Oscar Sanguinetti, Cristianità n. 419 (2023)
Il tema del Big Government occupa ancora il dibattito fra i think tank e i movimenti politici di Oltreoceano. Oggetto delle polemiche è l’espansione della sfera pubblica rispetto alla società, in corso negli Stati Uniti d’America a partire dalle riforme statalistiche di Franklin Delano Roosevelt (1882-1945), presidente dal 1933 al 1945, e dalla loro seconda fase sotto la presidenza del democratico Lyndon Baynes Johnson (1908-1973), il successore di John Fitzgerald Kennedy (1917-1963). Le spinte verso un ampliamento delle prerogative del governo federale sono la quintessenza di gran parte del programma liberal,le cui ricadute, come in tutte le forme di socialismo, moderate o radicali, sono infallibilmente su un ruolo ampliato dello Stato. Ovviamente, la polemica contro ciò che viene definito il Big Government, ossia lo Stato dilatato, «padrone», tendenzialmente totalitario, è di segno squisitamente conservatore.
Se questa polemica ha senso in un contesto storico-politico come quello nordamericano, dove sin dalle origini la costituzione è concepita come un frame di difesa del cittadino dai possibili abusi dello Stato, a maggior ragione ha senso in Europa, dove, grazie all’eredità del giacobinismo e a quella ancora più cospicua dei totalitarismi «imperfetti» o «perfetti» che vi hanno messo radice, il problema si pone in maniera ancora più acuta. Il limes su cui si attesta la lotta politica Oltreoceano da noi è spostato molto più in là: grazie alle esperienze autoritario-statalistiche di ascendenza hegeliana o marxiana, in quasi ogni angolo del continente vivono regimi semi-socialisti, dove lo Stato, all’insegna del Welfare, invade pressoché ogni ambito della vita privata e civile «dalla culla alla bara», con una proliferazione di migliaia di leggi, norme, regolamenti emanati dallo Stato, dalle Regioni, dalle autorità locali, dalle authority, da ogni e qualunque ente dotato di potere regolatorio. Le istituzioni sovranazionali che i Paesi europei si sono date, anziché semplificare l’immensa struttura burocratica entro la quale si svolge la vita collettiva, ne hanno moltiplicato le dimensioni e complicato il funzionamento. Le recenti vicende pandemiche e le emergenze di vario genere, dal clima all’energia, non hanno fatto altro che offrire allo Stato moderno nuove opportunità per accrescere la sua struttura e intensificare il disciplinamento delle popolazioni.
Non tutti percepiscono la problematica di questa crescita ipertrofica della sfera pubblica, né rammentano che quasi mai il mondo occidentale, dalla fine di Roma in poi, ha conosciuto un fenomeno di tal genere. L’ultimo esempio, infatti, di una struttura statale ipertrofica risale ai tempi finali dell’impero romano d’Occidente, del cui crollo è responsabile anche la dilatazione smisurata del peso dell’apparato fiscale, così come di quello della burocrazia dedita a rendere presente il potere imperiale anche nelle più remote aree di uno Stato immenso e sempre più eroso alle frontiere.
Dopo il crollo di Roma la ricostruzione di un ordine internazionale e nei singoli regimi nazionali che nascono, grazie anche all’apporto del diritto «barbarico», avviene «dal basso», secondo linee che scaturiscono dai bisogni dei popoli non più protetti dallo scudo imperiale. Anche se il diritto romano non scompare, anche se il nuovo ordine, che trova il suo terminus a quo nella notte di Natale dell’800, utilizza i resti della romanità e il nuovo sovrano carolingio si fregia del titolo di imperatore romano di Occidente, la nuova Europa non conosce praticamente lo Stato. Il potere si costituisce e s’incardina su centri di autorità sgorgati da rapporti privati, la sovranità sta nei re e nei nobili che si sono conquistati questa prerogativa sul campo, l’autorità è distribuita lungo tutta la piramide sociale — che allora era una immagine ancora valida — e sul territorio dai feudi sino alle comunità di più basso livello, nei consigli dei municipi e nelle assemblee delle comunità di villaggio nelle campagne e nelle valli, dove emergono «autorità sociali»: i più onesti, i più forti, i più abili, i più «nobili» nel senso letterale del termine, cioè quelli con una genealogia più nota.
In Italia, negli Stati pre-unitari la legislazione e la struttura amministrativa sono assai ridotti e lo stesso Stato liberale post-unitario — pur aumentando la quantità delle norme e ingrandendo notevolmente l’amministrazione fiscale, civile e militare, accrescendo nel contempo in misura mai vista il numero degli «addetti», ossia giudici, prefetti, funzionari, impiegati, militi, poliziotti — si presentava ancora come Stato «leggero» e poco intenzionato a ingerirsi capillarmente nel corpo sociale.
Nel Novecento, la Grande Guerra e il successivo regime semi-totalitario durato venti anni imprimono allo sviluppo dello Stato un’accelerazione impressionante. I governi democratico-cristiani, in nome di un malinteso «bene comune» e del Welfare, conserveranno in larga misura le strutture messe in piedi dal fascismo nell’ottica dell’intervento dello Stato non solo per regolare la vita sociale ma anche per imprimerle un indirizzo di vertice. L’interventismo crescerà con i governi a partecipazione diretta socialista — che esordiscono con la nazionalizzazione dell’energia elettrica e proseguono nazionalizzando sempre nuove articolazioni della vita economica del Paese — e, nella seconda metà degli anni 1970, indiretta comunista. Nessuno dei governi insediatisi nei decenni successivi — politici o «tecnici» che fossero — blocca questa corsa all’ipertrofia, sforzandosi di ridurre l’area d’intervento pubblico, specialmente in campo fiscale.
Lo Stato odierno, dunque, non è calato dal cielo come la Gerusalemme celeste, né è il prodotto più raffinato e aggiornato dei laboratori della politica, ma ha una storia che si può ricostruire e narrare e di cui si possono conoscere almeno in parte i moventi.
La traiettoria storica dello Stato nell’Età Moderna, la sua ininterrotta dilatazione, indifferente ai cambi di regime — dallo Stato patrimoniale alla monarchia, dalla monarchia unitaria alla repubblica, e sotto governi autoritari, aristocratici e democratici —, sotto la spinta, appunto, della declinazione o della ricaduta «politica» della modernità, dal «non-Stato» del Medioevo fino alla mostruosità dello Stato 3.0, quello del Terzo Millennio, è stata validamente ripercorsa e narrata nell’opera di Francesco Pappalardo, La parabola dello Stato moderno. Da un mondo «senza Stato» a uno Stato onnipotente.
Pappalardo, dirigente nel Senato della Repubblica, di formazione giuridica e politica, scrive di storia fin dalla giovinezza e ha maturato un’ampia competenza in materia di Storia del Diritto, di Storia Moderna e di storia dei movimenti popolari contro-rivoluzionari. È da molti anni socio benemerito di Alleanza Cattolica, nonché presidente dell’IDIS, l’Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale di Roma.
Lo studio si avvale di un apparato critico assai esteso e aggiornato, nonché di una bibliografia pressoché sterminata ed è «insaporito» da una estesa messe di citazioni dei brani più esplicativi degli autori più qualificati. Esposta in uno stile letterario piano e semplice, ma non per questo meno raffinato ed esplicativo, la narrazione si articola in una introduzione e in otto capitoli, ciascuno dedicato a mettere a fuoco una dimensione del fenomeno.
Nell’Introduzione (pp. 9-17) viene precisato che lo Stato non costituisce l’unica forma di organizzazione politica possibile. Si può dire che rispetto al genere «sistema politico» esso rappresenta una delle specie possibili: non è «la» politica, ma soltanto una delle forme storiche in cui quest’ultima si realizza. Una sua forma particolare è lo Stato «moderno», divenuta egemone con l’affermarsi della modernità, specialmente dopo la Rivoluzione «francese» del 1789. Con la locuzione «Stato moderno» non si indica dunque l’organizzazione della società nel mondo contemporaneo, ma un tipo particolare di Stato: punto di arrivo di un percorso non fatale, non determinato, forse necessario negli sviluppi, ma non nelle premesse.
Come è nello stile della scuola cattolico-controrivoluzionaria, ma in particolare in ossequio all’insegnamento di Giovanni Cantoni (1938-2020), che, conscio dello stato culturale del lettore contemporaneo, vi insisteva ininterrottamente, l’autore esordisce (cap. I, Qualche messa a punto terminologica, pp. 19-56) con una ricca explicatio terminorum, indispensabile per evitare equivoci su termini come «Stato», «impero», «modernità», «antico regime» e «assolutismo», oggi quanto mai comuni, anche nella letteratura più accreditata di scientificità.
Proprio la constatazione dell’inadeguatezza di molte categorie utilizzate per studiare la cosiddetta Età Moderna ha dato luogo a una significativa svolta storiografica — maturata all’incirca negli anni Settanta del secolo scorso, coinvolgendo gli storici delle istituzioni e quelli del diritto — grazie alla quale è emersa una nuova sensibilità nei confronti di una storia istituzionale non più incentrata sullo Stato come stadio finale e necessitato dell’organizzazione della società, ma attenta anche ad altre modalità di esercizio dell’autorità, dunque alla molteplicità delle istituzioni, dei sistemi giuridici e dei soggetti politici che hanno caratterizzato nel tempo quasi tutti i Paesi europei. Nel secondo capitolo (Una svolta storiografica, pp. 57-90) viene effettuata una rassegna di questa nuova storiografia, evidenziando l’inefficacia di paradigmi interpretativi contemporanei, come quello della «decadenza», applicato all’Italia sei-settecentesca e tenacemente persistente, perché legato al mito del Risorgimento.
Segue quindi (cap. III, L’«antico regime»: persistenze e mutamenti, pp. 91-108) un’ampia disamina della società e delle istituzioni politiche nel cosiddetto «antico regime», ovvero nel mondo post-medioevale, «lavorato» in larga misura dal canone antropocentrico della modernità, ma il cui impianto era ancora modellato secondo i «vecchi» princìpi e valori, ovvero con una costituzione organica, gerarchica, corporata e imperniata sulla sacralità del potere anche civile.
Nei due capitoli successivi — Lo Stato moderno: un profilo (pp. 109-118) e Genesi dello Stato moderno (pp. 119-228), quest’ultimo il più corposo del testo — vengono illustrati la genesi e lo sviluppo dello Stato moderno, che si svolgono attraverso un processo accidentato, e talvolta accidentale, frutto di contrattazioni e di compromessi con le altre realtà sociali. Esso è il risultato di un duro e prolungato scontro di potere, che in alcune aree ha presentato alternative potenzialmente realizzabili, la cui importanza è stata a lungo sottovalutata nella ricostruzione storica: il modello imperiale, durato circa un millennio a partire dalla rinascita carolingia dell’anno 800, le leghe cittadine, le confederazioni e i cosiddetti «piccoli Stati», che non erano «scarti di lavorazione» dei processi di costruzione nazionale.
Questo processo, che matura nei secoli compresi fra il XIV e il XVI, può essere descritto come l’esito di un doppio movimento compiuto dal sovrano e dalle élite al suo servizio: il primo verso l’esterno, per emanciparsi dalle strutture sovranazionali dell’Impero e del Papato; e il secondo verso l’interno, per ridimensionare progressivamente le strutture cetuali e i poteri locali. Si assiste così al passaggio da una fase in cui la società si auto-organizza a un’altra in cui la società e la sua organizzazione, cioè lo Stato, entrano in contrasto, fino a giungere al dominio dell’organizzazione stessa sulla società. Principali conseguenze di ciò sono il monopolio del diritto — che non rappresenta più un limite per lo Stato, bensì è un prodotto dello Stato stesso —, il venir meno dei corpi intermedi, l’aumento della fiscalità, sempre meno subordinata all’approvazione dei soggetti su cui grava, fino a giungere allo Stato del tempo presente, lo «Stato del benessere», che vorrebbe vegliare sul cittadino «dalla culla alla bara».
Con la Rivoluzione del 1789 (cap. VI, La Rivoluzione francese, pp. 229-248) i processi di sviluppo in atto in ambito politico da impliciti divengono espliciti e i canoni del moderno s’impongono nella modellazione dell’autorità sociale, distruggendo il modello «paterno» — dopo che la «rivolta protestante» ha già distrutto l’idea del Pater — e sostituendolo con quello individualistico-egualitario, basato sulle libertà razionali astratte.
Grande attenzione viene data, quindi (cap. VII, Resistenze e rivolte, pp. 249-260), alle resistenze, molto articolate, messe in atto nei confronti del nascente Stato moderno da parte di tutti gli strati della popolazione, che vedevano limitate le proprie prerogative e le proprie libertà. Le migliaia di rivolte verificatesi in tutta l’Europa — soprattutto fra la seconda metà del secolo XVI e l’intero secolo XVII — mostrano l’attaccamento del popolo e dell’aristocrazia ai propri diritti, tanto da potersi affermare che i moderni diritti dell’uomo non sono affatto alla base dello Stato moderno, ma sono emersi proprio dalla resistenza nei confronti della sua ascesa.
Lo Stato che abbiamo di fronte oggi risente di tutti i condizionamenti ideologici manifestatisi nel corso del tempo, spinte di svariata natura — autoritarie, egualitaristiche, religiose —, ma tutte concordi nell’aumentarne le prerogative e il «peso» sulla società. Al di là delle forme, due paiono infatti i criteri-base per valutare un’organizzazione sociale in Età Moderna: l’efficacia in termini di «bene comune» — ossia le condizioni per il libero esercizio della vita individuale, finalità ultime, ergo religiose, incluse — e il rapporto in termini di invasività rispetto alla società di cui è corrispettivo. Lo Stato, l’autorità pubblica, dovrebbe infatti avere come fine, nella prospettiva sussidiaria, quello di aggiungere al bene individuale ciò che l’individuo non può produrre con le sue forze o attraverso le comunità di base e locali in cui è inserito: lo Stato non ha altri fini. Le sue prerogative, almeno in tempi ordinari, sono limitate all’esercizio di tale funzione: nessuna di più. Lo Stato non deve «fare» i cittadini, ma riconoscere e completare il godimento dei loro diritti personali: non riveste alcun ruolo «etico», anche se suo compito è fare rispettare nella sfera pubblica i diritti di natura etica.
Anche le aggregazioni sovranazionali sono da valutare nella medesima prospettiva: che si tratti di imperi o di «società di nazioni» esse hanno senso solo se servono a garantire una maggior libertà ai popoli. Quando invece si mettono al servizio di operazioni ideologiche globali o di grandi reset, che schiavizzano e impoveriscono i singoli, tralignano dal loro ruolo provvidenziale. Come insegnava il venerabile Papa Pio XII (1939-1958), lo Stato vive della pienezza della vita delle società a esso inferiori e non deve limitare la loro esistenza autonoma, né farsene arbitro (cfr. il Radiomessaggio natalizio ai popoli del mondo intero, del 24-12-1944).
Nel capitolo conclusivo («Tramonto o eclissi» dello Stato moderno, pp. 261-270) Pappalardo s’interroga sul futuro di questo organismo — che pare quasi sfuggito al controllo umano e sempre più distante dalla sua funzione essenziale di forma della società — e affronta le ultime tendenze evolutive in materia di dottrina, evidenziandone la sostanziale scarsa incisività su una ligne de force antica che, al di là delle opinioni dei politologi e dei tentativi di aprire spiragli negl’interstizi del mastodonte, prosegue imperterrita e, anzi, pare destinata a tornare ad antiche forme lato sensu tiranniche.
Oscar Sanguinetti