Il razzismo è una porcheria, ma l’antirazzismo sta facendo peggio. Una grande scrittrice cattolica subisce post mortem il veleno dell’ideologia
di Marco Respinti
C’è da chiedersi cosa certa gente abbia letto nella propria arida vita, temendo la risposta. Se un venerando ateneo cattolico degli Stati Uniti d’America, la Loyola University di Baltimora, nel Maryland, cambia nome alla “Flannery O’Connor Hall” significa davvero che non c’è più religione. I gesuiti di Baltimora giustificano il proprio gesto sbandierando la parola tabù, «razzismo», ma, con il rispetto dovuto alla loro veste, forse dovrebbero tornare alle elementari.
Tutto è iniziato con l’assassinio di Gorge Floyd da parte della polizia il 25 maggio a Minneapolis, nel Minnesota, un gesto cattivo, da condannare, ed è continuato con città piccole e grandi messe a ferro e a fuoco, scontri violenti di piazza, distruzione di statue della fatta più diversa.
No, in realtà tutto comincia molto prima. Comincia con la battaglia per i diritti civili combattuta dai neri americani contro i bianchi segregazionisti. No, non è vero nemmeno questo. Tutto comincia con quella guerra definita civile e che in realtà fu totalmente incivile combattuta, negli Stati Uniti, fra il 1861 e il 1865. Siccome, si sa, la storia la scrivono i vincitori, dall’epoca della Ricostruzione in poi cioè tra il 1863 e il 1877, l’arma doppiamente vincente dei vincitori di quella guerra incivile è stata la propaganda. E, come insegnavano i bolscevichi russi, per gli ideologi la storia è soltanto propaganda rivolta al passato.
La guerra incivile
La guerra incivile, infatti, non venne affatto combattuta per mettere fine all’esecranda pratica della schiavitù. Se fosse stato quello il motivo, il Proclama di emancipazione degli schiavi neri, promulgato dal presidente “abolizionista” Abraham Lincoln (1809-1865) non porterebbe la data del 1° gennaio 1863, ovvero più di 20 mesi dopo lo scoppio della guerra, bensì quella del 12 aprile 1861, giorno dell’inizio delle ostilità militari, o persino del giorno prima, “causando” insomma la reazione armata degli “schiavisti”. Ancora: se il motivo della guerra fosse stata la schiavitù, il Proclama di Emancipazione avrebbe liberato almeno uno schiavo. Ma, quando fu promulgato, tardi, il 1° gennaio 1863, esso ebbe validità ovviamente solo per il territorio sovrano in cui l’autorità del governo presieduto da Lincoln aveva valore, ovvero gli Stati Uniti d’America, non certo gli Stati che si erano separati e che avevano dato origine a una nuova entità sovrana, con tanto di Costituzione, presidente confederale, moneta, esercito, e così via, ovvero gli Stati Confederati d’America, nati l’8 febbraio 1861.
La vera Rivoluzione americana
Cosa causò dunque la guerra? Il ribaltamento dell’assetto istituzionale statunitense in base a un costrutto ideologico neo-giacobino che Lincoln, e soprattutto molti lincolniani dell’epoca (tra cui un numero qualificato di marxisti fuoriusciti dalla Germania dopo il fallimento della rivoluzione del 1848), cercarono di imporre. In una parola, la Rivoluzione: l’unica vera rivoluzione americana, sospinta certamente anche da concause economiche e di altro tipo, ma anzi tutto la Rivoluzione. In questo quadro, la schiavitù, che era e che resta una istituzione nefanda, fu utilizzata come grimaldello per eccitare le contraddizioni esistenti invece che risolverle.
Ma non c’è pace. Per quanta letteratura scientifica si possa citare a testimone, per quante spiegazioni si possano addurre, la vulgata falsa ha ormai preso piede e detta legge. Soprattutto perché nessuno legge, nemmeno, sul punto, i primi elementi contenuti nel divulgativo ma preciso Guida politicamente scorretta alla storia degli Stati Uniti d’America di Thomas E. jr. Woods (D’Ettoris, 2012).
Disturbi
E Flannery O’Connor (1925-1964)? C’entra perché gli Stati Uniti dei vincitori del 1865 sono stati quelli che, avendo mentito sulle cause della guerra incivile e sulla vera rivoluzione americana, hanno reso possibile un razzismo diverso, peggiore e prima sconosciuto, quello della segregazione in una società ipocritamente libera contro cui giustamente si sono battuti i neri.
Ma chi oggi spacca e brucia nelle strade statunitensi altro non fa che strumentalizzare i neri (o qualsiasi altra minoranza) per proseguire la medesima idea rivoluzionaria della guerra lincolniana.
Perché infatti abbattere statue di santi cattolici o della Vergine Maria per lottare contro la discriminazione? Perché abbattere quelle statue degli eroi confederati che erano state erette, con permesso del governo federale “dei vincitori”, come segno di riconciliazione nazionale?
La O’Connor c’entra pure perché disturba.
Scrittrice cattolica conservatrice, Flannery ha illustrato al meglio virtù e vizi di quel Sud nordamericano che l’ha plasmata sin nelle interiora. E cosa racconta al meglio la virtù e il vizio dell’uomo se non la religione, sinolo di dannazione e santità?
Tutta la narrativa della O’Connor è infatti intrisa di religiosità e di paradosso in un’endiadi che nessuno spirito laico riuscirà mai a comprendere fino in fondo. I suoi personaggi sono spesso antieroi, sono dei folli, sono degli spostati, ma sono i “pazzi di Dio”. Sono le “menti malate” attraverso cui parla il Grande Spirito, i mentecatti mediante cui si palesano le insondabili vie dell’Altissimo, sono i “fulminati” che bestemmiano pregando, sono gli uomini, siamo noi uomini, piagati dal peccato, ma non ancora totalmente piegati. Peccatori che testimoniano la salvezza inarrivabile di Dio, la vera redenzione. Mi è tornata in mente questa O’Connor vedendo il film Flight, interpretato magistralmente da Denzel Washington, un nero.
I Black Sabbath
Nulla nella narrativa di Flannery sarebbe comprensibile senza quel setting e quelle location: il Sud profondo della provincia grottesca e gotica, dove dinamiche umane liminali, esasperate dalla Hiroshima locale (la fratricida guerra incivile che ne ha prolungato la tragedia nel tempo), nella penna di un talento semplice e unico affrescano il mistero uomo come un pugno nello stomaco. E in quel Sud, ovvio, c’è anche il fanatismo, c’è anche il razzismo. Ma quel che disturba è una scrittrice rapita dell’umano per via del divino che è capace di immergere le braccia fino al gomito nel guano per cavarne schegge di perle e dire, anzi gridare che né Dio è morto, né il demonio ha l’ultima parola sull’uomo. Sarà un caso che per la canzone di commiato di un gruppo rock maledetto come i Black Sabbath, una canzone-addio in cui finalmente, dopo una carriera sulfurea e mefistofelica, si grida che Dio non è mica morto, siano stati tirati in ballo proprio i border-line della O’Connor?
Il cielo è dei violenti
Il blasone migliore di Flannery è certamente un versetto del Vangelo secondo Matteo: «Il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono» (11, 12), che riecheggia nel titolo del suo romanzo Il cielo è dei violenti. Cosa significa? Significa che, pur di non ricadere in basso, l’uomo si aggrappa con le unghie e con i denti allo scorcio di Paradiso che ha visto e più non se ne vuole andare, qualunque delitto abbia commesso, anche il razzismo.
Di tutto questo i gesuiti di Baltimora, proprio i gesuiti, dovrebbero essere maestri. È bastato invece che qualcuno pronunciasse la parola tabù, magari il New Yorker, e subito hanno tolto il disturbo. Anzi, hanno amputato un pezzo di quella grandezza artistica orante che ci aiuta a sollevare ancora lo sguardo persino nel mezzo della lordura razzista. Al posto di Flannery adesso c’è il nulla.
Venerdì, 31 luglio 2020