Ignazio Cantoni, Cristianità n. 408 (2021)
Testo predisposto per la relazione, avente medesimo titolo, tenuta il 1°-8-2020, durante la Scuola Estiva San Colombano, organizzata da Alleanza Cattolica sul tema Nostalgia dell’avvenire. «Cum Petro, sub Petro», verso la civiltà cristiana del terzo millennio. Giovanni Cantoni (1938-2020), tenuta a Tregasio di Triuggio (MB) dal 31-7 al 2-8-2020.
«È tutto un mondo, che occorre rifare dalle fondamenta, che bisogna trasformare da selvatico in umano, da umano in divino, vale a dire secondo il cuore di Dio» (1)
«Ora però non è più possibile farsi illusioni, troppo evidenti essendo divenuti i segni della scristianizzazione nonché dello smarrimento dei valori umani e morali fondamentali» (2)
«Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca. Le situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono persino difficili da comprendere» (3)
Il quadro di fondo
«L’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore, e, mediante questo, salvare la propria anima;
«e le altre cose sulla faccia della terra sono create per l’uomo, e perché lo aiutino a conseguire il fine per cui è creato» (4).
Creato originariamente in uno stato di giustizia, l’essere umano aveva doni distinguibili in naturali, che riguardano le meravigliose qualità del corpo e dell’anima (intelletto, volontà, memoria); preternaturali, che concedono all’uomo il perfetto dominio sulle proprie facoltà e sul mondo, la scienza infusa e l’esenzione dal dolore e dalla morte; e soprannaturali, la grazia o amicizia con Dio. Tali doni soddisfacevano totalmente i suoi bisogni.
L’uomo ha peccato, e dopo aver peccato ha conosciuto di essere nudo (cfr. Gen. 3, 7): tale nudità è espressione della perdita dei doni preternaturali e di quelli soprannaturali, e del depotenziamento dei naturali.
Dalla Caduta fino alla fine del mondo, tutta la storia dei singoli uomini e dell’umanità intera è pertanto la storia dei loro liberi «rivestimento» e «spogliamento» — civiltà o barbarie —, sia per quanto riguarda il soddisfacimento dei bisogni naturali, sia soprattutto per ciò che concerne il soddisfacimento dei bisogni soprannaturali. A seconda del livello di «copertura», tali «vesti» li mettono in grado di vivere al meglio in hac lacrimarum valle, il cui senso sub specie aeternitatis è di seconda gestazione nell’«utero cosmico» (5), per la nascita definitiva alla vita eterna, o alla morte altrettanto eterna.
Le «vesti» che devono consentire agli uomini la vita naturale e la vita soprannaturale in questo mondo sono in parte frutto della loro opera, ma anche — e, per certi versi, soprattutto — di quella di Dio e degli angeli (6).
Che cosa sono tali vesti? Le nudità dell’uomo, cioè i vari bisogni della sua vita, da quelli biologici a quelli soprannaturali, trovano nella comunità il loro luogo di soluzione, attraverso la famiglia, le società di mestieri, la comunità politica, le organizzazioni culturali, la Chiesa o più in generale le comunità religiose. Quest’ultime, avendo come proprio scopo quello di dare le risposte più importanti sull’esistenza: chi sono? da dove vengo? dove vado?, sono le società più rilevanti; esse costituiscono pertanto il vestito più importante di tutti, quello che dà in ultima istanza il «tono», lo «stile», a una civiltà, la sua cifra metafisica.
L’insieme di tutte le «vesti» che gruppi umani omogenei utilizzano, formandole e modificandole di generazione in generazione, per attraversare tale cammino terreno di seconda gestazione si chiama «civiltà».
Uomo e società: analogie, non identità
Le società umane attraversano quindi il tempo e lo spazio dotandosi — in una dinamica polare dove, è bene ripeterlo, la Provvidenza incontra la libera volontà degli uomini — di «vesti», cioè di «abiti», di «abitudini», variamente strutturate e formalizzate dagli ambienti alle istituzioni, dal «costume» alle leggi.
Tale sforzo, pur essendo frutto di tante persone che si succedono nello spazio e nel tempo, è qualcosa di unitario, tanto che possiamo parlare di civiltà egizia, cretese, babilonese, romana, cristiano-germanica, maya, e così via.
Ogni civiltà è una realtà composta da uomini, e quindi ha, presa nella sua totalità, alcuni elementi di forte analogia con gli individui dai quali è composta; è quindi possibile parlare di «anima» o «spirito», di «volontà», di «memoria», di «coscienza» e di «forza» di un popolo, anche se il popolo non è un essere personale ma un gruppo di esseri personali.
Pertanto, «tutto quanto ha a che fare con l’uomo vive, per sostanziale analogia, allo stesso modo dell’uomo: nascita, giovinezza, maturità, vecchiaia e morte» (7); e quindi anche «le nazioni nascono e periscono come gli individui» (8); ciò rende possibile identificare degli itinerari che — fatta salva la libertà dei singoli — hanno un certo grado di condizionamento.
È bene spendere qualche parola su tali itinerari e su questo loro certo grado di condizionamento. Essi non possono essere considerati, propriamente parlando, delle leggi necessarie alla stregua di quelle fisiche o biologiche: un organismo collettivo composto di persone libere non è tout court libero, ma partecipa della libertà dei propri componenti; se, per esempio, riflettiamo sulla nozione di ambiente e di tradizione, possiamo facilmente constatare che il punto di partenza di ciascuna persona non è libero: genitori, condizione sociale, ricchezza, lingua, cultura, religione sono elementi dati. All’interno di tale quadro abbiamo quindi uomini liberi e responsabili che vivono pesanti condizionamenti determinati dal milieu d’origine. L’uomo è sostanzialmente libero nell’obiettivo che si pone, ma non nel punto di partenza e, necessariamente, quindi, nel tragitto da compiere per arrivarvi.
Le leggi della storia sono dunque da intendere come leggi in senso analogico, soft, itinerari, roadmap, ritmi, armonie, coerenze, e così via.
Vari sono stati i tentativi di identificare tali itinerari, le fasi della vita delle civiltà: Mi servirò a tale scopo principalmente di tre grandi studiosi e pensatori, dei quali due conosciuti per merito del fondatore di Alleanza Cattolica, Giovanni Cantoni: il filosofo e giurista napoletano Giambattista Vico (1668-1744) e lo storico svizzero Gonzague de Reynold (9), di cui Cantoni si considera debitore, fra altri, per quanto ha pensato (10); e uno per merito del fratello don Pietro: il sacerdote roveretano beato Antonio Rosmini I.C. (1797-1855).
Sono consapevole che la ritmica storica che proporrò nel seguito sia, almeno fino a un certo punto, discrezionale, e anche questi tre autori presentano varie divergenze nel tentativo che compiono di modellizzare la storia: propongo alcune loro suggestioni — tralasciandone altre — in uno sforzo di accostamento e sintesi di cui sono l’unico responsabile (11).
Il ritmo delle civiltà
Vico ci offre, d’esordio, due colpi d’occhio fecondissimi sulla ritmica storica: «Gli uomini prima sentono il necessario; dipoi badano all’utile; appresso avvertiscono il comodo; più innanzi si dilettano del piacere; quindi si dissolvono nel lusso; e finalmente impazzano in istrapazzar le sostanze» (12). E: «La Natura de’ popoli prima è cruda, dipoi severa, quindi benigna, appresso dilicata, finalmente dissoluta» (13).
Il beato Rosmini ci permette di dettagliare questa modellizzazione: «In tutte le società, quattro periodi o età principali si distinguono […].
«Prima età sociale. Ella è quella nella quale trattasi di dare esistenza alla società, e […] si pensa unicamente alla sostanza; questa età dividesi in due periodi, delle fondazioni, e delle prime legislazioni.
«Seconda età sociale. Ell’è l’età fiorente, nella quale essendo già l’esistenza della società rassicurata, si trapassa dalla considerazione della sostanza alla considerazione degli accidenti, senza tuttavia ancor perdersi di veduta la sostanza. In questo tempo, dopo essersi resa grande la nazione, questa fa pompa della sua grandezza; la si arricchisce di adornamenti d’ogni maniera; ella brilla di tutto lo splendore agli occhi dello straniero, ed ai propri.
«Terza età sociale. Alla seconda età succede la terza, nella quale, abbagliati gli uomini dalla pompa esteriore, e da quanto rende la nazione adorna e invidiata anziché forte, vanno perdendo di vista tutto quello che è sostanziale: allora manifestasi nello spirito pubblico un tuono di leggerezza e di fidanza, e già è l’epoca dello scadimento e della corruzione della società.
«Quarta età sociale. Venendo per tal modo applicati i membri componenti il corpo sociale a frivoli oggetti, si vanno guastando i solidi fondamenti su cui era stato appoggiato l’edificio da’ primi autori, fino a che si fa luogo al quarto accidente a cui soggiace lo stato, cioè a quel periodo, nel quale, ricevendo delle scosse o da’ nemici esterni o da interne turbolenze, pericola la sua stessa esistenza» (14).
L’andamento e il concatenamento di queste fasi sono, secondo Rosmini, cadenzati in una prima fase, nella quale il fine dominante è l’esistenza della società, e conseguentemente l’attenzione è tutta rivolta all’essenziale, in primis alla morale.
Ottenuto questo fine, l’attenzione degli uomini si sposta necessariamente su un altro oggetto, che di norma è prossimo al primo: la gloria e la potenza. Sempre di attenzione alla società si parla, ma il fine non è più totalmente onesto, come nella prima fase: «[…] non è più la benevolenza sociale che detta gli ordinamenti e le leggi, ma l’utilità: s’introduce nella società il rapporto di dominio e di servitù; non regge più come prima una relazione sola di fratellanza: il vincolo sociale viene ingombrato dal vincolo della fredda e dura proprietà, che quasi direi come edera, a lui si abbarbica» (15). Accade qui nelle società quanto, analogamente, accade nell’individuo: nella misura in cui il fine che ci si propone non è legittimo, meno si trova pace e piacere nel raggiungerlo, e così il desiderio di potenza e di gloria si fanno insaziabili (16).
A questa subentra una terza fase, in cui, ottenuta la potenza, l’attenzione dei più è rivolta alla conseguenza prossima della potenza stessa, che è la ricchezza. Certo, quest’ultima non è in sé illegittima, ma solo quando eccede; tuttavia, secondo il beato Rosmini, è quasi solo questione di tempo che l’industria degli uomini si tramuti in volontà predatoria, bramosia, invidia e avidità; e anche questo passaggio rende gli uomini sempre più incontentabili (17).
Infine, la quarta e ultima fase: «Che se poi un popolo potente ed ozioso ama le ricchezze unicamente come ministre di lusso e di piaceri, succede un ultimo stato di pervertimento morale e di corruzione» (18).
«La guerra dunque, la servitù e la barbarie sono le note caratteristiche e gli effetti che tengon dietro alla corruzione della società proveniente dall’eccessiva brama di potenza, di ricchezza e di piaceri sensuali» (19).
Cerco di riassumere: le società umane sono caratterizzate da una idea ispiratrice di natura metafisica, religiosa in senso lato, che esse dipanano, «declinano» in tutte le attività politiche, sociali, economiche e così via, nel tentativo di «vestirsi».
Gli uomini, però, più spostano l’attenzione da Dio alle creature, dalla sostanza agli accidenti, dal necessario al superfluo di mano in mano che il necessario viene dato per acquisito, per «scontato», più — secondo una legge che è quasi completamente al di fuori della propria portata, perché riguarda le società e non solo i singoli — perdono di vista l’aspetto fondamentale della vita, quella di pellegrinaggio verso la vera patria, per patire, in modo più o meno marcato, la seduzione della gloria, del denaro e del piacere (20).
Le epoche come ascese e declini della civiltà
Questi processi storici, che il beato Rosmini ha ricondotto a quattro fasi per ogni epoca, delineano una condizione di ascese e declini delle civiltà, descrivibile come una sinusoide, come una catena montuosa fatta di picchi e di valli. Così de Reynold: «Utilizzerò un’immagine per rendere concreto quanto vi è di astratto, e animare quanto vi è di schematico in questa descrizione. Confronterò lo sviluppo per epoche e periodi vuoti della storia europea con una catena di montagne, una catena intervallata da depressioni brusche e profonde. Ogni segmento di questa cordigliera si inserisce tra due di queste depressioni. Risale lentamente da una per cadere rapidamente nell’altra. Una vetta la domina, abbagliante come un ghiacciaio al sole. Rappresenta l’apogeo di un’epoca e della sua civiltà; ma vi è poco spazio sulla vetta, e non vi si può rimanere a lungo» (21).
La crisi dell’uomo occidentale e cristiano
È bene qui proporre l’addentellato tra quanto veniamo dicendo e la periodizzazione del processo rivoluzionario così come descritto dal pensatore e uomo d’azione brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) in Rivoluzione e Contro-Rivoluzione (22).
Secondo il ritmo quadripartito di ogni epoca, così come proposto dal beato Rosmini, possiamo intendere la civiltà cristiana come lo sforzo di ascesi sociale compiuto durante l’epoca di fondazione, dove politica, diritto, economia, divertimenti e così via sono stati contrassegnati dalla volontà di sottoporre tutti gli aspetti della civiltà ai dieci comandamenti.
Venuto meno tale sforzo durante l’Umanesimo e il Rinascimento nella loro versione atea — non l’unica versione esistita di tali fenomeni, ma per certo quella socialmente egemone — e nonostante la finta opposizione del Protestantesimo, è iniziato il declino.
Durante la seconda fase, è emersa ed è divenuta egemone la volontà di affrancare politica e diritto da Dio, inseguendo la gloria e la potenza: tale fase è emblematicamente rappresentata dalla Rivoluzione francese del 1789.
Durante la terza fase, quella in cui il desiderio di ricchezza è dominante, abbiamo avuto il social-comunismo, emblematicamente rappresentato dalla Rivoluzione d’Ottobre del 1917.
Infine, è venuta la quarta e ultima fase, quella edonistica, caratterizzata principalmente ma non esclusivamente dalla rivoluzione sessuale e dalla socializzazione del consumo di droga; di questa fase l’impresa di Fiume, del 1919-2020 (23), i fenomeni giovanili dei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) (24) e soprattutto il Maggio francese del 1968 (25) sono i fenomeni più caratterizzanti.
Fra un mondo che muore e un mondo che nasce: il periodo vuoto
Dobbiamo ora vedere più da vicino, facendoci guidare da de Reynold, il «periodo vuoto», la depressione «brusca e profonda» che segna il termine di ogni epoca, e che sta «fra un mondo che muore e un mondo che nasce» (26). «Quando un’epoca ha esaurito il suo principio vitale, quando non ha più tempo vissuto realmente, quando è ormai influenzata, corrotta dalla nuova epoca che si sta formando al suo interno e che ne sta prosciugando la sostanza, si produce una rivoluzione nel senso etimologico del termine: ritorno al punto di partenza, chiusura di un ciclo. L’epoca cade allora in fondo a un periodo vuoto nel quale si dissolve.
«Periodi vuoti: chiamo così le grandi crisi che vengono a inserirsi tra due epoche. L’immagine ci porta alla mente il crogiolo (27) in cui il metallo viene fuso. Infatti all’interno di questi periodi si produce una fusione storica nel corso della quale un mondo antico finisce di esaurirsi, un mondo nuovo comincia a formarsi. I periodi vuoti spezzano il ritmo regolare e normale delle epoche, come depressioni scoscese spezzano lo svolgimento di una catena alpina. È solo un’apparenza: la loro periodicità li fa rientrare nel ritmo generale della storia nel quale giocano il ruolo di pause, d’interruzioni.
«Nel corso di queste crisi di dissoluzione, si accumulano tutti i mali: guerre, scomparsa di Stati, frazionamento d’imperi, rivoluzioni nel senso comune del termine, sconvolgimenti sociali, anarchia, decadenze intellettuali e morali, confusione degli animi, decomposizione del pensiero, proliferazione d’idee e di sistemi. La società diventa instabile; si disgrega; si atomizza in individui; i popoli si sradicano e si rimettono in movimento; la curva della civiltà si flette e ricompaiono la barbarie, le forze primitive.
«Tuttavia, con molte incertezze, difficoltà e lentezza, con avanzamenti e regressioni, convalescenze e ricadute, un’altra epoca finisce per uscire dal periodo vuoto. Non conosce ancora il suo nome: gli storici glielo forniranno più avanti, e non sarà mai quello corretto. Avrà ancora a lungo gli occhi chiusi. Saranno necessarie generazioni affinché, infine, esca dal cratere e dalle lave, prenda il suo ritmo» (28).
Il beato Rosmini completa idealmente de Reynold dando una descrizione di tale condizione — il periodo vuoto di de Reynold mi pare corrisponda sostanzialmente alla quarta fase del sacerdote di Rovereto.
«Che se poi un popolo potente ed ozioso ama le ricchezze unicamente come ministre di lusso e di piaceri, succede un ultimo stato di pervertimento morale e di corruzione. Per qualche tempo […] queste stesse delizie si desiderano ancora al comune; ma in breve ciascuno le brama a sé solo, l’egoismo divora ogni benevolenza: la società esteriore esiste ancora, fino che qualche legger urto non la faccia stramazzare; la società interiore e vera è perita. In quest’ultimo stato il fine prossimo della società nel fatto è nullo. La differenza fra lo stato de’ selvaggi e lo stato de’ cittadini pervenuti a quest’ultima corruzione si è quasi solamente, che la corruzione de’ selvaggi precede l’esistenza della società, mentre la corruzione de’ cittadini sussegue all’esistenza della società, onde la società sta in piede quanto alle sue forme esteriori per qualche tempo in presenza della corruzione de’ suoi membri» (29).
La condizione, afferma il beato Rosmini, è quindi quella di selvaggi: «La differenza principale che distingue i selvaggi anteriori alla società, ed i selvaggi (mi si permetta cosí chiamarli) coi quali le società finiscono, si è che nelle masse de’ primi l’intelligenza non è mai posta in gran movimento, nelle masse de’ secondi l’intelligenza ha ricevuto un gran movimento. […] Si conservano in questa età le forme antiche del governo, ma esse non sono che apparenze e formalità, le quali non hanno senso né vita. Si mantiene a lungo lo stesso linguaggio, ma nessuno veramente lo intende per quel che suona, non esprime piú che delle falsità. Vige l’autorità degli antenati: se ne ripetono le sentenze e i principî spesso rendendoli vani con cavillose e dotte interpretazioni, spesso anco per burlarsene, valendosene sul serio quando cadono in proprio vantaggio, riputandoli dismesse anticaglie in caso contrario» (30).
Questa apparente intelligenza serve solo quindi «a trovare i mezzi d’appagare la sensualità comune, che è il fine di una società abbrutita. Allora gli stessi piaceri sensuali sembrano alimentare l’intelligenza, perocché eccitano a trovare i mezzi co’ quali aumentarsene la copia. […] Dove […] niun’altra causa intervenga a mantenere l’intendimento in azione, quest’azione va insensibilmente diminuendosi fino a tanto che l’intelligenza delle masse perde ogni attività sociale, e così finisce di per sé naturalmente la società» (31).
Non vi è quindi desiderio di utilizzare l’intelligenza per conoscere il vero, il bello e il buono: essa è ormai solo lo strumento delirante al servizio delle passioni sfrenate che non tollerano limiti, per motivare e ottenere tutto e il contrario di tutto, a seconda del capriccio: «L’intelligenza molto attiva non serve che a portare la corruzione all’estremo, non solo perché ella non impiega piú le sue forze se non a rinvenire i mezzi di raffinare le dilettazioni, ma ben anco perché approfondisce la corruzione e malizia della volontà con una progressione sommamente celere. D’altra parte i sensi irritati, nello stesso tempo che tendono ad assopire l’intelligenza e ad evitarne le intollerabili fatiche, gittano nell’uomo, unitamente all’inquietudine, un odio contro a’ principî di ragione, un sentimento atroce che vorrebbe annientarli. Da tutte queste cause cozzanti nasce una specie di delirio: l’uomo non ragiona piú, ma enormemente sragiona su tutto ciò che forma l’oggetto della sua attenzione» (32).
La politica può qualcosa? Tale condizione di putrefazione riguarda tutti, governanti e governati: «Veggonsi i mali, anco deploransi, ma non si abbandonano, non si possono abbandonare. E quegli stessi che fanno le leggi nella repubblica, chi sono poi altro se non degli uomini partecipanti pure or piú or meno al fermento che ha fatto inacidire tutta la massa? E se fossero anco del tutto incorrotti, che forza ha la legge di pochi contro la volontà di tutti? Onde è che le leggi della città riformatrici della invalsa universal corruzione cominciano dal rimanere ineseguite, e ben presto terminano coll’essere obbliate, od anco abolite, o finalmente riputate e dichiarate stolte o nocevoli. Allora è che si esclama da’ piú veggenti: “Quando quelle cose che erano vizi sono divenute costumi, cessa ogni speranza ragionevole di salute”: allora s’intende che nelle disposizioni meramente esterne della politica non può trovare la virtú sicura tutela né rifugio, quando ella sia sbandita dai cuori» (33).
La possibilità di un mondo che nasce: il male «si scanna da solo»
Procede Rosmini: «In questo rilevantissimo periodo di tempo lo stato subisce indubitatamente una crisi, o sia grande mutazione, la quale da nessuna forza umana può essere impedita; perciocché venuta a questo punto, la società non può più retrocedere, ed altro non può aspettare, se non che venga protratta la crisi, ma cansata non mai. Questa è l’epoca, ove o lo stato rimane totalmente distrutto, perdendo la sua libertà, soggiogato da qualche nemico esterno: ovvero, se ha grandi forze e amica fortuna da resistere agli assalitori esterni e al malore interno, dopo orribili convulsioni si rinnovella e si ripurga, ripigliando quasi un’altra esistenza» (34).
Tale progressivo spegnimento dell’uomo e di tutte le sue facoltà, inabissamento in una barbarie dove individualismo ed edonismo fanno a gara per disgregare la società, dove nessuno sa più comandare né obbedire, non è comunque necessariamente la parola ultima sul suo destino. Come bene afferma il visconte francese Louis de Bonald (1754-1840), «mai la società è più vicina a veder nascere o rinascere le istituzioni più severe, che nei tempi di maggior allentamento di tutte le regole; proprio soprattutto in quei momenti gli estremi si toccano, e la natura ha posto il rimedio a fianco del male» (35).
Insegna a tal proposito il conte savoiardo Joseph de Maistre «[…] che il rimedio dell’abuso nasce dall’abuso, e che il male, a un certo punto, si scanna da solo, e così deve essere: perché il male, che non è altro che una negazione, ha per limiti di dimensione e di durata quelli dell’essere a cui si è abbarbicato e che divora. Esiste cioè come il cancro, che non può finire che completandosi. Ma allora una nuova realtà si precipita necessariamente al posto di quella sparita, poiché la natura ha orrore del vuoto» (36).
Questa verità è di una importanza capitale: il male distrugge gli stessi agenti del male. Mi spiego: immaginiamo per un attimo un suicida che scelga di pugnalarsi. È forte, robusto, muscoloso. Si vibra un colpo nel petto con tutte le proprie forze, a due mani; poi un secondo, il quale necessariamente è meno penetrante perché il primo lo ha già certamente indebolito; poi un terzo, e così via fino a che la morte stessa non gli impedisce di farsi più del male. Non esiste un male che non debba radicarsi in un essere, e non esiste un essere che, auto-aggredendosi, non perda così facendo la stessa forza propulsiva che usa per farsi del male.
Usando un’altra metafora, si può dire che il comportamento malvagio avvicina la persona asintoticamente, cioè tendenzialmente, alla mancanza di comportamenti tout court.
Tuttavia, si è visto che la morte di una civiltà presenta analogie con quella di un individuo, ma non è la stessa cosa. Gli individui muoiono, mentre le società no: il tessuto sociale continua in una vita biologica che, per analogia agli individui, assomiglia al coma.
Ma come uscire da tale coma? Ciò può avvenire in due modi: perché nuove forze portatrici di cifre metafisiche forti arrivano, per conquista, a ritonificare i barbari autoctoni, e a occupare gli spazi che, anche demograficamente, quelli hanno lasciato aperti; o perché i barbari autoctoni si rinnovano — e i due modi non si escludono totalmente.
Ma come rinnovarsi? La risposta è di una «ovvietà travolgente», come direbbe Giovanni Cantoni: tornando a occuparsi delle cose importanti, ossia convertendosi; e tale riorientamento viene sì sollecitato dall’annuncio missionario ma anche favorito dalle circostanze. Su questo secondo punto ancora il beato Rosmini: «Le masse che ripongono ogni lor bene nelle voluttà, veri figliuoli prodighi, dissipano e consumano l’avere degli avi. Quindi le nazioni, rese voluttuose, da ricche si fanno celermente povere, non estimando più il popolo la ricchezza, ma il piacere» (37). Proprio la «sindrome del figliol prodigo» — ossia la condizione di materiale e spirituale «carestia» e «bisogno» (Lc. 15, 14), provocata necessariamente da comportamenti irrispettosi del reale — diviene il campanello d’allarme per far sì che il figlio «ritorni in sé stesso» (38) e senta la nostalgia della casa del Padre, anche solo partendo dalla prosaica motivazione della pancia che brontola (39).
In altre parole: il «paese lontano» (Lc. 15, 13), colpito dalla carestia e dalla povertà materiali ma soprattutto spirituali, offrirà sempre meno occasioni e possibilità di sperpero per i vizi degli uomini, perché la precarietà della vita, l’angoscia persistente, la «conflittualità panica» (40) che ivi permea la società, il sempre minor tempo dedicabile all’ozio e le sempre minori risorse dedicabili alle dissolutezze saranno occasione per gli uomini di riorientarsi, di generazione in generazione, a ciò che importa davvero.
Così Vico, in un brano «[…] richiamato da Giovanni Cantoni alla riflessione dei componenti di Alleanza Cattolica a partire dall’inizio degli anni 1990» (41), preso dalla Conchiusione della Scienza Nuova, Conchiusione dal medesimo Cantoni definita «densissima e mirabile» (42): «Ma se i popoli marciscano in quell’ultimo civil malore […] allora la Provvedenza a questo estremo lor male adopera questo estremo rimedio: che, poichè tai popoli a guisa di bestie si erano accostumati di non ad altro pensare, ch’alle particolari propie utilità di ciascuno; et avevano dato nell’ultimo della dilicatezza, o per me’ dir, dell’orgoglio, ch’a guisa di fiere nell’essere disgustate d’un pelo, si risentono, e s’infieriscono, e sì nella loro maggiore celebrità, o folla de’ corpi, vissero, come bestie immani, in una somma solitudine d’animi, e di voleri; non potendovi appena due convenire, seguendo ogniun de’ due il suo propio piacere, o capriccio: per tutto ciò con ostinatissime fazioni, e disperate guerre civili vadano a fare selve delle città, e delle selve covili d’uomini; e ’n cotal guisa dentro lunghi secoli di barbarie vadano ad irruginire le malnate sottigliezze degl’ingegni maliziosi; che gli avevano resi fiere più immani con la barbarie della riflessione, che non era stata la prima barbarie del senso […]. Perciò popoli di sì fatta riflessiva malizia con tal’ultimorimedio, ch’adopera la Provvedenza, così storditi e stupidi non sentano più agi, dilicatezze, piaceri, e fasto, ma solamente le necessarie utilità della vita: e nel poco numero degli uomini al fin rimasti, e nella copia delle cose necessarie alla vita, divengano naturalmente comportevoli; e per la ritornata primiera semplicità del primo Mondo de’ popoli, sieno religiosi, veraci, e fidi; e così ritorni tra essi la pietà, la fede, la verità, che sono i naturali fondamenti della giustizia, e sono grazie, e bellezze dell’ordineEterno di Dio» (43).
Dio, assicura Vico, ci usa misericordia anche con il gesto stesso di permetterci che ci allontaniamo da Lui; ma non ci sono automatismi, perché l’iniziativa di Dio necessita sempre dell’accoglimento libero e responsabile da parte degli uomini: «Quando vedremo la fine del male? Quando gli uomini piangeranno il male» (44).
Il problema dell’ora presente
Pervenuti alla condizione attuale, e se sono valide le considerazioni svolte sopra, come scrive Papa san Giovani Paolo II nel passo riportato in epigrafe, non è più possibile farsi illusioni: la civiltà cristiana occidentale è finita.
Così Cantoni: «Dunque, la civiltà cristiana romano-germanica è finita […] con una catastrofe culturale, che comporta una “catastrofe antropologica”: però la vita continua, e con essa la vita sociale. Una parte di umanità, un mondo umano di rilevanza mondiale, perché autore di missione e di civilizzazione, d’imperialismo e di colonialismo nel mondo intero, conosce non la fine della storia, ma la fine della propria storia; è entrato in un “periodo vuoto” […], in una bagarre, il cui panorama è caratterizzato da rovine di istituzioni e da brandelli di costume, ma — soprattutto — da disomogeneità culturale. Questa comporta una conflittualità panica, non solo e certo non principalmente militare, esterna all’uomo, ma prossima all’uomo stesso singolarmente considerato, quando non addirittura a lui interna, quale — per esempio — quella che oppone nel divorzio i coniugi che pur si sono liberamente scelti, o la madre al figlio nell’aborto oppure l’uomo a sé stesso nell’uso della droga e nel suicidio» (45).
E prosegue, a mio avviso implicitamente richiamando quanto detto da de Maistre sul male che «[…] si scanna da solo»: «Quindi, […] il malato è morto e con lui è venuta meno anche la malattia» (46); la Rivoluzione è «morta» perché è «morto» l’organismo che ha aggredito.
Ciascun uomo, al termine di tale «catastrofe antropologica» (47), è vittima della «sindrome del figliol prodigo»: fisicamente a fianco degli altri uomini ma esistenzialmente solitario, senza amore né fiducia, senza grazia, senza certezze, senza identità — nemmeno relativamente ai dati biologici —, senza famiglia, senza capi, senza speranza, senza iniziativa, spesso senza casa e senza lavoro. La società è un cadavere «animato» solo dai vermi che terminano il loro mestiere di spazzini sulle parti molli (48). L’esito che si ha di fronte agli occhi è una condizione frantumata (49), coriandolare (50), di bagarre (51), una babele (52), una massa informe (53), una vita liquida (54); un edificio diroccato può essere risanato, sistemato, bonificato: se è ridotto a macerie e cenere ci sono solo i mattoni — gli uomini — da cui ripartire, non più pilastri, non più muri, non più soffitti — non più famiglia, non più corpi intermedi, e così via. Fuor di metafora: se la Rivoluzione si fosse fermata alla seconda fase, quella politica, corrispondente alla Rivoluzione francese, si sarebbe potuto parlare di risanamento, di riforma, non di rifondazione. Invece, la Rivoluzione pervenuta a disintegrare l’identità biologica ha ridotto al niente qualsiasi cosa che non sia la sopravvivenza — minacciando peraltro pure quella.
Forse che allora non vi è più nulla da conservare? Vi è sempre qualcosa da conservare, e da difendere con ogni energia: per esempio, tutto ciò che ha permesso a noi di ritrovarci in questo luogo a parlare di queste cose è da conservare e da difendere. Si deve sempre tenere conto che, poiché si parla di società, «morte» di una civiltà oppure «fine» della Rivoluzione (55) vanno intesi sempre nel senso analogico, asintotico, tendenziale, di cui si è parlato d’esordio; infatti «[…] la vita continua, e con essa la vita sociale».
Tuttavia, lo ripeto con Papa san Giovanni Paolo II: non è più possibile farsi illusioni. Oggi — non ieri, non domani: oggi — «[…] il nostro non è il tempo della semplice conservazione dell’esistente, ma della missione» (56). Ciò significa affrontare il dialogo con il prossimo — che per Alleanza Cattolica è, in via ordinaria ma non esclusiva, il candidato, l’eletto e l’elettore, e in senso lato tutti gli uomini in quanto attori e beneficiari del vivere in società — senza dare per scontate nemmeno le buone maniere: da selvatico a umano, da umano a cristiano, come si ricava dal testo in epigrafe di papa Pio XII.
E a chi può facilmente obiettare che «così facendo non si finisce più», si deve ricordare che il nostro è il tempo della semina, e che altri raccoglieranno: come Papa Francesco spesso ricorda, a noi è chiesto di «[…] iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci» (57).
Ciò fa echeggiare in me questo pensiero, ricalcato su de Maistre: si uscirà dal periodo vuoto solo mettendo in pratica l’amore a Dio, che è il principio contrario alla crisi che ha «ucciso» la civiltà cristiana occidentale; «[…] principio contrario, che bisogna soltanto liberare (è tutto ciò che l’uomo può fare); poi esso agirà da solo» (58).
Note:
1) Pio XII (1939-1958), Radiomessaggio ai fedeli romani, del 10-2-1952.
2) San Giovanni Paolo II (1978-2005), Discorso in occasione del III Convegno Ecclesiale della Conferenza Episcopale Italiana a Palermo, del 23-11-1995.
3) Francesco, Incontro con i rappresentanti del V Convegno Nazionale della Chiesa Italiana, del 10-11-2015.
4) Sant’Ignazio di Loyola (1491-1556), Esercizi Spirituali, n. 23, in Idem, Gli scritti, a cura dei gesuiti della Provincia d’Italia, Edizioni AdP, Roma 2007, pp. 165-331 (pp. 195-196).
5) Cfr. Lucio Anneo Seneca (4 ca. a.C.-65), Lettere a Lucilio, lettera 102; e San Tommaso d’Aquino O.P. (1225 ca.-1274), Summa theologiae, IIa-IIae, q. 10, a. 12.
6) Cfr. Gen. 3, 7: «[…] intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture»; Gen. 3, 21: «Il Signore Dio fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li vestì»; e Sir. 17, 17: «su ogni popolo mise un capo, ma porzione del Signore è Israele».
7) Gonzague de Reynold (1880-1970), La Casa Europa. Costruzione, unità, dramma e necessità, trad. it., presentazione e cura di Giovanni Cantoni (1938-2020), D’Ettoris Editori, Crotone 2015, p. 40.
8) Joseph de Maistre (1753-1821), Della sovranità del popolo, trad. it., a cura di Riccardo Albani, Editoriale Scientifica, Napoli 1999, p. 14.
9) Cfr. G. Cantoni, Presentazione, in G. de Reynold, op. cit., pp. 9-30.
10) Cfr. Idem, Giovanni Cantoni, in Ci presentiamo… noi impresentabili, in Lo Stato delle Idee, anno III, n. 7, Roma 17-2-1999, pp. 9-16 (p. 12).
11) Punti di riferimento di queste riflessioni sono stati i seguenti testi di G. Cantoni, Dopo Marx, i maghi? La riscoperta del pensiero magico in una cultura postmarxista, in CESNUR. Centro Studi sulle Nuove Religioni, Il ritorno della magia. Una sfida per la società e per la Chiesa,a cura di Massimo Introvigne, Effedieffe, Milano 1992, pp. 35-70; I «network» della religione in un mondo in frantumi, in CESNUR. Centro Studi sulle Nuove Religioni, La sfida pentecostale, a cura di M. Introvigne, Elle Di Ci, Leumann (Torino) 1996, pp. 121-147; «Cum Petro», «sub Petro», verso la civiltà cristiana nel terzo millennio, in Cristianità, anno XXVIII, n. 300, luglio-agosto 2000, pp. 3-4 e pp. 29-30 (p. 3), ora in Idem, Per una civiltà cristiana nel terzo millennio. La coscienza della Magna Europa e il quinto viaggio di Colombo, Sugarco, Milano 2008, pp. 51-58; Il mondo prima di Cristo, in Cristianità, anno XXXI, n. 320, novembre-dicembre 2003, pp. 15-22; e Ipotesi di strategia contro-rivoluzionaria fra un «mondo che muore» e un «mondo che nasce», allegato 4 all’agenda del Capitolo Nazionale di Alleanza Cattolica di maggio 2013, pp. 13-14; e Marco Invernizzi, Alleanza Cattolica fra Sessantotto e «morte» della cristianità, in Cristianità, anno XLV, n. 384, marzo-aprile 2017, pp. 3-14.
12) Giambattista Vico, La Scienza Nuova. 1744, a cura di Paolo Cristofolini e Manuela Sanna, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2013, p. 74.
13) Ibidem.
14) Beato Antonio Rosmini, Filosofia della politica, a cura di Mario d’Addio (1923-2017), in Opere edite ed inedite, edizione nazionale promossa da Enrico Castelli (1900-1977), edizione critica promossa da Michele Federico Sciacca (1908-1975), a cura dell’Istituto di Studi Filosofici di Roma e del Centro Internazionale di Studi Rosminiani di Stresa, Città Nuova, Roma 1997, vol. XXXIII, pp. 84-85.
15) Ibid., p. 253.
16) Cfr. ibid., p. 254.
17) Cfr. ibidem.
18) Ibidem.
19) Ibid., p. 256.
20) «[…] perché tutto quello che è nel mondo — la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita — non viene dal Padre» (1Gv. 2, 16).
21) G. de Reynold, op. cit., pp. 257-258.
22) Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, con presentazione e cura di G. Cantoni, Sugarco, Milano 2009.
23) Cfr. Salvatore Calasso, L’impresa di Fiume avanguardia della Rivoluzione Culturale, in Cristianità, anno XXXVIII, n. 361, luglio-settembre 2011, pp. 43-65.
24) Cfr. Idem, Alle origini del Sessantotto. La «Beat Generation», in Cristianità, anno XLVI, n. 391, maggio-giugno 2018, pp. 37-64.
25) Cfr. Enzo Peserico (1959-2008), Gli anni del desiderio e del piombo. Sessantotto, terrorismo e rivoluzione, prefazione di Mauro Ronco, presentazione di Marco Invernizzi, Sugarco, Milano 2008.
26) Cfr. per esempio G. de Reynold, op. cit., pp. 151-174 e 201-254; ma tutto il testo passim.
27) «L’associazione proposta dall’autore deriva dall’assonanza in francese tra creux, creuse (cavo, cava) e creuset (crogiolo). Per maggiore efficacia nell’esposizione il termine époque creuse è stato reso in italiano con periodo vuoto» (ibid., p. 39n).
28) G. de Reynold, op. cit., pp. 39-40.
29) Beato A. Rosmini, Filosofia della politica, cit., p. 254.
30) Ibid., p. 278.
31) Ibid., pp. 278-279.
32) Ibid., p. 279.
33) Ibid., pp. 324-325.
34) Ibid., p. 85.
35) Louis-Gabriel-Ambroise visconte de Bonald, Pensées sur divers sujets, et discours politiques, in Idem, Oeuvres, 11 voll., Le Clere, Parigi 1817, vol. VI, p. 346.
36) J. de Maistre, Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane, trad. it., con una Nota dell’editore, Il Cerchio, Perugia 2012, pp. 62-63.
37) Beato A. Rosmini, Filosofia della politica, cit., p. 254n.
38) Cfr. Lc. 15, 17.
39) «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!» (Lc. 15, 17).
40) G. Cantoni, «Cum Petro», «sub Petro», verso la civiltà cristiana nel terzo millennio, cit., p. 52.
41) Mauro Ronco, La fondazione del diritto naturale in Giambattista Vico, in PierLuigi Zoccatelli e Ignazio Cantoni (a cura di), A maggior gloria di Dio, anche sociale. Scritti in onore di Giovanni Cantoni nel suo settantesimo compleanno, Cantagalli, Siena 2008, pp. 229-248 (p. 230); cfr. pure l’intero paragrafo 1, La qualità del tempo attuale: il mondo tra la disperazione e la speranza, pp. 229-236, dedicato a una disamina del medesimo brano.
42) G. Cantoni, Dopo Marx, i maghi? La riscoperta del pensiero magico in una cultura postmarxista, cit., p. 56.
43) G. Vico, La Scienza Nuova. 1744, cit., pp. 343-344.
44) J. de Maistre, Lettera al cavaliere Francesco Antonio d’Olry (1769-1863), del 5-9-1818, in Idem, Oeuvres Complètes, nouvelle édition contenant ses Oeuvres posthumes et toute sa Correspondance inédite, 14 voll., Imprimerie Vitte & Perrussel, Lione 1884-1886, vol. XIV, Correspondance VI. 1817-1821, 1886, pp. 147-149 (p. 148).
45) G. Cantoni, «Cum Petro», «sub Petro», verso la civiltà cristiana nel terzo millennio, cit., pp. 51-52.
46) Ibid., p. 53.
47) L’espressione di mons. Justo Mullor García (1932-2016) è riportata in Luigi Accattoli, E finalmente il Pontefice vola in Lituania, in Corriere della Sera, Milano 4-9-1993.
48) Cfr. Georges Bernanos (1888-1948), Lo spirito europeo e il mondo delle macchine, trad. it., in Idem, Lo spirito europeo e il mondo delle macchine, introduzione di Alfredo Cattabiani (1937-2003), Rusconi, Milano 1972, pp. 73-142 (pp. 83-85).
49) Cfr. Aleksandr Solženicyn (1918-2008), Un mondo in frantumi, discorso di Harvard, trad. it., La Casa di Matriona, Milano 1978; cfr. pure san Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sinodale «Reconciliatio et paenitentia» circa la riconciliazione e la penitenza nella missione della Chiesa oggi, del 2-12-1984, n. 2, e le letture fatte da G. Cantoni, La Contro-Rivoluzione e le libertà, in Cristianità, anno XIX, n. 199, novembre 1991, pp. 6-12, e Idem, I «network» della religione in un mondo in frantumi, cit.; cfr. Alfredo Mantovano, Ricostruire un contesto sociale «coriandolare». Introduzione all’insegnamento di Giovanni Cantoni per la politica italiana, in P.L. Zoccatelli e I. Cantoni (a cura di), op. cit., pp. 151-167.
50) Cfr. CENSIS. Centro Studi Investimenti Sociali, 41° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese 2007. Considerazioni generali, FrancoAngeli, Milano 2007, p. 7; cfr. pure A. Mantovano, art. cit.
51) Cfr. G. Cantoni, «Cum Petro», «sub Petro», verso la civiltà cristiana nel terzo millennio, cit., p. 52.
52) Cfr. J. de Maistre, Della sovranità del popolo, cit., pp. 46-48.
53) Cfr. Pio XII, I sommi postulati morali di un retto e sano ordinamento democratico. Radiomessaggio natalizio «Benignitas et humanitas» diretto ai popoli del mondo intero il 24 dicembre 1944, vigilia della Natività di Nostro Signore Gesù Cristo, Cristianità, Piacenza 1991, pp. 10-11.
54) Cfr. Zygmunt Bauman (1925-2017), Modernità liquida, trad. it., Laterza, Roma-Bari 2008.
55) Cfr. su questo punto M. Invernizzi, Il pontificato di Benedetto XVI e il mondo che nasce in quello che muore, in Cristianità, anno XLIV, n. 382, ottobre-dicembre 2016, pp. 5-10, paragrafo Il lupo c’è ancora, pp. 7-8.
56) San Giovanni Paolo II, Discorso in occasione del III Convegno Ecclesiale della Conferenza Episcopale Italiana a Palermo, cit.
57) Francesco, Esortazione apostolica «Evangelii Gaudium» sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, del 24-11-2013, n. 223; cfr. l’importantissimo Idem, Discorso alla Curia Romana per gli auguri di Natale, del 21-12-2019.
58) J. de Maistre, Lettera a S.E. mons. Antonio Gabriele Severoli (1757-1824), del 1°-12-1815, in Idem, Oeuvres Complètes, nouvelle édition contenant ses Oeuvres posthumes et toute sa Correspondance inédite, cit., vol. XIII, Correspondance V. 1815-1816, 1886, pp. 184-193 (p. 188).