Giuseppe Bonvegna, Cristianità n. 306 (2001)
Francesco Pappalardo e Oscar Sanguinetti, Insorgenti e sanfedisti: dalla parte del popolo. Storia e ragioni delle Insorgenze anti-napoleoniche in Italia, Edizioni Tekna, Potenza 2000, pp. 161, £ 28.000
Francesco Pappalardo, Perché “briganti”. La guerriglia legittimista e il brigantaggio nel Mezzogiorno d’Italia dopo l’Unità (1860-1870), Edizioni Tekna, Potenza 2000, pp. 106, £ 25.000
Due pubblicazioni realizzate a cura dell’ISIN, l’Istituto per la Storia delle Insorgenze, costituiscono i primi contributi di una nuova iniziativa editoriale nata nel contesto di un rinnovato interesse per il fenomeno del brigantaggio, interesse suscitato anche dall’apertura, nel 2000, del Parco storico rurale e ambientale della Basilicata presso Potenza. Come si legge nella Nota dell’editore posta all’inizio di entrambe le opere (pp. 7-8 e 5-6), si vorrebbe “[…] dar vita a una collana storica dedicata all’approfondimento del periodo che, partendo dal fenomeno dell’Insorgenza Italiana (1796-1814) arriva fino al brigantaggio nel Mezzogiorno d’Italia (1861)” (rispettivamente p. 7 e 5), nella consapevolezza che il ristabilimento di verità dimenticate dalla storiografia ufficiale deve essere funzionale all’obiettivo di “[…] recuperare le origini e le tradizioni delle popolazioni meridionali spesso calpestate nel nome di una malintesa accezione di modernità” (ibidem).
Francesco Pappalardo, napoletano, è autore di diversi articoli e saggi storici — in particolare sul periodo moderno e sulle vicende legate alla storia del Regno di Napoli nel secolo XIX —, nonché direttore dell’IDIS, l’Istituto per l’Informazione e la Dottrina Sociale di Roma, e direttore responsabile di Cristianità.
Oscar Sanguinetti, milanese, è autore di diversi saggi e opere dedicati alla storia d’Italia nel periodo napoleonico e al tema delle insorgenze popolari contro-rivoluzionarie; è coordinatore scientifico dell’ISIN, nonché collaboratore di diverse testate quotidiane e periodiche.
L’opera dedicata alle insorgenze anti-giacobine e anti-napoleoniche in Italia, dopo la Nota dell’editore, si apre con una Premessa (pp. 9-12) ed è articolata in quattro parti, aventi per tema rispettivamente: Le radici dell’Insorgenza (pp. 15-48); una descrizione dei movimenti di rivolta, verificatisi in Italia dal 1796 al 1814, L’Italia (pp. 49-90); un profilo più accurato dell’Insorgenza del 1799 nel Regno di Napoli, Insorgenti per la Santa Fede (pp. 91-121); infine, una valutazione generale dell’intero fenomeno, Qualche considerazione a margine (pp. 123-144). Seguono brevi Conclusioni (pp. 145-148) e una corposa bibliografia, Per approfondire (pp. 149-161), delle pubblicazioni riguardanti l’Insorgenza italiana ed europea.
Le radici dell’Insorgenza devono essere ricercate in quella reazione popolare alla Rivoluzione francese che i fautori delle idee dell’Ottantanove fin dagli esordi temono con una preoccupazione sicuramente maggiore di quella provata nei confronti di pensatori del movimento contro-rivoluzionario, come il conte savoiardo Joseph de Maistre (1753-1821), il visconte francese Louis-Gabriel-Ambroise de Bonald (1754-1810), lo svizzero Karl Ludwig von Haller (1768-1854) e tanti altri. Infatti, di fronte a tre avvenimenti cruciali della Rivoluzione francese, della quale viene tracciato un accurato profilo cronologico-tematico: il regicidio, il giuramento civile del clero e la coscrizione obbligatoria, nella primavera del 1793 scoppia, nel nord-ovest della Francia, la gigantesca rivolta dei contadini della Vandea. Organizzatisi in un esercito — l’Armata Cattolica e Reale —, i vandeani, dopo alcune vittorie riportate sulle truppe repubblicane, vengono battuti e sterminati — combattenti e civili — per decreto della Convenzione. Ma la reazione contro la Rivoluzione dell’Ottantanove ha un respiro europeo — tanto che è lecito parlare di “Insorgenza europea” (p. 41) —, perché, con l’avanzare delle truppe francesi in Europa al comando di Napoleone Bonaparte (1769-1821), diverse rivolte popolari, simili a quella vandeana, scoppiano, oltre che in Francia, anche nel Belgio, nella Svizzera tedesca, francese e italiana, nella zona del Reno in Germania, in Spagna, nella penisola istriana, nell’isola d’Elba e nell’isola di Malta.
Lo studio si concentra poi sull’occupazione francese dell’Italia. Bonaparte, fra il 1796 e il 1799, dilaga nella Penisola dalle Alpi alla Calabria alla testa delle armate franco-repubblicane — che cercano di varcare le Alpi fin dal 1792 incontrando però l’indomita resistenza dell’esercito sabaudo — e impone un regime accentratore in campo economico, totalmente rivoluzionario in campo amministrativo e in campo politico ed esplicitamente anti-ecclesiastico in campo religioso. La penetrazione dell’esercito francese, a cui si accompagna un progressivo diffondersi delle nuove idee a tutti i livelli della società, non può lasciare indifferenti le classi popolari della Penisola, che “[…] evidenziano tratti culturali arcaici e pre-moderni, riassumibili nella concezione sacrale della vita, in una fede scevra da moralismo vissuta senza dicotomie con la vita; in un’intensa pratica sacramentale; nella docilità al magistero e all’autorità spirituale della Chiesa; nell’amore per una liturgia che ricalcava i tratti e i ritmi della vita quotidiana di un mondo in cui l’agricoltura era ancora l’attività predominante; nello status privilegiato concesso alla tradizione tanto come contenuto, quanto come modo di trasmissione dei valori e del sapere” (p. 52).
Proprio in difesa di questi valori, continuamente negati e combattuti dalle classi dirigenti francesi impadronitesi dell’Italia, i popoli della Penisola insorgono coralmente contro la dominazione proveniente d’Oltralpe, dando vita a quel fenomeno denominato Insorgenza; essa conosce due fasi successive, rispettivamente al centro dei due capitoli che costituiscono la seconda parte del libro: le insorgenze durante il cosiddetto Triennio Giacobino (1796-1799) e le insorgenze durante gli anni dell’Impero (1800-1814).
Dopo l’eroica resistenza dei montanari del Nizzardo e delle Alpi Marittime, che fin dal 1792 si affiancano alle truppe sabaude per bloccare l’avanzata francese nella Guerra delle Alpi, che si conclude con la vittoria francese e con la conseguente avanzata delle armate repubblicane nella pianura padana. Ma, a mano a mano che queste dilagano verso oriente, i popoli dell’Italia Settentrionale si sollevano.
Nel 1796 insorgono Milano, Pavia, Binasco, Lodi, Como, Varese e Casalmaggiore, e le Romagne — Imola, Faenza, Cesena e Lugo. Nel 1797 è la volta di Bergamo, Brescia e Verona — appartenenti alla Repubblica di Venezia —, di Genova, della Liguria e della Valtellina. Con l’estendersi della conquista francese verso sud, nello stesso anno insorgono le Marche e l’anno seguente il Lazio, dove, alla ribellione dei ceti popolari di Roma e dei paesi limitrofi contro l’istituzione della Repubblica Romana, segue la sollevazione del Dipartimento del Circeo, ferocemente repressa dal generale Antoine Girardon (1758-1806), che, dopo aver visto l’entità della rivolta, scrive nel suo diario: “C’est la Vandée” (p. 66).
Gl’insorgenti conoscono un periodo particolarmente favorevole nel 1799, “l’anno “magico” per la Contro-Rivoluzione italiana” (p. 68). Infatti, in seguito alla spedizione d’Egitto e alla sconfitta navale dei francesi ad Abukir nei pressi di Alessandria d’Egitto il 1° agosto 1798 a opera dell’ammiraglio britannico Horatio Nelson (1758-1805), si produce un capovolgimento del quadro strategico internazionale. Con l’assenza di Bonaparte dal teatro politico-militare italiano e con la formazione di una coalizione antifrancese fra Gran Bretagna, Impero asburgico, Impero russo e Impero ottomano anche l’Insorgenza cambia volto: “[…] non è più costituita da episodi sporadici più o meno spontanei e più o meno ampi, ma, grazie al sostegno alleato, diventa nello stesso tempo guerriglia e guerra di movimento” (p. 69). Le vittorie dei coalizzati sul fronte italiano favoriscono la rivolta dei contadini piemontesi guidati dal maggiore imperiale milanese Branda de’ Lucioni (1744-1803), il quale riesce a costituire un’armata cattolica — l’Ordinata Massa Cristiana — e a liberare Torino dai franco-giacobini. Sempre nel 1799 si sollevano per la seconda volta le popolazioni delle Marche — sotto la guida, fra gli altri, del milanese Giuseppe de la Hoz Ortiz (1769-1799), già comandante di legioni cisalpine —, la Toscana Orientale, l’Umbria — dove scoppia la grande rivolta del Viva Maria aretino — e il Lazio.
Questa congiuntura politico-militare decisamente favorevole agl’insorgenti dura fino al giugno del 1800, quando Bonaparte, in seguito alla vittoria di Marengo, nell’Alessandrino, procede alla riconquista dell’Italia. La riappropriazione del potere perduto, però, non avviene per via di imposizione indiscriminata — come durante il Triennio Giacobino —, ma preferibilmente per “via dinastica” (p. 83); ciò tuttavia non impedisce al generale francese di sanzionare l’ordine rivoluzionario attraverso nuovi codici di leggi, una forte e ramificata burocrazia, l’inasprimento della coscrizione obbligatoria e, in campo ecclesiastico, attraverso il Concordato del 1801, che segna “l’assoggettamento completo della gerarchia all’amministrazione” (p. 84).
Nel quindicennio compreso tra il 1800 e il 1815, di fronte all’ininterrotto dominio politico-militare che Napoleone impone in Europa, l’Insorgenza italiana si trasforma in “[…] tensione sociale endemica, sommossa sporadica oppure brigantaggio” (ibidem), ma non cessa di far sentire la sua voce. Sono di questo periodo le rivolte popolari nei ducati di Parma e di Piacenza e nella zona delle colline bolognesi di Marzabotto dal 1805 al 1810, la rivolta di Andreas Hofer (1767-1810) in Tirolo dal 1809 al 1810, l’insorgenza nel Veneto e nella regione padana nel 1809, e, infine, la riesplosione della guerriglia antifrancese in Calabria dal 1806 al 1813, che per certi versi si ricollega alla grande epopea della Santa Fede nel 1799 del cardinale Fabrizio Ruffo (1744-1827).
Alla “contro-rivoluzione sanfedista” (p. 111) nel Regno di Napoli è dedicata la terza parte, redatta da Pappalardo — le altre tre parti, invece, sono opera di Sanguinetti —, che vede nell’insorgenza napoletana un “[…] modello per l’ampiezza del fenomeno, per la minore frammentarietà delle vicende e per la presenza di un nucleo dirigente che, per quanto piccolo, seppe coordinare la reazione popolare, spontanea ma non autonoma” (p. 93).
Il “preparatore” (p. 99) della resistenza ai fermenti rivoluzionari, che iniziano a serpeggiare nello Stato napoletano già all’indomani della sua costituzione come regno indipendente nel 1734 — politica anticuriale della Corte, espansione delle logge massoniche, decadenza della nobiltà, arrivismo della nuova borghesia in ascesa —, è sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787), il quale “[…] porta […] a termine uno straordinario lavoro di animazione civile e culturale, dotando la Chiesa e la società di numerosi e solidi presìdi, che sarebbero stati lievito della reazione della Santa Fede, “preparata” dal santo napoletano nello stesso senso in cui san Luigi Maria Grignon de Montfort (1673-1716) “preparò” la Vandea” (ibidem). Nel 1798, undici anni dopo la morte del santo, l’esercito francese invade il Regno di Napoli, provocando la fuga del re a Palermo, il passaggio del potere nelle mani del generale Girolamo Pignatelli (1734-1812) — che si rivela incapace di opporsi alle pretese dell’invasore — e la proclamazione della Repubblica Napoletana il 21 gennaio 1799, a cui fa da pendant una democratizzazione forzata scarsamente gradita al popolo, nonostante i ripetuti tentativi d’istruzione popolare promossi, fra gli altri, dalla letterata Eleonora de Fonseca Pimentel (1752-1799). Intanto, alla corte di Palermo, il proposito di dare una guida autorevole alla reazione popolare — che ormai si estende dagli Abruzzi alla Calabria — per ricondurre il Regno sotto l’autorità legittima, viene soddisfatto con la designazione del cardinale Fabrizio Ruffo a vicario del re. Sbarcato in Calabria due settimane dopo la conquista francese della capitale, nell’arco di quattro mesi Ruffo risale il sud della Penisola liberandolo dall’invasore e, nel giugno 1799, entra a Napoli alla testa della sua Armata Cristiana e Reale.
L’ultima parte è dedicata a un bilancio generale del fenomeno dell’Insorgenza, che viene valutata prima dal punto di vista del suo impatto sulla società dell’epoca, poi dal punto di vista delle varie forme da essa assunte e, infine, in relazione alle maggiori interpretazioni degli studiosi.
Sotto il primo angolo di visuale, l’indagine storica del periodo compreso tra il 1789 e la caduta di Napoleone obbliga a concludere che, se è lecito parlare di “incipiente […] “nazionalizzazione delle élites“” (p. 128), la maggioranza della popolazione non si trova in sintonia con la Rivoluzione e, volendo rimanere fedele alle proprie tradizioni, insorge contro l’invasore francese. Si tratta di una rivolta che, nella sua forma di resistenza attiva, è sempre spontanea e, al di là degl’inevitabili limiti tattici e organizzativi, lascia trasparire istanze e progetti politici che trascendono le rivendicazioni economiche o religiose: “[…] la volontà degli insorgenti di superare l’antico regime nelle sue forme ultime e di ottenere invece il ritorno a forme di libertà concreta che lo sviluppo dell’antico regime stesso e in particolare la stagione delle riforme illuminate avevano negato o drasticamente limitato. Queste virtualità dell’Insorgenza — poiché quasi sempre rimangono tali — aprono un quesito: dietro di esse si muoveva l’embrione di un progetto di “ricupero”, almeno parziale, in forma più pura dell’ordine nato nel Medioevo oppure si trattava invece di un anticipo delle istanze costituzionali e liberali che troveranno piena espressione nei primi decenni del secolo XIX?” (p. 137). Un tentativo di risposta a questa domanda viene abbozzato attraverso la sottolineatura dei limiti delle tre maggiori interpretazioni dell’Insorgenza — nazionalista, liberale e marxista — di fronte alla lettura — già proposta all’inizio dell’opera — che, pur riconoscendo la non riducibilità del fenomeno a interpretazioni univoche, permette d’individuare le radici dell’Insorgenza nella reazione popolare a quell’insieme di avvenimenti che, alla fine del secolo XVIII, segnano il passaggio della modernità dalle idee ai fatti.
L’opera di Pappalardo riguarda invece un periodo cronologicamente successivo a quello esaminato nell’opera sulle insorgenze e il sanfedismo, perché è dedicato alla ricostruzione storica del complesso fenomeno del cosiddetto “brigantaggio”, esploso, sviluppatosi e per buona parte compiutosi nel decennio immediatamente successivo alla realizzazione dell’unificazione italiana (1860-1870).
Tuttavia i legami fra il brigantaggio e le insorgenze anti-giacobine e anti-napoleoniche non sono pochi. Entrambi i fenomeni, infatti, scaturiscono, pur con modalità di espressione diverse, dalla resistenza degli abitanti della Penisola italiana alla progressiva penetrazione delle idee rivoluzionarie, che avviene sulla punta delle baionette francesi durante gli anni della dominazione napoleonica (1796-1814) e attraverso l’operato dei ceti dirigenti post-unitari, durante il decennio 1860-1870.
A questa chiave interpretativa di oltre mezzo secolo di storia italiana fa riferimento Pappalardo, quando, nella premessa, legge l’atteggiamento legittimista dei sostenitori delle antiche dinastie spodestate dai Savoia in parallelo a quel “lealismo sentimentale” (p. 9) verso la famiglia regnante — dimostrato dalle popolazioni meridionali all’indomani dell’unificazione — che è la grande componente ideale che anima il fenomeno del brigantaggio. Il punto di contatto fra le due posizioni sta proprio nella loro insofferenza nei confronti della Rivoluzione, una dottrina che, fondandosi sulla negazione di Dio e sulla divinizzazione dell’uomo, legittima l’eliminazione di tutto ciò che sa di tradizione all’interno della società pubblica e del potere politico e si trova quindi all’origine sia dell’attacco giacobino alla tradizione cattolica dell’Italia, sia dell’aggressione politica e militare dei Savoia contro gli Stati legittimi della Penisola.
L’opera, che dopo la Nota dell’editore porta una Premessa (pp. 7-9), si articola in due parti. Nella prima, Lealismo e brigantaggio (pp. 11-84), il fenomeno viene analizzato dal punto di vista storico, attraverso la descrizione delle origini semantiche del termine e — soprattutto — di quel “legittimismo armato” (p. 21) — che diventa poi “guerra di popolo” (p. 65) —, nato come reazione all’aggressione sabauda del Regno delle Due Sicilie e che passa alla storia con il nome spregiativo di “brigantaggio”. La seconda parte, Qualche interpretazione (pp. 85-101), è dedicata invece a una valutazione generale del fenomeno, guadagnata attraverso un bilancio delle interpretazioni fino a oggi maggiormente diffuse. Lo studio si conclude con una bibliografia, Per approfondire (pp. 103-106).
I primi significativi episodi di brigantaggio si verificano, infatti, all’indomani dello sbarco delle truppe guidate da Giuseppe Garibaldi (1807-1882) in Calabria nell’agosto del 1860, quando la popolazione locale, delusa nell’aspettativa di un rivolgimento sociale che punisca gli usurpatori delle terre demaniali, i cosiddetti “galantuomini” — che si sono impadroniti delle terre in seguito alle leggi eversive della feudalità del 1806 —, si ribella, in nome del re, all’avanzata di Garibaldi. L’”eroe dei due mondi“, oltretutto, si è ormai dimostrato incapace di risolvere la questione dei demani, anche perché ha buon gioco a servirsi proprio dei “galantuomini” per spianare la strada alla propria avanzata. La resistenza popolare — che nel settembre 1860 può contare sull’appoggio dell’esercito borbonico, appena ricostituito dal re Francesco II (1836-1894) e che si è ritirato oltre il Volturno — si spegne nel giro di pochi mesi a causa dell’invasione sabauda il 12 ottobre 1860, ma riesplode in occasione del plebiscito il 21 ottobre 1860 e prende vigore in seguito al nobile proclama che il Sovrano, ormai assediato nella fortezza di Gaeta, rivolge ai suoi sudditi l’8 dicembre 1860 per denunciare lo stato di caos e di violazione del diritto in cui versa il paese.
La caduta di Gaeta il 13 febbraio 1861, la proclamazione del Regno d’Italia il 17 marzo 1861 e l’estensione al Mezzogiorno della legislazione anti-ecclesiastica del Regno sabaudo contribuiscono a rinvigorire la resistenza popolare, che adesso può fare affidamento sul favore incondizionato del clero e sull’intervento di corpi internazionali — “la crociata dei legittimisti europei” (p. 38) —, composti del fior fiore della nobiltà cattolica europea e che hanno già combattuto contro l’invasione sabauda dello Stato Pontificio. Forte dell’appoggio internazionale, “la resistenza si organizza” (p. 40): essa può contare, oltre che sui fondi messi a disposizione da Francesco II e dalla nobiltà europea, anche su comitati di arruolamento sparsi per tutta Europa, su una rete di fiancheggiatori, informatori e simpatizzanti — che costituiscono il cosiddetto “partito borbonico” (p. 43) — e sulla polemica condotta dai migliori pubblicisti del Regno; fra costoro emerge Giacinto de’ Sivo (1814-1867), nelle cui opere è viva “[…] la consapevolezza del carattere rivoluzionario dell’aggressione al Regno delle Due Sicilie, che è soltanto un episodio — anche se macroscopico — dello scontro gigantesco in atto fra la religione e l’ateismo” (p. 46).
Ma la “grande insorgenza” (p. 47) che esplode nella primavera del 1861 e che ha il suo centro nevralgico nella zona del Melfese, in Lucania, viene soffocata nel sangue dal generale Enrico Cialdini (1811-1892), il quale mette in atto una feroce repressione — inutilmente stigmatizzata anche da Napoleone III (1808-1873) e da Massimo d’Azeglio (1798-1866) —, che provoca la trasformazione dell’insorgenza stessa in guerriglia. Intanto, mentre il presidente del consiglio Bettino Ricasoli (1809-1880) emana una nota diplomatica volta a negare il carattere politico del brigantaggio — ottenendo la repentina risposta del governo borbonico esiliato a Roma e un’efficace confutazione dalle colonne della rivista dei gesuiti La Civiltà Cattolica —, fra il settembre e il dicembre 1861, l’ex generale carlista José Borges (1813-1861) tenta di ripetere l’impresa del cardinale Ruffo, ma il suo tentativo di liberare il Sud fallisce per il venir meno dell’appoggio da parte del più autorevole capo di briganti, Carmine Donatelli, detto Crocco (1830-1905), che vuole limitare l’azione insurrezionale alla guerriglia.
Nonostante il naufragio dell’impresa — a cui segue la fucilazione di Borges a opera di un drappello di bersaglieri sabaudi l’8 dicembre 1861 — la rivolta non si placa e il 24 agosto 1862 costringe lo Stato italiano a proclamare lo stato d’assedio in tutto il Mezzogiorno e in Sicilia, a emanare l’8 agosto 1863 una serie di misure eccezionali e a far approvare in Parlamento una legge speciale contro il brigantaggio, promossa dal senatore Giuseppe Pica (1813-1887), che resterà in vigore fino al 31 dicembre 1865.
L’istituzionalizzazione della repressione — che porta all’arresto di almeno dodicimila persone, alla fucilazione di un numero non ancora calcolato di civili e all’uccisione o alla messa fuori combattimento dei maggiori capi dell’Insorgenza — esercita un’influenza determinante sulle decisioni di Francesco II, il quale, per evitare altre atrocità, nel 1866 rifiuta d’incitare il Mezzogiorno alla sollevazione e nel 1867 scioglie il governo borbonico in esilio. Tre anni dopo, anche se la resistenza non è ancora del tutto terminata, il 18 gennaio 1870 il governo italiano sopprime le zone militari nelle province meridionali, sancendo la fine ufficiale del brigantaggio. Tuttavia — nota Pappalardo — “quando le bellicose energie sono esaurite, la secessione si manifesta più pacificamente, ma non meno drammaticamente, nella grandiosa emigrazione transoceanica della nazione “napoletana”, che coinvolse alcuni milioni di persone” (p. 83).
La seconda parte dell’opera inizia con la sottolineatura dei limiti delle due interpretazioni maggiori del brigantaggio, che identificano il motivo scatenante della resistenza del popolo meridionale allo Stato unitario con la presunta miseria economica e culturale in cui verserebbe il Sud alla vigilia dell’unificazione — interpretazione liberale — e con la volontà di lotta di classe contro i ceti dominanti — interpretazione gramsciano-marxista. Una lettura adeguata del fenomeno, invece, dovrebbe tener conto sia di quella “continuità contro-rivoluzionaria” (p. 90) che permette di far risalire il moto legittimistico e le modalità della guerriglia dei briganti all’epopea vandeana, sia delle rivendicazioni sociali — nate in contrapposizione alla situazione venutasi e creare in seguito alla promulgazione delle leggi eversive della feudalità d’ispirazione napoleonica (1806) —, sia, infine, dell’elemento religioso. All’interno di questo quadro organico, Pappalardo osserva che, se per una corretta valutazione del brigantaggio non si può fare a meno di riconoscere l’importanza dell’elemento legittimistico e dell’elemento religioso, bisogna tuttavia consentire con lo storico Giuseppe Galasso che entrambi gli elementi risultano meno determinanti delle “ragioni che si possono definire nazionali” (p. 92), cioè di quello spirito nazionale fondato non solo e non tanto sulla devozione verso la Casa regnante, quanto su una radicata consapevolezza dell’autonomia e della personalità del Regno di Napoli e del Regno di Sicilia. Il brigantaggio quindi — conclude l’autore riprendendo alcune riflessioni di Giovanni Cantoni — rappresenta “[…] l’espressione più macroscopica della reazione di una nazione intera in difesa della sua autonomia quasi millenaria e della religione perseguitata e, dunque, costituisce l’ultimo tentativo compiuto in Italia, insieme con “la difesa di Roma a opera degli zuavi” per “[…] combattere la Rivoluzione con le armi”“ (p. 93).
Tuttavia il sacrificio degl’insorgenti meridionali non è servito a impedire che il Mezzogiorno diventasse una Questione. Infatti, a cominciare dalla metà del secolo XIX fino ai giorni nostri, si è consolidata nell’immaginario collettivo la rappresentazione di un Sud arretrato economicamente e culturalmente “[…] che non trova fondamento sul piano storico, ma ha genesi e natura ideologica” (p. 94), in quanto nasce proprio nel momento in cui la classe politica unitaria decide di “[…] inserire nella nuova compagine statale l’ex regno napoletano, anche a costo di cancellarne l’identità storica” (p. 95).
Giuseppe Bonvegna