di Angelo Pastore
In quale Italia viviamo? Quale tipo di società stiamo diventando? E verso quale tipo di sviluppo ci stiamo orientando? Molte ricerche, nel corso di un anno, aggiornano sistematicamente su questi interrogativi, anche se spesso è difficile intuire un film osservandone i singoli fotogrammi isolatamente, soprattutto quando quelle ricerche diventano occasione di grancassa mediatica allo stesso tempo superficiale e ideologica. Il risultato è una melassa informativa in cui l’esercizio della lucidità, soprattutto per i decisori politici, diviene tanto difficile quanto eticamente imperativa.
Fra queste ricerche annuali (centinaia) ve ne sono alcune che meritano senz’altro un’attenzione particolare, come il Rapporto del Censis, lo Studio della Banca d’Italia sulla ricchezza e sui bilanci delle famiglie italiane, e il Rapporto dell’Istat.
Quest’ultimo, presentato nell’edizione 2019 dal suo presidente Gian Carlo Blangiardo il 20 giugno alla Camera dei deputati, fornisce indicazioni piuttosto chiare per iniziare a rispondere alle domande.
E ciò anche perché contiene, per la prima volta, un approfondimento lucidissimo e documentato sulla deriva demografica verso cui il nostro Paese si sta orientando, con una inconsapevolezza, grazie a Dio, decrescente.
Accanto ai consueti capitoli sul quadro macroeconomico in cui gioca l’economia italiana, su quello microeconomico del frammentato tessuto delle imprese, e sullo stato del mercato del lavoro, trova posto un capitolo sullo scenario demografico, completo delle tendenze e dei “percorsi di vita”, che si impone ‒ deve imporsi ‒ all’attenzione di tutti, non solo per il suo valore conoscitivo in sé ma perché è giustamente trattato come materia consustanziale dello stesso sviluppo economico: la demografia ha a che fare con l’economia e con il benessere della nazione, come i mattoni hanno a che fare con un edificio, e non può essere trascurata come un problema di seconda scelta. Se si ponesse sul “fare figli” e sui “percorsi di vita” la stessa attenzione che oggi si concentra sul tema del “clima”, per esempio, forse ci si potrebbe avviare a risolvere in maniera fondata molti problemi relativi alla qualità dello sviluppo del Paese, alleggerendo l’ossessione per la crescita fine a sé stessa.
Il quadro economico, così come viene tratteggiato nel Rapporto dell’Istat, non può del resto che confermare la strutturale dipendenza dell’Italia da economie più solide e continentali: la guerra anche commerciale tra Stati Uniti d’America e Cina, la crisi europea stretta fra la cosiddetta “Brexit” e il rallentamento dell’economia tedesca, determinano una tendenziale stagnazione economica italiana attorno allo zero virgola qualcosa, e le previsioni per i prossimi anni non migliorano il quadro. L’Italia resta in sostanza un’economia puntiforme, retaggio di una struttura ancestrale fatta di migliaia di realtà locali che molto lentamente si vanno aggregando in sistemi produttivi provinciali o, quelli più avanzati, regionali: distretti industriali come piattaforme evolute che galleggiano su un mare di oltre 5 milioni di imprese, la cui grande maggioranza ha meno di 10 dipendenti.
Anche i consumi delle famiglie galleggiano intorno allo zero, non tanto perché non vi siano soldi, ma perché cautamente le famiglie preferiscono incrementare i risparmi, e questi, sommati alla ricchezza immobiliare di tutte le famiglie, raggiungono una cifra che supera il doppio del famigerato debito pubblico. Per consumare non servono solo i soldi, ma anche una minima fiducia nel futuro (senza questa, infatti, i consumi non crescono) e le persone preferiscono autoassicurarsi contro le incertezze del domani. Crisi di fiducia, quindi, più che crisi dei consumi. Una dinamica, questa, che spiega anche la contrazione demografica: meno futuro, meno consumi, meno figli.
Anche il mercato del lavoro conferma i propri caratteri strutturali: rigidità all’ingresso, tendenza al sommerso e scarsa elasticità all’uscita. Il Rapporto dell’Istat registra peraltro anche le modifiche recenti, cioè il numero maggiore degli occupati ma anche il numero maggiore dei lavori precari, mentre, fra i lavoratori dipendenti, aumentano i contratti a termine, fra gli indipendenti aumentano quelli senza alcun dipendente.
Molto evidenti risultano, sin d’ora, gli effetti demografici nel mercato del lavoro dovuti al superamento della “gobba” dei cosiddetti babyboomer, ovvero le coorti di nati negli anni 1950 della forte crescita economica, i quali stanno uscendo dal mercato del lavoro per andare ad appesantire la bilancia pensionistica fra le generazioni, dato che le generazioni successive hanno dimensioni molto ridotte.
E con questo si giunge al capitolo più interessante, quello demografico, con le sue peculiarità italiane e gli effetti già prevedibili sul benessere del Paese e sulla sua identità.
Anzitutto il numero degli italiani sta diminuendo, si sta tornando indietro dopo la soglia superata dei 60 milioni e nei prossimi anni ci si avvicinerà sempre più a tale soglia, così che fra trent’anni, per l’effetto combinato dei pochi nati e dei molti decessi, cadremo all’indietro sui 58 milioni. In questo caso, la popolazione in età da lavoro – 15-64 anni – si ridurrebbe di circa 6 milioni di persone.
«Questi cambiamenti, in assenza di significative misure di contrasto», sottolinea il Rapporto, «potrebbero determinare ricadute negative sul potenziale di crescita economica, con impatti rilevanti sull’organizzazione dei processi produttivi e sulla struttura e la qualità del capitale umano disponibile; non mancherebbero altresì di influenzare la consistenza e la composizione dei consumi delle famiglie, con il rischio di agire da freno alla domanda di beni e servizi. L’accentuarsi dell’invecchiamento demografico comporterebbe, inoltre, effetti significativi sul livello e sulla struttura della spesa per il welfare: con pensioni e sanità decisamente in prima linea, pur mettendo in conto che gli anziani di domani saranno in migliori condizioni di salute e di autonomia funzionale».
Come a dire, attenzione distratti decisori politici ed economici, la demografia italiana. nei rivolgimenti che sta vivendo – noti da circa vent’anni –, è una cosa seria con effetti seri. E il merito del Rapporto ‒ presentato alla Camera dei deputati di fronte a una qualificata platea di legislatori, va sottolineato ‒ consiste proprio nel fatto di avere posto questioni di programmazione economica di medio e lungo periodo, non più eludibili.
Ma sebbene la fotografia sia lucidissima, le conseguenze descritte del tutto condivisibili e i primi destinatari del Rapporto ben qualificati, colpisce l’assenza di uno sforzo interpretativo altrettanto adeguato sulle cause del quadro demografico attuale. Che cosa ha prodotto questo scenario di declino se non la progressiva liquefazione della famiglia? Certo, lo sappiamo, oggi sta diventando politicamente scorretto parlare di famiglia, intesa come nucleo basilare della società, composta da un uomo e da una donna disposti a un progetto di vita e aperti alla procreazione. E forse non può essere il ruolo dell’Istat andare controcorrente al politicamente corretto. Tuttavia è proprio questo, a mio avviso, il punto delle analisi demografiche: il ruolo della famiglia. Hanno fornito in tal senso un contributo eccellente gli studi di Roberto Volpi, che ha dimostrato come la famiglia, cristianamente intesa, abbia cominciato a morire già dalla legalizzazione del divorzio, nel 1970. Risalendo nello studio del declino demografico, si risale infatti esattamente agli anni dai quali il tessuto delle famiglie comincia a sfilacciarsi: fare famiglia non è più un bellissimo progetto di vita, bensì una opportunità come le altre da gestire con la stessa efficienza sbrigativa con cui può essere gestito qualsiasi contratto.
Poi la legalizzazione dell’aborto, nel 1978. Poi, in anni più recenti, la squalificazione del concetto stesso di famiglia, come aggregato qualsiasi di qualsiasi tipo di rapporti, anche plurimi, il limite è solo la fantasia. La sequenza di questi colpi demolitivi alle basi stesse della produzione della vita e della società umana hanno determinato lo scenario declinante che abbiamo sotto gli occhi e che è entrato lucidamente anche nel Rapporto dell’Istat, e nelle riflessioni istituzionali. Ma non dimentichiamoci delle cause: la demolizione della famiglia. Altrimenti si scade nell’alveo di quei problemi tanto macroscopici quanto astratti come quello oggi di moda del “clima”.
Descrivere la demografia italiana oggi implica parlare senza remore di due temi molto connessi: la fiducia e il futuro, e anche su questo il Rapporto è molto chiaro: «Negli anni ’50, quando si costruiva il “miracolo economico”, gli italiani di allora avevano vissuto in media 32 anni e ne avevano ancora davanti a loro (mediamente) più di 42. Oggi l’ordinamento tra i due numeri si è invertito: l’età media (ossia la strada già percorsa) è salita a 45 anni, laddove la frazione residua si è ridotta – nonostante i guadagni di sopravvivenza – mediamente a 40.
Con queste premesse, viene da chiedersi se siamo (e saremo ancora) un popolo che guarda avanti e investe sul suo futuro o se invece dobbiamo perlopiù sentirci destinati a gestire e a mantenere il presente».
Oggi la demolizione della famiglia e della società umana non si è arrestata. Continua con il divorzio breve e brevissimo, con lo sradicamento della fecondità in uteri acquistati e con la risoluzione della morte in un atto di volontà statalmente assistito. Le analisi a disposizione sono fondamentali, ma c’è molto da fare.
Giovedì, 27 giugno 2019