Giovanni Cantoni, Cristianità n. 289 (1999)
Fine della Democrazia Cristiana, inizio della Seconda Repubblica e del regime tecnocratico
1. 13 maggio 1999: una data «storica»
Mi riesce consuetamente difficile dichiarare «storico» un avvenimento di cronaca, sia pure di grande cronaca politica, senza venir assalito dal sospetto di esser caduto preda di un raptus di cattiva retorica, centrata sulla mia presenza in un determinato tempo e in un determinato luogo, e sulla pretesa — o almeno sulla speranza — di essere, se non protagonista, spettatore di «grandi fatti».
Nonostante questa riflessione — forse, solo dopo questa riflessione — oso manzonianamente affermare «io c’era» il 13 maggio 1999,
a. quando la Democrazia Cristiana suicida ha forse consumato la sua lunga agonia;
b. quando è stata sostituita ope legis, non certo manu militari, la più sintetica espressione della mala storia del popolo italiano, il presidente della Repubblica uscente, on. Oscar Luigi Scalfaro, cattoliberale doc, quindi incarnazione ultima dell’ infausta cultura cattolica collaborazionista con quella liberale risorgimentale, che non coincide con quella dell’Unità;
c. e quando è stato eletto alla massima magistratura dello Stato il dottor Carlo Azeglio Ciampi, già governatore della Banca d’Italia, dando così finalmente esito al settennio formalmente incerto fra governi politici e governi «tecnici», che va dal 1992 al 1999, dalla fine del governo guidato dal professor Giuliano Amato, quindi dall’insediamento del Governo Ciampi alla nomina dello stesso dottor Ciampi a presidente della Repubblica.
Dopo aver evocato i termini della congiuntura storica, della transizione della Repubblica Italiana seguente gli accadimenti epocali del 1989, li riprendo partitamente, con qualche estensione.
2. La fine della Democrazia Cristiana
La fine della Democrazia Cristiana — non puntuale, ma momento certamente molto significativo di essa — si è realizzata attraverso l’ennesima prova dell’irrilevanza del Partito Popolare Italiano. Anzi, attraverso la punizione pubblica della sua presunzione, manifestatasi pubblicamente, per esempio, almeno attraverso gli ostacoli levati contro la formazione del governo guidato dall’on. Antonio Maccanico; quindi con le difficoltà sollevate contro l’iter politico dell’on. Romano Prodi dopo la fine del suo governo per opera di un altro elemento residuale della vita politica italiana, il Partito della Rifondazione Comunista; finalmente con la pretesa alla carica di capo dello Stato per un suo esponente, chiunque esso fosse, ad attestazione di meriti però non universalmente riconosciuti, quasi che la lobby cattolico-democratica fosse ancora il lievito della massa democristiana — se non cattolica — e non, eventualmente e semplicemente, sale insipido, gettato per terra e calpestato.
3. La fine della Prima Repubblica e l’inizio della Seconda
Non con la tornata elettorale del 1994, ma con il mancato rinnovo dell’incarico al presidente Scalfaro finisce realmente, non nominatim, la Prima Repubblica, quella nata dalla Resistenza e con il referendum del 1946, cioè il cinquantennio democristiano che ha fatto seguito al ventennio fascista, rispetto al quale il vortice prodotto da Tangentopoli — sintetizzabile nella formula «potere per il denaro», quindi immagine in qualche modo speculare di un aspetto della plutocrazia, del «potere attraverso il denaro» — ha le caratteristiche di un modesto rullio, il presente accadimento piuttosto quello di un definitivo naufragio.
4. L’istituzionalizzazione del regime tecnocratico
Si apre un tempo nuovo, all’insegna della verità di fatto per cui il potere nella Repubblica Italiana è gestito istituzionalmente da tecnocrati e congiunturalmente da postcomunisti. Quindi, si badi bene, non da tecnocrati al servizio dei postcomunisti, bensì da postcomunisti al servizio di tecnocrati, in conformità con l’esito della terza guerra mondiale o guerra fredda (1946-1989). In questo terzo dopoguerra, se talora — quasi sempre — i comunisti «tornano», né potrebbe essere diversamente essendo di fatto una classe dirigente senza alternative, tornano da servi e non da padroni. E da servi condividono questa condizione con l’opposizione: si tratta della sofferenza di tutta la classe politica, che costituisce trascrizione fattuale della sofferenza epocale della politica come momento organizzativo della realtà sociale, in un determinato tempo e in un determinato luogo.
L’itinerario iniziato con il Governo Ciampi termina quindi con la Presidenza Ciampi, che è decisamente consonante — per così dire — con la Presidenza Prodi della Commissione dell’Unione Europea.
L’itinerario iniziato nel 1993 con il commissariamento dello Stato italiano da parte dei Poteri Forti in Italia si conclude nel 1999 con il formale insediamento di tali Poteri Forti al vertice sia della Repubblica Italiana che dell’Unione Europea, in sostituzione — nel caso italiano — di poteri politici — quelli dei vecchi partiti e, soprattutto, dei vecchi uomini di partito — che, pur dipendendo non solo realmente ma con sempre maggiore evidenza, continuano a dichiararsi falsamente indipendenti e ostentano tale presunta autonomia.
Ma, infine e finalmente — anche la verità di fatto libera —, il quadro è chiaro e abolisce, esautora radicalmente, ogni e qualsiasi dietrologia, dal momento che nessuno è più missus occulto di nessuno, e nessuno è più padrone di nessuno — il capitalismo «familiare» è in via di esaurimento, con l’estinzione delle corrispondenti dinastie — , ma si è instaurato un regime manageriale in cui tutti sono commis dell’ establishment. Quindi, potrebbe e dovrebbe ormai essere e perciò apparire chiaro che la politica ha un ruolo definito e limitato, ma — e questa potrebbe e dovrebbe costituire la base per un’autentica conquista quasi concettuale di comprensione epocale dei fatti e della realtà politico-sociale — non è più manovrata, o è sulla via di non esser più manovrata occultamente dall’economia e dalla finanza, e neppure sostituita oppure invasa da esse, ma da esse apertamente, istituzionalmente limitata, soprattutto dalla finanza, non in basso, ma dall’alto. Quindi, si tratta di una politica per certo mutilata, ma che può ancora aggettare sull’amministrazione ed è potenzialmente rappresentativa delle esigenze organizzative della società di fronte al potere finanziario e tecnocratico, da esso riconosciute.
Quindi, in genere, l’itinerario plurisecolare iniziato con l’ astrazione concettuale dal reale — con la pretesa che l’uomo non indichi, ma sia ogni singolo uomo e con la ricaduta politica illustrata dal rapporto «un uomo un voto» — si conclude con l’astrazione monetaria, la cui morale è sintetizzata nell’espressione secondo cui «tutto ha un prezzo», ma la cui filosofia può essere esposta con la formula per cui «il denaro è la misura di tutte le cose». Quindi, ancor più sinteticamente, al culto della Dea Ragione fa seguito quello del Dio Denaro, la plutocrazia come «potere del Denaro»; e come il culto della Dea Ragione non conta obbligatoriamente fra i suoi seguaci gli uomini razionali — sarei tentato di affermare polemicamente il contrario —, né gli uomini si qualificano come razionali perché si professano appunto seguaci della Dea Ragione, così il culto del Dio Denaro non raccoglie e non seleziona né i ricchi né gli avari, ma gl’ideologi di una tecnica di misurazione pretesamente universale.
5. Il tempo della riflessione nella prospettiva dell’azione
Quando il fatto è finalmente chiaro — chiaro nel suo manifestarsi e chiaro per chi deve convivere con esso, con le sue implicazioni e con le sue conseguenze — e soltanto allora, si apre un tempo di possibile riflessione sull’accaduto, sul presente e sul futuro. Un tempo nel quale, adeguatamente soddisfatto il «vedere», si possa procedere al «giudicare», quindi — dopo il giudizio — all’«agire».
E il fatto, l’esito, costituisce flash su un lungo passato, che deve indurre a guardare indietro finché si può, alla ricerca di cause adeguate del presente e di premesse serie per il futuro. Se oggi l’astrazione concettuale, l’astrazione qualitativa, secerne «pensiero debole» mentre quella quantitativa, l’ astrazione monetaria, finanziaria, esprime «poteri forti»; se oggi la finanza primeggia sull’economia e sulla politica — dopo che queste hanno esautorato la verità, trasformando i chierici traditori in intellettuali organici dei poteri corrispondenti —, siccome nessuno ricorda golpe di banchieri né loro trionfi elettorali, quando, come e perché tale primato ha preso corpo? A soddisfacimento di quale naturale esigenza i nostri antenati hanno permesso, quando non auspicato e favorito, la realizzazione di questo primato? Semplicemente: il possibile è stato realizzato senza attenzione alla sua moralità per superficialità, per malizia o, forse, perché le sue conseguenze erano difficilmente intuibili relativamente a situazioni lontane nel futuro e non adeguatamente coglibili nelle sue premesse? Quanto vi è di volontario, quindi di direttamente colpevole, nell’esito, e quanto di meccanico, cioè costituisce conseguenza imprevedibile, esorbitante, di gesti inappuntabili? E ancora: che cosa potrebbe costare alla nostra vita, alla vita quotidiana degli uomini comuni, alla nostra «qualità della vita» rovesciare una «società della produzione» in una reale «società dei consumi», cioè far sì che il sabato ritorni a essere per l’uomo e non l’uomo per il sabato?
Il fatto apre così il tempo di una «cospirazione a cielo aperto» — come la chiamava Charles Maurras (1) —, di cui sono operatori tutti coloro che conoscono la natura di «ultima spiaggia ideologica» della tecnocrazia e del pragmatismo efficientistico, confessano il primato della politica sull’economia, finanza compresa, quindi della morale sulla politica, e — in genere — apprezzano ogni conquista, scientifica e tecnica non esclusa, come espressione della signoria dell’uomo sul creato, ma la colgono non come arretramento del mistero e avanzamento di Prometeo, ma, piuttosto, come conferma di tale mistero e della condizione di Prometeo.
Nel novembre del 1974 scrivevo: «[…] se con il termine “capitalismo” si vuole intendere il regime di proprietà privata e di libera iniziativa, ci si deve schierare senza incertezze a difesa di tale “capitalismo”; se, invece, con il termine “capitalismo” si intende indicare la deformazione amorale del regime di proprietà privata e di libera iniziativa, ciò che in questo “capitalismo” è permesso e doveroso combattere è soltanto la deformazione di una realtà che, al contrario, va altrettanto doverosamente difesa» (2).
Nel maggio del 1991 potevo felicemente leggere, nell’enciclica di Papa Giovanni Paolo II Centesimus annus: «Se con “capitalismo” si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di “economia d’impresa”, o di “economia di mercato”, o semplicemente di “economia libera”. Ma se con “capitalismo” si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa» (3).
Quindi, nel maggio del 1999, non ho nessuna ragione per mutare posizione; mi s’impone soltanto il dovere di studiare il modo della sua attuazione nel caso concreto.
Giovanni Cantoni
Note:
(1) CHARLES MAURRAS, La monarchia, trad. it., Volpe, Roma 1970, p. 135.
(2) GIOVANNI CANTONI, Piccola proprietà e grande capitale, in Cristianità, anno II, n. 8, novembre-dicembre 1974, pp. 1-2; raccolto in IDEM, La «lezione italiana». Premesse, manovre e riflessi della politica di «compromesso storico» sulla soglia dell’Italia rossa. In appendice l’Atto di consacrazione dell’Italia al Cuore Immacolato di Maria, Cristianità, Piacenza 1980, pp. 63-70 (p. 68).
(3) GIOVANNI PAOLO II, Enciclica «Centesimus annus» nel centesimo della «Rerum Novarum», del 1°-5-1991, n. 42.