica, “[…] viziata da originarie polemiche risorgimentali e fatta propria poi, sia pure con accentuazioni diverse, da correnti storiografiche varie, che nell’antispagnolismo e nell’anticlericalismo tendevano a trovare una chiave interpretativa “etica” globale, valida quindi anche per i fatti economici” (p. 149). Puntuali studi di settore hanno mostrato che le condizioni del Paese non sono peggiorate a causa dell’egemonia asburgica e controriformistica e migliorate grazie alla “modernizzazione” illuministica. Per diversi secoli il Nord e il Sud dell’Italia sono poli integrati di un sistema produttivo unitario, “italiano”, finché il sistema agricolo meridionale viene danneggiato dalle crisi agrarie di fine secolo XVI e dai mutamenti complessivi dell’economia mondiale, cui non riesce a reagire con un dinamismo analogo a quello settentrionale. Sino alla fine del secolo XVII, la Penisola vanta un’economia prospera e relativamente dinamica, poi la concorrenza internazionale in alcuni ambiti produttivi, le complesse variabili locali e l’aumento della popolazione causano dagli anni 1760 un rapido deterioramento economico, comune a gran parte dell’Europa. A ciò si aggiungono le guerre rivoluzionarie francesi (1792-1814) e ancor di più “[…] l’impatto devastante che la dissoluzione della proprietà ecclesiastica — iniziata con le soppressioni volute dal giurisdizionalismo regio e portata quasi a compimento dalla legislazione rivoluzionaria e napoleonica — ebbe sulla vita di migliaia di famiglie […]. L’esproprio del patrimonio religioso, oltretutto, tolse linfa vitale a quelle istituzioni assistenziali e caritative, gestite dal clero, nelle quali i meno abbienti avevano trovato protezione e conforto” (p. 169).
Insieme ai fattori unitari che hanno fatto dell’Italia una nazione, pur in assenza di un’unica organizzazione politica, viene presentata — nella Parte seconda. Relazioni internazionali e Stati italiani fino al 1796 (pp. 173-262) — la prospettiva istituzionale delle singole formazioni statuali, che mostra come le modalità e l’organizzazione del potere fossero “in buona sostanza normali” (p. 7), pure nello Stato Pontificio, caratterizzato ovviamente da un profilo sui generis ma anche da un dinamismo che cozza con “l’immagine retorica, ormai obsoleta, di un sonnolento immobilismo” (p. 249). Nel capitolo su Stato moderno e Stati regionali (pp. 175-184) viene esaminato il “paradigma statalista”, “costruzione ideologica ottocentesca” (p. 175), secondo cui l’Europa si sarebbe avviata fin dal secolo XIV alla realizzazione dello Stato moderno, un’entità territoriale accentrata, unitaria e separata dalla società, termine ultimo di un’inevitabile evoluzione storica e politica. In questo modo si “[…] riducono le vicende di ordinamenti plurisecolari a una sorta di limbo che precede ciò che sarebbe fatalmente avvenuto dopo” (p. 176). Negli ultimi decenni la revisione critica di questo modello, pur nell’ambito di differenti proposte interpretative, ha consentito di ripensare la politica senza la presenza ingombrante di uno Stato monolitico e di studiare la storia istituzionale con categorie più adeguate alla realtà italica. Segue la descrizione delle Dinamiche geo-politiche (1494-1796) degli Stati italiani (pp. 185-204). La fine delle Guerre d’Italia garantisce centocinquant’anni di pace e di stabilità alla Penisola, divenuta il baricentro di una fase di grande turbolenza internazionale ma anche l’antemurale della Cristianità contro l’islam. L’equilibrio viene raggiunto grazie ad altre due circostanze fondamentali: la piena comunione con la Chiesa cattolica, che assicura la vittoria sull’eresia e rafforza l’omogeneità culturale del Paese; e l’accettazione dell’egemonia spagnola, anche a garanzia dell’ortodossia religiosa: “[…] questo il sintetico giudizio espresso sull’Italia del secondo Cinquecento da una storiografia aggiornata e del tutto affrancata dall’antico schema ideologico della decadenza e dell’oppressione straniera” (p. 190). Gli eventi politici internazionali nei primi decenni del secolo XVIII e l’estinzione di due dinastie — i Farnese a Parma e i Medici a Firenze — spingono i principali Stati italiani a elaborare nuovi equilibri, in un ritrovato sistema di pesi e di contrappesi imperniato su cinque Stati principali — la Lombardia asburgica, il Regno di Sardegna, il Regno di Napoli, la Repubblica di Venezia e lo Stato Pontificio — che però, dopo i rivolgimenti rivoluzionari e napoleonici, sarà riproposto solo in parte. Dal lungo e particolareggiato esame de Gli Stati italiani: territorio e profili istituzionali (pp. 205-262) emergono sia la natura composita di numerosi Stati — distinti al loro interno per gli ordinamenti, le consuetudini e talvolta la lingua — e la conseguente autonomia delle comunità, governate spesso secondo una logica “patrizia”; sia lo sforzo, talvolta vincente, compiuto dal “dispotismo illuminato” per rafforzare il potere centrale a scapito delle varietà territoriali e istituzionali.
Pagano prende quindi in esame, nella Parte terza. La discontinuità rivoluzionaria e l’adozione del modello “nazionale” francese (pp. 263-302), che sul finire del secolo XVIII travolgono dinastie e formazioni politiche antichissime nel nome di una modernità il cui disegno — sostiene nel capitolo introduttivo La Rivoluzione in Italia. Albori della modernità contemporanea (pp. 265-269) — è “autenticamente antropologico, vale a dire di trasformazione radicale dell’uomo” (p. 268). La “nazione”, intesa come soggetto astratto, sostituisce gli antichi corpi intermedi ed esercita, tramite una propria rappresentanza, il potere legislativo, svincolato da ogni limite e fonte di tutti i diritti; la nuova qualifica di “cittadino”, sancita dallo Stato, sopprime secolari status e privilegi; “circoscrizioni e giurisdizioni frutto di secolari o millenari assestamenti tra ambiente naturale e civilizzazione umana — il territorio storico — vengono cancellate per lasciare il posto a una configurazione geometrica di istituzioni e di poteri” (p. 268); il patrimonio ecclesiastico viene espropriato e svenduto a vantaggio di speculatori, con gravi conseguenze sociali. I capitoli su Il triennio repubblicano (1796-1799) (pp. 270-281) e L’età napoleonica (pp. 282-303) descrivono le innovazioni radicali del periodo rivoluzionario, cui le popolazioni reagiscono con una serie d’insurrezioni generali, le insorgenze, un fenomeno “rilevantissimo sul piano numerico e geografico come sul piano simbolico-ideale” (p. 279), non più bollate come espressioni di fanatismo e di brigantaggio ma studiate nella loro complessità di “rivolte di popoli” (p. 281). Nell’Italia di Napoleone lo Stato diventa l’unico rappresentante di qualsiasi interesse pubblico, abilitato a governare “per decreto” — “più che una modalità […] uno stile di governo, caratteristico del regime monarchico, autoritario e centralizzato” (p. 291) introdotto dai governi rivoluzionari — e sulla base di codici, “[…] attraverso i quali irreggimentare i singoli. Esprimevano piuttosto l’idea del diritto di Stato che non quella dello Stato di diritto” (p. 293).
Nel capitolo Restaurazione/Risorgimento (pp. 307-312), introduttivo alla quarta e ultima parte, Tra Restaurazione e Risorgimento. Le diverse opzioni per un Paese multiforme (1815-1870) (pp. 305-359), Pagano precisa che le due parole del titolo, cui corrispondono altrettante categorie interpretative, sono utilizzate “più in ossequio a una lunga e consolidata tradizione di studi, che non come adesione convinta al paradigma interpretativo (di matrice appunto “risorgimentale”) consustanziale a questi termini, da tempo discusso, revisionato e in parte confutato” (p. 307). I modelli giuridici napoleonici esercitano un’influenza significativa anche dopo la Restaurazione del 1815, in cui “[…] quasi nulla è ripristinato nell’esatta fisionomia prerivoluzionaria” (p. 308). Insieme all’unificazione parziale del territorio peninsulare con la conseguente formazione di vasti mercati regionali interni, e ai processi di mobilitazione e di riaggregazione sociale attraverso l’esercito, la burocrazia e le logge massoniche, la loro adozione è gravida di conseguenze per le formazioni politiche italiche. Quanti aspirano a un nuovo Stato italiano, fondato sull’idea moderna di nazione, rigettano gli elementi principali dell’identità italiana, cioè la storia e le tradizioni degli antichi Stati e il ruolo svolto dal cattolicesimo, determinando “linee di tensione drammatica e forme diffuse di rifiuto del Risorgimento stesso, ora violentemente patenti ora sopite e sottotraccia, ma mai riassorbite, fino al cuore tormentato del nostro tempo presente” (p. 310). La stabilizzazione politica della Penisola — L’Italia del Congresso di Vienna. Soluzioni e nodi, pp. 313-336 — è caratterizzata per circa un quarantennio dal predominio dell’Impero d’Austria, dalla presenza di tre poli dinastici — Asburgo, Savoia e Borbone — e dalla centralità, anche simbolica, dello Stato Pontificio. A quest’ordine si oppongono le società segrete, spesso d’ispirazione massonica, “formidabile veicolo di formazione e di orientamento della nascente “opinione pubblica”” (p. 320), caratterizzate da una flessibilità di programmi e da una superficiale coloritura cristiana che attirano persone di formazione e appartenenza sociale differenti. Mentre i moti organizzati dalle “sette” falliscono, si afferma in ristrette élite culturali “una coscienza nazionale italiana” (p. 323) ed è auspicata l’unificazione politica ed economica della Penisola. Sebbene numerose opzioni si affollassero nel laboratorio politico italiano — confederazione presieduta dal Pontefice o dal re di Sardegna; lega egualitaria di Stati; una o più monarchie a base costituzionale; repubblica unitaria o repubblica federale —, dopo il fallimento dei moti del 1848-1849 prevale la soluzione monarchica unitaria, cioè L’esito sabaudo (pp. 337-359), grazie all’intenso lavorio politico e diplomatico di Casa Savoia e del primo ministro Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861), che dal 1859 tirano le fila di molte e divergenti azioni, producendo una “concatenazione rapida e irreversibile di eventi” (p. 338). Pagano contesta “[…] la tesi che ha opposto un Piemonte avanzato all’arretratezza di altri Stati, specialmente il Pontificio e le Due Sicilie” (p. 343). Mentre il Regno di Sardegna aveva compiuto una “modernizzazione” sociale in chiave statalista, incamerando i beni di molti enti religiosi, inasprendo la pressione fiscale a un livello sconosciuto nella Penisola e pagando lo sviluppo economico e il primato ferroviario con ricadute sociali di non poco conto, gli altri Stati italiani presentano una bilancia commerciale più equilibrata, un debito pubblico contenuto e un aumento significativo del livello d’istruzione; “altri settori, correlabili alle politiche pubbliche e alle condizioni di vita, meriterebbero un adeguato spazio comparativo, come la tipologia dei reati, il tasso di criminali e condannati al carcere o alla pena capitale (cresciuto grandemente nel Piemonte cavouriano) o come il sistema assistenziale e ospedaliero” (pp. 345-346).
La formazione di uno Stato nazionale unitario, divenuta una necessità nel secolo XIX, è il risultato anche della “[…] regìa interessata della Gran Bretagna e di ambienti internazionali (inclusa la rete massonica) ostili ai governi di Napoli e di Roma” (p. 353), ma “la stragrande maggioranza degli italiani ne rimaneva ignara, spettatrice e non attrice, infine indifferente od ostile” (p. 337); infatti, conclude Pagano, “i tempi precipitosi, i modi autoritari e violenti con cui l’unità fu realizzata dallo Stato dei Savoia avrebbero lasciato una gravosa ipoteca sul destino dell’Italia contemporanea” (p. 359).
Tabelle e un’adeguata cartografia corredano e integrano l’opera, che si chiude con una Bibliografia ragionata (pp. 361-389) e con l’Indice dei nomi (pp. 392-403).
Francesco Pappalardo