don Pietro Cantoni e Massimo Introvigne, Cristianità n. 358 (2010)
L’11 novembre 2010 Papa Benedetto XVI ha reso pubblica l’esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini, datata 30 settembre 2010 (1). In questo contributo non intendiamo esporre riassuntivamente il corposo documento, ma commentarne alcuni aspetti che attengono all’esegesi biblica, al Magistero e all’interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965). Si tratta di aspetti rilevanti per il dibattito avviato da alcuni critici dello stesso Concilio (2).
In un discorso ormai famoso, tenuto il 22 dicembre 2005 ai membri della Curia Romana, Papa Benedetto XVI ha criticato le interpretazioni del Concilio Ecumenico Vaticano II che ne leggono i documenti secondo un’“ermeneutica della discontinuità e della rottura” (3) rispetto al Magistero precedente della Chiesa, purtroppo assai diffusa e anzi in molti ambienti prevalente, raccomandando invece una “giusta ermeneutica” (4), insieme “del rinnovamento nella continuità” (5) e “della riforma” (6). Alcuni dei numerosi commentatori di questo storico discorso hanno rilevato che non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza. Infatti ora si tratta di riprendere in mano i documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II, uno per uno, interpretandoli secondo la “giusta ermeneutica” e tenendo conto sia del Magistero precedente sia di quello successivo.
Nella Verbum Domini Papa Benedetto XVI fa appunto questo, e ci mostra la giusta ermeneutica — per così dire — in azione. Dopo la XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che si è celebrata in Vaticano dal 5 al 26 ottobre 2008 e che ha avuto per tema La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, il Papa rilegge metodicamente la Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei Verbum del Concilio Ecumenico Vaticano II (7), che definisce “pietra miliare nel cammino ecclesiale” (n. 3), riconoscendo “i grandi benefici apportati da questo documento” (ibidem), e allo scopo si serve sia del Magistero precedente — in particolare di Papa Leone XIII (1878-1903) e del venerabile Papa Pio XII (1939-1958) —, sia di documenti successivi al Concilio, del servo di Dio Papa Paolo VI (1963-1978), del venerabile Papa Giovanni Paolo II (1978-2005) e dello stesso Papa Benedetto XVI. Nel medesimo tempo, il regnante Pontefice formula osservazioni generali utili non solo per l’esegesi biblica ma anche per il giusto accostamento nei confronti del Magistero della Chiesa in genere e dei documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II in particolare.
1. L’esegesi della Bibbia secondo la Verbum Domini
Insegna la Verbum Domini che “[…] non v’è alcuna comprensione autentica della Rivelazione cristiana al di fuori dell’azione del Paraclito” (n. 15), dello Spirito Santo, che dapprima “[…] ispira gli autori delle sacre Scritture” (ibidem), quindi “[…] sostiene e ispira la Chiesa nel compito di annunciare la Parola di Dio” (ibidem). Quanto agli autori sacri, i due concetti fondamentali sono quelli dell’ispirazione e della verità: “[…] come il Verbo di Dio si è fatto carne per opera dello Spirito Santo nel grembo della Vergine Maria, così la sacra Scrittura nasce dal grembo della Chiesa per opera dello Spirito Santo” (n. 19). L’ispirazione dello Spirito Santo non è una mera dettatura: la Chiesa “[…] riconosce tutta l’importanza dell’autore umano che ha scritto i testi ispirati e, al medesimo tempo, Dio stesso come vero autore” (ibidem).
Papa Benedetto XVI insiste su “[…] quanto il tema dell’ispirazione sia decisivo” (ibidem) per una “corretta ermeneutica” (ibidem). Se si misconosce l’importanza dell’autore umano si adotta — si potrebbe dire — l’atteggiamento che l’islam ha di fronte al Corano, considerato un testo letteralmente “dettato” e non semplicemente ispirato da Dio, e si cade in forme di fondamentalismo. Ma, se “[…] si affievolisce in noi la consapevolezza dell’ispirazione” (ibidem) divina, allora “[…] si rischia di leggere la Scrittura come oggetto di curiosità storica e non come opera dello Spirito Santo” (ibidem). Ultimamente, come insegna la Dei Verbum, è lo Spirito Santo, e non lo studio storico degli atteggiamenti dei loro autori e delle circostanze della loro redazione, che garantisce la verità delle Scritture: “Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, si deve dichiarare, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle sacre Lettere” (8).
Quanto all’azione dello Spirito Santo in relazione alla comprensione della Sacra Scrittura nella Chiesa, l’affermazione di Papa Benedetto XVI è molto forte: “[…] senza l’azione efficace dello “Spirito della Verità” (Gv 14,16) non è dato di comprendere le parole del Signore” (n. 16). Così hanno insegnato i Padri della Chiesa e i dottori. Per san Girolamo (347-419/420) “[…] non possiamo arrivare a comprendere la Scrittura senza l’aiuto dello Spirito Santo che l’ha ispirata” (ibidem). E “Riccardo di San Vittore [1110 ca.-1173] ricorda che occorrono “occhi di colomba”, illuminati ed istruiti dallo Spirito, per comprendere il testo sacro” (ibidem).
Non si tratta di un’affermazione priva di conseguenze. “Riaffermando il profondo legame tra lo Spirito Santo e la Parola di Dio, abbiamo anche posto le basi per comprendere il senso ed il valore decisivo della viva Tradizione” (n. 17) nella sua relazione con la Sacra Scrittura, e per interpretare correttamente la Dei Verbum. Appare allora con evidenza il fatto che “il Concilio Vaticano II ricorda […] come questa Tradizione di origine apostolica sia realtà viva e dinamica: essa “progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo”; non nel senso che essa muti nella sua verità, che è perenne. Piuttosto “cresce… la comprensione tanto delle cose quanto delle parole trasmesse”, con la contemplazione e lo studio, con l’intelligenza data da una più profonda esperienza spirituale e per mezzo “della predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità”” (ibidem; le citazioni sono dalla Dei Verbum, n. 8.). Se si legge la Dei Verbum meditando sull’azione dello Spirito Santo ci si convince che “la viva Tradizione è essenziale affinché la Chiesa possa crescere nel tempo nella comprensione della verità rivelata nelle Scritture” (n. 17): “in definitiva, è la viva Tradizione della Chiesa a farci comprendere in modo adeguato la sacra Scrittura come Parola di Dio” (ibidem).
Una parte cospicua — circa un quarto — dell’esortazione apostolica Verbum Domini è consacrata all’interpretazione del n. 12 della Dei Verbum. Si tratta di un passaggio d’importanza centrale della Costituzione conciliare, che conviene anzitutto rileggere: “Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l’interprete della sacra Scrittura, per capir bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi abbiano veramente voluto dire e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole. Per ricavare l’intenzione degli agiografi, si deve tener conto fra l’altro anche dei generi letterari. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in vario modo storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di espressione. È necessario adunque che l’interprete ricerchi il senso che l’agiografo in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso, intendeva esprimere ed ha di fatto espresso. Per comprendere infatti in maniera esatta ciò che l’autore sacro volle asserire nello scrivere, si deve far debita attenzione sia agli abituali e originali modi di sentire, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi dell’agiografo, sia a quelli che nei vari luoghi erano allora in uso nei rapporti umani” (9).
“Perciò — continua la Dei Verbum — dovendo la sacra Scrittura esser letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede. È compito degli esegeti contribuire, seguendo queste norme, alla più profonda intelligenza ed esposizione del senso della sacra Scrittura, affinché mediante i loro studi, in qualche modo preparatori, maturi il giudizio della Chiesa. Quanto, infatti, è stato qui detto sul modo di interpretare la Scrittura, è sottoposto in ultima istanza al giudizio della Chiesa, la quale adempie il divino mandato e ministero di conservare e interpretare la parola di Dio” (10). Per interpretare questa parte della Dei Verbum il Papa dà rilievo anche al documento del 1993 della Pontificia Commissione Biblica L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (11), che cita ripetutamente anche se non ne riprende tutti i passaggi.
La chiave di lettura proposta da Papa Benedetto XVI è subito enunciata: “[…] il legame intrinseco tra Parola e fede mette in evidenza che l’autentica ermeneutica della Bibbia non può che essere nella fede ecclesiale, che ha nel sì di Maria il suo paradigma” (n. 29). Questo è il “[…] criterio fondamentale dell’ermeneutica biblica: il luogo originario dell’interpretazione scritturistica è la vita della Chiesa” (ibidem; corsivo nell’originale). L’esegesi biblica cattolica dev’essere condotta nella Chiesa e sotto la guida del Magistero. Diversamente, anziché interpretare la Bibbia la falsifica. “[…] l’ecclesialità dell’interpretazione biblica non è un’esigenza imposta dall’esterno” (n. 30). Non si tratta di “[…] un criterio estrinseco cui gli esegeti devono piegarsi, ma è richiesta dalla realtà stessa delle Scritture e da come esse si sono formate nel tempo” (n. 29). Dopo tutto, quali testi fossero da considerare Sacra Scrittura è stato indicato dalla Chiesa. E, “[…] come dice mirabilmente sant’Agostino [354-430], “non crederei al Vangelo se non mi ci inducesse l’autorità della Chiesa cattolica”” (ibidem), mentre “san Girolamo ricorda che non possiamo mai da soli leggere la Scrittura. Troviamo troppe porte chiuse e scivoliamo nell’errore” (n. 30).
Ne consegue che “un’autentica interpretazione della Bibbia deve essere sempre in armonica concordanza con la fede della Chiesa cattolica” (ibidem), e ogni esegeta deve sentire come rivolto a sé stesso l’ammonimento con cui “[…] san Girolamo si rivolgeva ad un sacerdote: “Rimani fermamente attaccato alla dottrina tradizionale che ti è stata insegnata, affinché tu possa esortare secondo la sana dottrina e confutare coloro che la contraddicono”” (ibidem). “Approcci al testo sacro che prescindano dalla fede possono suggerire elementi interessanti soffermandosi sulla struttura del testo e le sue forme; tuttavia, un tale tentativo sarebbe inevitabilmente solo preliminare e strutturalmente incompiuto” (ibidem). “La relazione tra la vita spirituale e l’ermeneutica della Scrittura” (ibidem) è sottolineata dalla stessa Pontificia Commissione Biblica nel documento del 1993, che pure è molto tecnico: “La giusta conoscenza del testo biblico è accessibile solo a colui che ha un’affinità vissuta con ciò di cui parla il testo” (12).
Se passiamo a interrogarci “sullo stato degli attuali studi biblici” (n. 31), tenendo conto dello stesso documento del 1993 e nella linea tracciata dalla Dei Verbum, ci troviamo davanti a luci e a ombre. Certo, “[…] è necessario riconoscere il beneficio derivato nella vita della Chiesa dall’esegesi storico-critica e dagli altri metodi di analisi del testo sviluppati nei tempi recenti” (n. 32), e riaffermare che oggi per l’esegeta “[…] l’attenzione a questi metodi è imprescindibile” (ibidem). Né si tratta di una novità, perché — come il Papa ha richiamato nel suo viaggio in Francia del 2008 e in altre occasioni — fin dalla “[…] cultura monastica, cui dobbiamo ultimamente il fondamento della cultura europea” (ibidem), e in tutta la “sana tradizione ecclesiale” (ibidem), gli esegeti si sono sempre avvalsi della migliore cultura e scienza del loro tempo.
Dobbiamo però interpretare i riferimenti della Dei Verbum ai “nuovi metodi di analisi storica” (n. 33) alla luce del Magistero, servendoci in particolare delle “encicliche Providentissimus Deus (13) di Papa Leone XIII e Divino afflante Spiritu (14) [1943] di Papa Pio XII” (ibidem), di cui — ricorda Papa Benedetto XVI, sempre attento agli anniversari — il venerabile Giovanni Paolo II ebbe occasione di celebrare insieme, nel 1993, rispettivamente il centenario e il cinquantenario. Questi due testi fondamentali ci aiutano a sfuggire a due errori contrapposti: interpretare la Bibbia con la sola ragione — che diventa razionalismo — prescindendo dalla fede; e leggerla con la sola fede — secondo un falso misticismo — prescindendo dalla ragione.
L’enciclica di Papa Leone XIII Providentissimus Deus “[…] ebbe il merito di proteggere l’interpretazione cattolica della Bibbia dagli attacchi del razionalismo, senza però rifugiarsi in un senso spirituale staccato dalla storia” (ibidem). Nell’enciclica Divino afflante Spiritu il venerabile Papa Pio XII invece “[…] si trovava di fronte agli attacchi dei sostenitori di un’esegesi cosiddetta mistica che rifiutava qualsiasi approccio scientifico” (ibidem). Papa Pacelli, “[…] con grande sensibilità, ha evitato d’ingenerare l’idea di una dicotomia fra l’”esegesi scientifica” per l’uso apologetico e l’”interpretazione spirituale riservata all’uso interno”” (ibidem). Celebrando nel 2008 il cinquantenario della morte del venerabile Papa Pio XII, Papa Benedetto XVI ricordava fra i suoi insegnamenti più importanti e attuali proprio la Divino afflante Spiritu. “L’approfondimento dei “generi letterari”, che intendeva comprendere meglio quanto l’autore sacro aveva voluto dire — spiegava Papa Benedetto XVI —, fino al 1943 era stato visto con qualche sospetto, anche per gli abusi che si erano verificati. L’Enciclica ne riconosceva la giusta applicazione, dichiarandone legittimo l’uso per lo studio non solo dell’Antico Testamento, ma anche del Nuovo” (15). A ben vedere, “[…] entrambi i documenti [la Providentissimus Deus e la Divino afflante Spiritu] rifiutano “la rottura tra l’umano e il divino”” (ibidem), dunque fra fede e ragione.
Alla loro luce dobbiamo leggere “l’ermeneutica biblica conciliare” (n. 34) del Concilio Ecumenico Vaticano II che si è espressa nella Dei Verbum. Correttamente interpretato, il fondamentale n. 12 della Costituzione conciliare da una parte “[…] sottolinea come elementi fondamentali per cogliere il significato inteso dall’agiografo lo studio dei generi letterari e la contestualizzazione” (ibidem). Ma, “dall’altra” (ibidem), “[…] indica tre criteri di base per tenere conto della dimensione divina della Bibbia: 1) interpretare il testo considerando l’unità di tutta la Scrittura; questo oggi si chiama esegesi canonica; 2) tenere presente la Tradizione viva di tutta la Chiesa; e, infine, 3) osservare l’analogia della fede” (ibidem).
Se non si tiene conto di questi criteri si separano — come in altri campi — ragione e fede, il che nell’esegesi biblica purtroppo oggi “[…] avviene anche ai livelli accademici più alti” (n. 35), producendo un’“ermeneutica secolarizzata” (ibidem) che è uno dei frutti avvelenati dell’interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II secondo gl’infausti princìpi della discontinuità e della rottura. Papa Benedetto XVI indica tre caratteristiche dell’“ermeneutica secolarizzata”: legge la Bibbia come “un testo solo del passato” (ibidem); è convinta che “[…] il Divino non appare nella storia umana” (ibidem) e “[…] nega la possibilità dell’ingresso e della presenza del Divino nella storia” (ibidem), così che, “[…] quando sembra che vi sia un elemento divino, lo si deve spiegare in altro modo” (ibidem); e getta “[…] un dubbio sui misteri fondamentali del cristianesimo e sul loro valore storico, come ad esempio l’istituzione dell’Eucarestia e la risurrezione di Cristo” (ibidem). E tutto questo avvelena anche la vita spirituale, la pastorale, “la preparazione delle omelie” (ibidem); “[…] produce a volte incertezza e poca solidità nel cammino formativo intellettuale anche di alcuni candidati ai ministeri ecclesiali” (ibidem).
Il problema, insiste Papa Benedetto XVI, non riguarda solo l’esegesi biblica ma “[…] il corretto rapporto tra fede e ragione. Infatti, l’ermeneutica secolarizzata della sacra Scrittura è posta in atto da una ragione che strutturalmente vuole precludersi la possibilità che Dio entri nella vita degli uomini e che parli agli uomini in parole umane” (n. 36). Così, è opportuno che la Dei Verbum sia letta tenendo conto anche dell’enciclica Fides et ratio (16), del venerabile Papa Giovanni Paolo II, la quale — insieme a una serie d’interventi dello stesso Papa Benedetto XVI, esplicitamente richiamati — può insegnarci da una parte che “[…] occorre una fede che mantenendo un adeguato rapporto con la retta ragione non degeneri mai in fideismo, il quale nei confronti della Scrittura diventerebbe fautore di letture fondamentaliste” (ibidem), mentre dall’altra “[…] è necessaria una ragione che indagando gli elementi storici presenti nella Bibbia si mostri aperta e non rifiuti aprioristicamente tutto ciò che eccede la propria misura” (ibidem).
In entrambi i casi — del fondamentalismo e del razionalismo — si apre la strada a “interpretazioni soggettivistiche ed arbitrarie” (n. 44) del testo sacro. Il fondamentalismo, che “[…] tende a trattare il testo biblico come se fosse stato dettato parola per parola dallo Spirito” (ibidem), in realtà “[…] rifiutando di tener conto del carattere storico della rivelazione biblica, si rende incapace di accettare pienamente la verità della stessa Incarnazione” (ibidem). D’altro canto, “[…] coltivare un concetto di ricerca scientifica che si ritenga neutrale nei confronti della Scrittura” (n. 47) significa precludersi la sua vera comprensione, con conseguenze molto gravi — quando questa forma di razionalismo penetra nelle università cattoliche e nei seminari — anche nella formazione dei candidati al sacerdozio.
L’ascolto della Tradizione e l’attenzione, “[…] dalla quale nessuno può prescindere” (n. 49), ai santi — ognuno dei quali parte, per così dire, da un versetto scritturistico e lo vive in pienezza, così che “[…] costituisce come un raggio di luce che scaturisce dalla Parola di Dio” (ibidem) — aiuta anche a tornare all’antica questione della relazione fra senso letterale e senso spirituale della Sacra Scrittura. Non dimenticando quanto “[…] san Tommaso d’Aquino [1225 ca.-1274] afferma: “tutti i sensi della sacra Scrittura si basano su quello letterale”” (n. 37), il Papa ricorda come i medioevali distinguevano fra quattro sensi delle Scritture — letterale, allegorico, morale e anagogico: gli ultimi tre, spiega, sono suddivisioni del senso spirituale — ricordando, come aveva già fatto in Francia, il distico contenuto nel Rotulus pugillaris del domenicano Agostino di Dacia (?-1282): “Littera gesta docet, quid credas allegoria, moralis quid agas, quo tendas anagogia. La lettera insegna i fatti, l’allegoria che cosa credere, il senso morale che cosa fare e l’anagogia dove tendere” (ibidem), citato anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica (17).
Questo tradizionale riferimento ai sensi spirituali ci segnala che “[…] Dio stesso, infatti, non è mai presente già nella semplice letteralità del testo. Per raggiungerlo occorre un trascendimento e un processo di comprensione” (n. 38), di cui il n. 12 della Dei Verbum c’indica una via maestra: “[…] un tale trascendimento non può avvenire nel singolo frammento letterario se non in rapporto alla totalità della Scrittura” (ibidem). Qui, per comprendere “[…] quanto affermato nel numero 12 della Costituzione dogmatica Dei Verbum, indicando l’unità interna di tutta la Bibbia come criterio decisivo per una corretta ermeneutica della fede” (n. 39), “rimangono per noi una guida sicura le espressioni di Ugo di San Vittore [1096 ca.-1141]: “Tutta la divina Scrittura costituisce un unico libro e quest’unico libro è Cristo, parla di Cristo e trova in Cristo il suo compimento”” (ibidem).
Tutto rimanda al tema centrale della Dei Verbum, ribadito nel n. 10 della Costituzione conciliare: “[…] la sacra Tradizione, la sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti che nessuna di queste realtà sussiste senza le altre” (n. 47). Questo è il vero “insegnamento del Concilio Vaticano II” (ibidem): “lo studio della sacra Scrittura” (ibidem) deve avvenire “nella comunione della Chiesa universale” (ibidem) e — come afferma ancora la Dei Verbum al n. 23 — “sotto la vigilanza del Sacro Magistero” (n. 45).
2. L’esegesi del Magistero
La Verbum Domini tratta anzitutto di esegesi biblica; quindi, di come interpretare correttamente uno specifico documento del Concilio Ecumenico Vaticano II, la Costituzione dogmatica Dei Verbum. Tuttavia alcuni princìpi che fissa sono rilevanti per l’esegesi del Magistero cattolico in genere e dei documenti dell’ultimo Concilio in particolare. In discussioni sul tema (18) è emersa — da parte di alcuni critici dei documenti di tale Concilio — una tesi di fondo di natura non solo storica ma anche sociologica: che l’evento conciliare, proprio in quanto evento globale, è un tutto che comprende — senza che sia possibile separarli — le discussioni in aula, l’azione delle lobby, la presentazione ai media durante e dopo il Concilio, la teologia dei circoli che hanno preceduto e preparato l’evento conciliare, le sue conseguenze e, infine, i suoi documenti. Se è così, separare i documenti dall’evento e anche dalle conseguenze del Concilio — cioè da quel postconcilio dove ha prevalso l’ermeneutica della discontinuità e della rottura — è insieme illegittimo e impossibile. Si ammette, certo, che fra testi e contesto è possibile una distinzione. Ma questa distinzione, in quanto dichiara illegittima una valutazione autonoma dei documenti, rimane puramente astratta. I documenti fanno parte dell’evento, di cui — si suggerisce — forse non sono neppure la parte più importante, e fuori dell’evento perdono il loro significato. Se la discontinuità e la rottura sono apparse egemoniche nella fase postconciliare dell’evento e in alcune discussioni fra Padri conciliari, allora anche i documenti devono essere per forza coinvolti in questa egemonia.
Questa tesi fa riferimento a una nozione di evento globale che è sociologicamente sbagliata. Certo, osservare un evento nella sua globalità — sia pure perdendo di vista, per un momento, le sue singole componenti — può apportare elementi utili a un’analisi di quanto è avvenuto. Ma non esaurisce quest’analisi. Se si tratta di documenti, in realtà questi possono sempre essere separati — e non soltanto formalmente distinti — dalle discussioni che li hanno preceduti e dalle applicazioni che li hanno seguiti. Nessun giurista penserebbe di opporre a una legge gl’interventi nell’aula del Parlamento che l’ha votata, di chi si è espresso a favore o contro il suo testo o la dottrina presente nella letteratura cui ha fatto riferimento. I lavori preparatori possono essere un punto di riferimento interpretativo, ma non prevalgono mai sul testo della legge. E il fatto che a una legge non si ubbidisca, o che se ne tragga pretesto per comportarsi al contrario di quanto afferma, a rigore non ci dice nulla della sua corretta interpretazione: abusum non tollit usum.
La sociologia, inoltre, non è l’unica scienza di cui servirsi per leggere i documenti del Magistero, compresi quelli del Concilio Ecumenico Vaticano II, e comunque non afferma affatto che sia impossibile la distinzione logica fra un testo e il suo contesto. Se il testo fosse assorbito e fagocitato dal contesto, il che naturalmente potrebbe essere affermato di qualunque documento che si presenta come autorevole, perderebbe il suo specifico significato e ci troveremmo in una sorta di strutturalismo dove ogni affermazione è smontata e decostruita in un gioco di riferimenti perpetuo dove nulla ha più autorità. La vera scienza serve a spiegare i documenti. Non serve più se li fa a pezzi.
A questo punto cadono a proposito le osservazioni della Verbum Domini per relazione al metodo storico-critico nell’esegesi biblica. Neanche il più “ultramontano” sostenitore del Magistero pontificio penserebbe di mettere sullo stesso piano gl’insegnamenti dei Pontefici o di un Concilio e la Sacra Scrittura. Tuttavia l’espressione citata, proprio della Costituzione conciliare Dei Verbum, secondo cui “[…] la sacra Tradizione, la sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa […] sono tra loro talmente connessi e congiunti che nessuna di queste realtà sussiste senza le altre” (19), permette una prudente analogia. Come abbiamo visto la Verbum Domini afferma che “approcci al testo sacro che prescindano dalla fede” (n. 30), per quanto approfondiscano gli elementi storici, “possono suggerire elementi interessanti […]; tuttavia, un tale tentativo sarebbe inevitabilmente solo preliminare e strutturalmente incompiuto” (ibidem).
Lo stesso vale, mutatis mutandis, per il Magistero. Come per la Bibbia, anche di un testo di Magistero è possibile studiare la Redaktionsgeschichte, la “storia della redazione”, e anche la Formgeschichte, la “storia della forma”. Si tratta di elementi che, ci assicura Papa Benedetto XVI sulla scia della Divino afflante Spiritu del venerabile Papa Pio XII e della Dei Verbum, hanno un loro interesse e non vanno certo trascurati. Tuttavia la storia della redazione di un testo e quella degli ambienti e delle forme di pensiero che si trovano in una qualche relazione con la sua genesi, offrono solo un accostamento “preliminare” (ibidem) e “incompiuto” (ibidem). Ultimamente, per determinare il suo significato, occorrerà anzitutto considerare il suo tenore letterale, da cui occorre sempre partire per non far dire al testo qualunque cosa venga in mente all’interprete, quindi applicare un’ermeneutica che abbia al suo centro l’analogia fidei, per cui una qualsiasi voce — locus theologicus — nella variegata sinfonia della Tradizione dev’essere interpretata in armonia con tutte le altre.
Così, per esempio, sapere che il tal Padre conciliare nell’aula del Concilio Ecumenico Vaticano II espresse posizioni discutibili a proposito di un testo poi approvato, e che i redattori materiali di parti del documento erano di cattivi costumi o dottrina o facevano parte di lobby male orientate, non è del tutto privo d’interesse, ma limitarsi a questi elementi non è solo parziale: è sbagliato. È una regola fondamentale dell’interpretazione quella secondo cui il testo prevale su qualunque elemento eventualmente contrario che si ricavi dalla storia della sua redazione. Ragionare diversamente significa, come si è accennato, distruggere l’autorità di qualunque documento. Tanto più questo vale per le encicliche, per i documenti di un Concilio Ecumenico o per altri testi di quel Magistero che è, come ci ricordano la Dei Verbum e ora la Verbum Domini, cosa sacra.
Dunque, ancora relativamente al Concilio Ecumenico Vaticano II, le ricostruzioni storiche dei movimenti e delle discussioni che precedettero l’approvazione dei documenti del Concilio — per non parlare di quelle che la seguirono —, parafrasando quanto la Verbum Domini afferma della Sacra Scrittura, “[…] possono suggerire elementi interessanti” (ibidem), ma un accostamento fondato su queste discussioni è solo “preliminare” (ibidem) e, se ci si ferma solo agli elementi storici, è destinato a rimanere “incompiuto” (ibidem). Una volta che il testo conciliare è stato approvato, e promulgato dal Pontefice, diventa Magistero da leggere — come soleva dire il card. Giuseppe Siri (1906-1989) — in ginocchio (20). Cercare di squalificare il testo magisteriale riferendosi a quanto a vario titolo ha preceduto la sua approvazione significa cadere nello stesso errore metodologico che si rimprovera a quegli esegeti imprigionati nelle sole Formgeschichte e Redaktionsgeschichte per cui gli elementi storici e il contesto prevalgono sul senso teologico del testo, come quando — per esempio — si pretende di correggere i Vangeli canonici servendosi della famosa “fonte Q”, una creazione puramente congetturale che, in quanto tale, non ha nessun riscontro documentale.
3. Il Concilio Ecumenico Vaticano II: un’eccezione?
Un’obiezione che da certa letteratura “anti-conciliarista” (21) — l’espressione è di Papa Benedetto XVI — si muove al ragionamento che abbiamo appena svolto, applicato all’ultimo Concilio, è la seguente: il Concilio Ecumenico Vaticano II non è un Concilio come gli altri. Non lo è perché non ha emanato definizioni dogmatiche con corrispondenti condanne, e perché i suoi documenti — a differenza di tutti gli altri Concili — non hanno chiuso la discussione, ma al contrario l’hanno aperta, prestandosi a ipotesi interpretative disparate.
In realtà, il fatto di non proporre definizioni dogmatiche non è una caratteristica propria del Concilio Ecumenico Vaticano II. Se si accetta la lista recepta dei Concili Ecumenici, basterebbe chiedersi quali mai siano i dogmi definiti dai Concili Lateranense I, del 1123; II, del 1139; III, del 1179, e V, del 1512-1517. Se si ammette che i Concili Ecumenici sono infallibili se e solo se definiscono in modo straordinario, qual è il valore dei capitoli dottrinali del Concilio di Trento (1545-1563) e del Vaticano I (1869-1870) e in generale di tutte le parti non definitorie in senso stretto degli altri Concili? Sarebbe assurdo rispondere che tale valore non esiste, o che queste parti — in quanto non definiscano — possano essere tranquillamente rifiutate dai fedeli.
L’assenso del fedele cattolico sarebbe dovuto anche qualora nulla nel Concilio Ecumenico Vaticano II — o solo quanto è letteralmente ripreso dal Magistero precedente — fosse insegnato in modo definitivo, il che non è assolutamente certo. Vi sono anzi ottimi argomenti per pensare il contrario. Per costante insegnamento, “[…] anche il Magistero non definitivo (detto anche “autentico”) esige la nostra adesione, peraltro non solo esterna ma anche con un assenso interno della nostra intelligenza e della nostra volontà” (22). È inoltre dottrina della Chiesa, certa e mai messa in dubbio da nessun teologo cattolico, che i documenti di un Concilio Ecumenico legittimamente convocato e, soprattutto, legittimamente promulgati da tutto il corpo insegnante della Chiesa cum Petro et sub Petro non possono assolutamente contenere eresie.
Cosa che non ha niente a che vedere con l’antica questione de Papa haeretico, e neppure con la legittima resistenza ad atti della suprema autorità che siano contrari alla fede o la mettano in pericolo. La dottrina diffusa nelle opere dei grandi teologi e nei manuali riguarda infatti atti puntuali e rari, mentre qui ci troviamo davanti ad atti magisteriali di tutta la Chiesa docente, a un Magistero papale ordinario che copre un arco di tempo di più di quarant’anni, solidali con atti quali la promulgazione di un Catechismo universale della Chiesa — il secondo — e di un Codice di Diritto Canonico, anch’esso il secondo della sua storia. Senza contare le canonizzazioni, che è opinione comune dei teologi ritenere infallibili, e le beatificazioni — compresa quella del Papa che convocò il Concilio, il beato Papa Giovanni XXIII (1958-1963) — cui comunque, in ossequio a questa dottrina comune, va ascritto un altissimo grado di autorevolezza.
L’intervento di Papa Benedetto XVI del 22 dicembre 2005 da questa letteratura è palesemente frainteso. Il Papa ha parlato infatti in esso di due ermeneutiche del Vaticano II che si sono affrontate e hanno litigato fra di loro. L’una “[…] ha portato confusione” (23), l’altra “[…] ha portato e porta frutti” (24). Qui il Pontefice non avanza una proposta teologica, ma interviene su una questione delicatissima, in una sede elevatissima — la Curia Romana —, con l’autorità del suo Magistero ordinario. Il fatto che parli di due ermeneutiche non significa che si tratta di questioni discutibili, a proposito delle quali traccia uno status quaestionis su cui ciascuno ha diritto a costruire la sua personale opinione. Al contrario, come insegna il venerabile Papa Pio XII, “se […] i Sommi Pontefici nei loro atti emanano di proposito una sentenza in materia finora controversa, è evidente per tutti che tale questione, secondo l’intenzione e la volontà degli stessi Pontefici, non può più costituire oggetto di libera discussione fra i teologi” (25).
La posta in gioco infatti non è l’interpretazione teologica del Concilio Ecumenico Vaticano II, che può certo rimanere oggetto di discussione, ma la sua accettazione — cioè l’“ermeneutica della riforma” (26) o “del rinnovamento nella continuità” (27) — o il suo rifiuto, cioè l’ermeneutica della rottura. Ritenere infatti che un documento contraddica quanto dalla Chiesa sempre insegnato equivale, in un’ottica di fede, al suo rifiuto. Una volta accettato l’ultimo Concilio come momento di quell’atto continuo e complesso con cui la Chiesa ci “[…] propone a credere” ciò che è rivelato da Dio — ripensiamo all’Atto di fede del Catechismo della Chiesa Cattolica. Compendio (28), facendo attenzione a quello che non dice: “ci obbliga a credere “con minaccia di scomunica”” — allora si potrà anche discutere sulla sua più precisa e articolata interpretazione. Così come — analogamente e non univocamente — una volta accettate le sacre Scritture come appartenenti a un unico Libro ispirato da Dio e affidato alla Chiesa per la sua spiegazione autentica, ci si può per esempio ritenere liberi di optare per l’interpretazione, di un dato passo, proposta da san Giovanni Crisostomo (344/354-407), da Cornelio a Lapide (1567-1637) o da Heinrich Schlier (1900-1978).
Papa Benedetto XVI ha paragonato i problemi di ermeneutica del Concilio Ecumenico Vaticano II a quelli relativi al Concilio di Nicea. La letteratura che critichiamo, in disaccordo con il Pontefice, obietta: i documenti di Nicea erano chiarissimi, e la crisi che seguì derivò solo dalla protervia degli eretici che non volevano accettare quel Concilio, mentre i documenti del Vaticano II sono pieni di ambiguità, tanto più se li si legge come parte di un “evento” globale che comprende le discussioni precedenti alla loro promulgazione e il postconcilio, e che rivela almeno alcuni di loro, una volta letti all’interno dell’evento, non solo come ambigui ma come eretici.
Ora — come abbiamo già osservato — i termini in cui il Papa pone il problema non sono quelli di un legittimo “conflitto d’interpretazioni”, ma del contrapporsi — nell’ottica di quell’”interpretazione” del messaggio divino che è la fede — di un sì o di un no. Non si tratta neppure di un intervento assolutamente nuovo che correggerebbe in ritardo una primitiva lettura del Concilio Ecumenico Vaticano II mediante la metafora trionfalistica della “nuova Pentecoste”, che è — appunto — una metafora: in realtà l’interpretazione in conformità con tutta la Tradizione della Chiesa è quanto il Magistero ha sempre affermato, prima, durante e dopo il Concilio con il beato Papa Giovanni XXIII, con il servo di Dio Papa Paolo VI e con il venerabile Papa Giovanni Paolo II. Si tratta d’altronde — puramente e semplicemente — del costante e ininterrotto richiamo da parte del Magistero ordinario della Chiesa di quella già richiamata norma generale d’interpretazione teologica che si chiama tecnicamente analogia fidei.
Venendo al Concilio di Nicea, il patrologo Manlio Simonetti ha autorevolmente dimostrato che il significato di homoousios, espressione centrale di quel Concilio riferita a Gesù Cristo che è dichiarato “della stessa sostanza” del Padre, era a quell’epoca tutt’altro che chiaro. “L’equivocità di homoousios dipendeva dalla polivalenza di ousia che poteva indicare, fra l’altro, sia l’essenza individuale di un oggetto (= ipostasi), sia l’essenza comune a tutti gli esseri di uno stesso genere, secondo la distinzione aristotelica fra prima e seconda ousia: di qui il pericolo di interpretare l’espressione nel senso che il Figlio partecipa della stessa essenza individuale, cioè della stessa ipostasi del Padre” (29).
Il beato John Henry Newman (1801-1890) nel suo Gli ariani del IV secolo, opera giovanile che presenta i limiti di un’impostazione storica oggi ritenuta ampiamente superata, dà “[…] la netta impressione che solo i Niceni siano ortodossi, mentre oggi si riconosce che anche molti ecclesiastici che non vollero accettare il Credo di Nicea (perché pensavano che compromettesse la distinzione del Figlio dal Padre) […] furono perfettamente ortodossi: sono Basilio di Ancyra [336 ca.-360] e i suoi seguaci, che Epifanio [315-403] denominò, ingiustamente, semiariani. Ché anzi proprio a questo ambiente teologico si ispirò Basilio il Grande [329-379] a cui si deve la interpretazione di Nicea che risolse i contrasti e le difficoltà” (30).
Lo stesso beato Newman nella sua opera matura Lo sviluppo della dottrina cristiana scrive: “Dobbiamo tener presente che nel periodo preniceno vi è stato un solo grande Concilio dottrinale. Lo si tenne ad Antiochia, a metà del III secolo […]. Orbene, i Padri che si riunirono in quella occasione, condannarono, quale che ne fosse la ragione per farlo, o almeno non accettarono, quando se ne discusse, il termine homousion, che fu invece accolto successivamente a Nicea come quello che caratterizzava la posizione contro Ario [256-336]“ (31). Questa è infatti la grande idea sviluppata dal beato Newman: quello che gli avversari della Chiesa Cattolica hanno considerato come un groviglio di contraddizioni, in cui “[…] i Papi contraddicono altri Papi e dei Concili si ergono contro altri Concili” (32) è in realtà un meraviglioso e armonico sviluppo in cui la stessa idea, pur cambiando a volte molto sensibilmente nelle sue formulazioni, cresce rimanendo sé stessa.
La dottrina della Chiesa c’insegna che il suo Magistero, senza essere un “sacramento” in senso stretto, gode tuttavia di un’assistenza divina che ne garantisce — a determinate condizioni — l’efficacia, cioè la trasmissione della verità. La letteratura “anti-conciliarista” si affretta ad aggiungere che la promessa della grazia è condizionata dall’umana collaborazione, e che questa spesso manca fra gli ecclesiastici in tempi di crisi. Questa letteratura evita così però il nocciolo della questione: siamo noi garantiti che in certi casi l’intervento di Dio si produca oggettivamente, al di là delle soggettive debolezze umane? In campo strettamente sacramentale questo fatto si è trovato espresso nella formula ex opere operato del Concilio tridentino. Procedendo in analogia con l’ordine strettamente sacramentale — analogia, quindi non univocità —, dobbiamo dire che anche qui si dà, quodammodo, “in un certo senso”, un ex opere operato. Tale da fondare l’obiettività del fatto che la Chiesa rimanga sempre, nelle sue istanze autentiche, “colonna e sostegno della verità” (1Tim. 3, 15).
Alla luce di questa analogia possiamo discernere qui il riemergere di una tentazione che ha sempre attraversato la storia della Chiesa, dal donatismo dei tempi di sant’Agostino, fino alla rivoluzione protestante, che ha indotto a far dipendere la realtà e l’oggettività dell’intervento salvifico di Dio dalla fede e dalla moralità dei suoi ministri. Come il fatto che la Chiesa sia santa non mi garantisce che tutti i suoi membri diventino santi, così il fatto che la verità sia sempre presente nel Magistero universale della Chiesa non mi garantisce affatto che essa sia umilmente accolta, intelligentemente compresa e adeguatamente trasmessa. Ma gli errori di trasmissione e di applicazione, perfino i veri e propri tradimenti, non eliminano la verità contenuta nei documenti.
Così san Gregorio di Nazianzo (329 ca.-390) ci descrive l’assemblea del Concilio Ecumenico Costantinopolitano I, del 381, nel suo “evento”: “I vescovi gracchiavano come uno stormo di gazze, un baccano da bambini, un’officina appena avviata, una raffica di polvere, un vero uragano; nessuno di quelli che sono perfetti nel timore di Dio e nell’episcopato avrebbero osato dire una sola parola. Discutevano disordinatamente e, come vespe, si avventavano diritto sul volto, contestualmente. La vecchiaia venerabile, invece di correggere i giovani, li assecondava” (33). A questo Concilio dobbiamo il simbolo della nostra fede, che recitiamo o cantiamo tutte le domeniche a Messa. No, il Concilio Ecumenico Vaticano II non è un Concilio diverso dagli altri.
Note:
(1) Cfr. Benedetto XVI, Esortazione Apostolica Postsinodale “Verbum Domini” all’Episcopato, al Clero, alle Persone Consacrate e ai Fedeli Laici sulla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, del 30-9-2010; i rimandi al documento — di cui sono rispettati i cambi di carattere — sono fra parentesi nel testo, indicati con il numero di paragrafo.
(2) Cfr. M. Introvigne, Alleanza Cattolica e il Concilio Ecumenico Vaticano II, in questo numero, pp. 35-63.
(3) Benedetto XVI, Discorso ai Cardinali, agli Arcivescovi, ai Vescovi e ai Prelati della Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi, del 22-12-2005, in Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. I, 2005. (Aprile-Dicembre), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, pp. 1018-1032 (p. 1024).
(4) Ibidem.
(5) Ibidem.
(6) Ibidem.
(7) Cfr. Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione “Dei Verbum”, del 18-11-1965.
(8) Ibid., n. 11.
(9) Ibid., n. 12.
(10) Ibidem.
(11) Cfr. Pontificia Commissione Biblica, L’interprétation de la Bible dans l’Église, del 15-4-1993, in Enchiridion Vaticanum, vol. 13, Documenti Ufficiali della Santa Sede. 1991-1993, testo ufficiale e trad. it., EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1995, pp. 1554-1733.
(12) Ibid., p. 1641.
(13) Cfr. Leone XIII, Litterae encyclicae “Providentissimus Deus” de studio Scripturae Sacrae, del 18-11-1893, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 3, Leone XIII. (1878-1903), EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1997, ed. bilingue, pp. 804-861.
(14) Cfr. venerabile Pio XII, Litt. encycl. “Divino afflante Spiritu” de sacrorum bibliorum studiis opportune prevehendis, del 30-9-1943, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 6, Pio XII. (1939-1958), EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1995, ed. bilingue, pp. 240-295.
(15) Benedetto XVI, Omelia nel cinquantesimo anniversario della morte del servo di Dio Pio XII, del 9-10-2008, in Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. IV, 2, 2008. (Luglio-Dicembre, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009, pp. 471-476 (p. 475).
(16) Cfr. venerabile Giovanni Paolo II, Litterae encyclicae “Fides et ratio” cunctis catholicae Ecclesiae Episcopis de necessitatibus natura inter utramque, del 14-9-1998, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 8, Giovanni Paolo I. Giovanni Paolo II. (1978-1998), EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1998, ed. bilingue, pp. 1808-2001.
(17) Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, dell’11-10-1992, n. 118
(18) Cfr. M. Introvigne, art. cit.
(19) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione “Dei Verbum”, cit., n. 10.
(20) “[…] il sacrosanto Concilio Vaticano II, che tutti farebbero bene a leggere in ginocchio con intelligenza ed umiltà” (card. Giuseppe Siri, Il criterio, in Renovatio. Rivista di teologia e cultura, anno XIII, n. 3, Genova luglio-agosto-settembre 1978, pp. 293-296 [p. 295]; ora anche in Idem, Il dovere dell’ortodossia. Editoriali di “Renovatio” e note al clero, Opere del cardinale Giuseppe Siri, vol. XIII, con Introduzione di monsignor Brunero Gherardini, Giardini, Pisa 1987, p. 123).
(21) Cfr. Benedetto XVI, Incontro con il clero delle Diocesi di Belluno-Feltre e di Treviso ad Auronzo di Cadore, del 24-7-2007, in Insegnamenti di Benedetto XV, vol. III, 2, 2007. (Luglio-Dicembre), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2008, pp. 56-77 (pp. 75-76).
(22) Dom Basile Valuet O.S.B., Débat autour du Concile Vatican II, in La Nef, n. 220, Feucherolles (Francia) novembre 2010, pp. 16-17 (p. 16).
(23) Benedetto XVI, Discorso ai Cardinali, agli Arcivescovi, ai Vescovi e ai Prelati della Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi, cit., p. 1024.
(24) Ibidem.
(25) Venerabile Pio XII, Litt. encycl. “Humani generis” de nonnullis falsis opinionibus, quae catholicae doctrinae fundamenta subruere minantur, del 12-8-1950, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 6, cit., pp. 628-661 (p. 643).
(26) Benedetto XVI, Discorso ai Cardinali, agli Arcivescovi, ai Vescovi e ai Prelati della Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi, cit., p. 1024.
(27) Ibidem.
(28) Atto di fede, in Catechismo della Chiesa Cattolica. Compendio, del 28-6-2005, Preghiere comuni, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano-Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2005, pp. 165-176 (p. 175).
(29) Manlio Simonetti, La crisi ariana nel IV secolo, Institutum Patristicum “Augustinianum”, Roma 1975, pp. 89-90; ma si veda tutta la sezione dedicata al simbolo niceno, ibid., pp. 88-95.
(30) Don Enzo Bellini (1934-1981), Introduzione, in John Henry Newman, Gli ariani del IV secolo, trad. it., Jaca Book, Milano 1981, pp. XVII-XXXII (p. XXX).
(31) J. H. Newman, Lo sviluppo della dottrina cristiana, trad. it., il Mulino, Bologna 1967, p. 21.
(32) Ibid., p. 132.
(33) Cit. in Ignazio Ortiz de Urbina S.J. [1902-1984], Storia dei concili ecumenici. I. Nicea e Costantinopoli, trad. it., Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994, p. 166.