Marco Invernizzi, Cristianità n. 385 (2017)
Gerhard Ludwig Müller, Indagine sulla speranza. Dialogo con Carlos Granados, trad. it., Cantagalli, Siena 2017, pp. 256, euro 19,00
«Non fatevi rubare la speranza! Quella che ci dà Gesù», è l’appello di Papa Francesco con cui inizia il libro del prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede dedicato al grande tema della speranza (p. 13).
Papa Benedetto XVI (2005-2013) aveva ricordato nella sua seconda enciclica Spe salvi, del 2007, che la crisi della fede nel mondo contemporaneo coincide con la crisi della speranza cristiana e aveva prodotto uno splendido percorso attraverso le due grandi rivoluzioni della modernità, quella francese e quella comunista, per spiegare come, sotto la pressione di quelle ideologie, gli uomini avevano cessato di sperare e lo stesso cristiano moderno aveva ridotto la speranza alla propria salvezza, dimenticando una caratteristica fondamentale del cristianesimo, appunto la solidarietà con tutti gli uomini.
È evidente che la mancanza di Dio è il motivo di fondo di questa perdita, perché senza Dio mancano l’origine e la meta. Nell’epoca della modernità Dio è stato sostituito dalle ideologie, che hanno prodotto false speranze e indotto all’errore milioni di uomini, mentre oggi, dopo il 1989, sono venute meno le stesse ideologie e l’uomo si trova solo e disperato come forse mai nella storia.
L’opera del card. Müller viene a darci conferma di questo stato dell’umanità contemporanea: «molti uomini del nostro tempo, non credono più che la storia, inclusa la loro storia personale, abbia una trama, un’origine e un destino. Il passato personale, familiare o della propria nazione lo si sperimenta come una serie di eventi senza alcuna connessione, accontentandosi di piccoli racconti che contengono soltanto speranze rachitiche …» (p. 18).
Dunque, da dove partire? Piccole speranze, piccoli uomini; è allora necessario alzare lo sguardo, guardare in alto, dove troviamo il Signore della storia. Da Dio bisogna infatti partire, sostiene il presule citando Benedetto XVI e il suo discorso del 12 settembre 2006 a Ratisbona, nel quale, secondo il cardinale, l’attuale Papa emerito invitava a ripartire dalla domanda su Dio e a «tenere insieme» i quattro movimenti che avevano fatto grande la civiltà occidentale: «l’interrogarsi del mondo greco, il profetismo ebreo, la fede cattolica e la libertà di coscienza moderna» (p. 20).
Bisogna dunque elaborare e diffondere un «pensiero forte», che trasmetta certezze, ma lo faccia tenendo conto delle fragilità del mondo contemporaneo, delle situazioni di disagio esistenziale di molti giovani e adulti di oggi, del fatto che accogliere la verità che salva è un processo di cui solo Dio conosce esito e tempistica, tutte cose costantemente insegnate da Papa Francesco.
«La nostra società — scrive il cardinale — che si vanta della democratizzazione della cultura e dell’informazione, assiste però impavida alla marginalizzazione di quegli intellettuali che propongono un pensiero forte, alla nascita costante di convinzioni irrazionali e offensive per la loro volgarità, alla diffusione di ideologie distruttive che si impongono con la scusa del politicamente corretto, ai movimenti oscuri di poche persone che detengono il potere economico e che manipolano a propria discrezione le coscienze di gran parte della popolazione» (p. 23).
A questi intellettuali, coraggiosi ed emarginati, il cardinale sembra voler dare un consiglio: non dimenticate il mistero dell’Incarnazione, cioè la persona di Cristo, perché la speranza rinasce se viene posta in una Persona che ha il potere di salvare e di offrire la felicità, che ogni uomo ricerca.
«Credo che nel dialogo con il nostro mondo, così tanto secolarizzato, corriamo il rischio di presentare un cristianesimo ridotto a mero schema di valori e di nascondere l’essenziale: la Speranza in Colui che ha vinto il dolore, il peccato e la morte» (p. 33). Insomma, il cristiano non ha una speranza generica, che nasce da una specie di ottimismo, ma spera in Cristo, persona concreta, uomo e Dio, senza il quale «il cristianesimo si riduce a una filosofia, a una visione del mondo simile alle altre in cui possiamo imbatterci, rinchiudendo l’evento decisivo dell’umanità in un semplice dato sociologico» (pp. 33-34). E ancora aggiunge: «Già Origene, nella sua opera Contro Celso, parla dello scandalo che il fatto dell’Incarnazione ha sempre prodotto in certi credenti che si definivano come l’élite. Com’è possibile che Dio entri nel mondo del sangue, della carne, della corruzione del corpo e della sua decomposizione?» (p. 58).
Invece Dio ci invita a confidare in Lui, non negli uomini. Questo non significa, spiega il cardinale, che dobbiamo diffidare sempre e di chiunque, ma che anche il migliore degli uomini può sbagliare e tradire e, se anche non lo facesse, prima o poi ci lascerebbe soli, perché nessuno è immortale. «Solo Dio rimane sempre al nostro fianco, fino alla morte, anche quando tutti ci hanno abbandonato» (p. 74). Ecco perché la nostra speranza non deve venire meno neanche davanti ai molti scandali che sembrano travolgere la Chiesa, ma che in realtà non le hanno mai impedito, e non lo faranno neppure quelli del nostro tempo, di «continuare ad annunciare con forza il Vangelo, dal momento che la sua forza viene da Cristo» (p. 75).
La Chiesa
Dopo essersi interrogato su che cosa possiamo sperare da Cristo nel primo capitolo (pp. 35-80), nel secondo (pp. 81-158) il card. Müller risponde alla domanda su che cosa si possa sperare dalla Chiesa, che se è santa nel suo Capo rimane peccatrice nelle membra, compresi i vescovi e i sacerdoti. La risposta del prefetto è molto realistica e riguarda tutta la storia della Chiesa, che è nata tradita nel primo collegio apostolico e ha conosciuto periodi tremendi, come per esempio l’alto Medioevo, per quanto riguarda l’esemplarità dei pastori. Egli ricorda come sia impossibile separare la santità, che la Chiesa trasmette ininterrottamente da oltre duemila anni attraverso la Grazia dei sacramenti e la testimonianza dei suoi membri, dalle debolezze e dai peccati di questi ultimi, anche gravissimi.
In questo senso, emerge la provvidenzialità del gesto di richiesta di perdono per i peccati commessi dagli uomini della Chiesa voluta da san Giovanni Paolo II (1978-2005) nel 2000, in occasione dell’Anno Santo. In quell’occasione, infatti, il Papa fece un gesto di straordinaria umiltà, che permette oggi ai cristiani di rivolgersi a tutti gli uomini con una grande libertà, che proviene proprio da quell’atto di purificazione della memoria. Piuttosto, sottolinea il prefetto, sono gli eredi di alcune ideologie che dovrebbero imitare il Papa polacco, chiedendo scusa delle violenze inflitte alla Chiesa durante la Rivoluzione francese o quella comunista, o con le leggi che toglievano i diritti civili ai cristiani, come per esempio nel Messico del secolo XX. Ma ciò non avviene.
Diventa così importante per la nuova evangelizzazione che i cattolici siano consapevoli degli errori commessi nella storia, ma siano anche fieri del tanto di vero, di bene e di bello che la Chiesa ha introdotto nella società attraverso l’evangelizzazione. E in questo senso è giusto ricordare che l’inculturazione della fede può avvenire se vi è una dottrina che a sua volta diventa vita e si incarna nella storia. Il prefetto è molto attento a denunciare come falsa qualsiasi ipotesi di contrapposizione fra dottrina e vita, così spesso usata anche all’interno della comunità cattolica da chi non comprende il legame fra l’una e l’altra: «La dottrina cristiana non è una teoria, un sistema come lo presenta l’idealismo o anche un’ideologia, cioè una composizione di idee umane. […] Il Dio che perdona i peccati, per esempio, è il Dio che riconosciamo anche nella dottrina nella confessione della fede. Per questo, non si può separare la fede in Dio come persona dai contenuti della fede» (p. 116).
È vero che la Chiesa mette sempre la persona prima delle idee, perché sono le persone a essere chiamate alla salvezza eterna, ma ciò non deve far perdere di vista l’importanza dei contenuti della fede. Il cristianesimo non è una dottrina ma ha una dottrina e questa deve essere conosciuta, promossa e difesa dagli errori, perché «l’ortodossia è la condizione per la redenzione e per concepire adeguatamente la vita eterna», mentre «l’eresia danneggia sempre questa relazione personale [fra la persona e Dio (ndr)] perché separa Dio che è la verità dalla rivelazione di questa stessa verità» (p. 117).
Questa dottrina ha permeato di sé la società occidentale fino al 1789; poi, «dalla Rivoluzione francese in poi, i regimi liberali e i sistemi totalitari del secolo XX che si sono succeduti, l’oggetto dei principali attacchi è sempre stato la concezione cristiana dell’esistenza umana e il suo destino. Quando non si è potuto vincere la sua resistenza, si è permesso il mantenimento di alcuni suoi elementi, non però del cristianesimo nella sua sostanza, per cui non era più il criterio di tutta la realtà, e si sono preferite le posizioni soggettive» (p. 124). L’Europa non è così passata dal paradiso terrestre all’inferno, semplicemente perché non potrà mai darsi una società perfetta, ma certamente il mondo occidentale ha conosciuto per due secoli una progressiva disumanizzazione, nonostante il grande progresso materiale. La fede è stata aggredita ed è entrata in crisi, finché la stessa Chiesa ha convocato il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) al fine di riflettere e indicare la via per uscire dalla crisi.
Sul punto il card. Müller è molto netto: la crisi nella Chiesa si manifesta prima del Concilio Vaticano II e i documenti di quest’ultimo sono concepiti proprio per porre rimedio a questa crisi: «si deve affermare con chiarezza che la frammentazione del cristiano affonda le sue radici nella crisi preconciliare. Il processo di perdita dell’integrità della fede mediante il disegno di un cristianesimo light, ridotto alla dimensione sentimentale-emotiva, all’azione politico-solidale e poco più, si era già attivato molti decenni prima del Concilio Vaticano II» (p. 130). E in questa prospettiva Müller sottolinea l’importanza profetica del pontificato di Pio XI (1922-1939), «il Papa che meglio ha compreso il nefasto progetto culturale della mentalità laicista e che gettò le basi per un contrattacco efficace, attraverso un Magistero che sa di essere responsabile di una grande tradizione e che è audace e propositivo» (p.130).
Quale rimedio per uscire dalla crisi, si chiede il cardinale? Come dopo la Riforma del secolo XVI, indica «due chiavi per superare questa crisi: da una parte la condotta di vita seria ed esigente dei religiosi e dei sacerdoti; dall’altra, la formazione dei giovani alla gratuità, alla costituzione di gruppi familiari forti, riconoscendo alle famiglie il loro diritto originario all’educazione» (p. 135).
La famiglia
Si arriva così alla famiglia, secondo Müller «la realtà sociale che meglio esprime la speranza per l’umanità» (p. 161), purché rimanga fedele alla sua origine e non ceda alla tentazione, che sarebbe suicidaria soprattutto per i giovani, di ridursi a «una visione del matrimonio basata sui propri desideri e sentimenti», che non offrirebbe alcuna speranza (p. 163).
La famiglia oggi si trova di fronte a un’autentica sfida, rappresentata dalle tante e diverse «colonizzazioni ideologiche» di cui parla sovente Papa Francesco. Esse mirano a fare del nostro desiderio un idolo, che entra in conflitto con l’antropologia naturale e cristiana, innestando un autentico scontro, nonostante molti, anche cattolici, vogliano evitare ogni contrapposizione. In questo senso «la famiglia è la via della Chiesa», come scrisse san Giovanni Paolo II (1978-2005) nella Lettera alle famiglie, del 1994.
Così, la Chiesa insegna che cosa è il matrimonio e accompagna gli sposi prima della celebrazione e spesso anche dopo, auspicabilmente, come disse Papa Francesco il 25 febbraio 2017 ai partecipanti a un corso sul processo matrimoniale, non soltanto con sei o sette incontri prematrimoniali, ma con un vero e proprio catecumenato, che qualcuno dovrebbe proporre in modo più concreto, per dire che oggi, nel mondo scristianizzato, per «sposarsi bisogna prima andare in seminario».
La società
Ma chi mai potrà restituire speranza al mondo contemporaneo, tecnicamente disperato, cioè privo di qualsiasi prospettiva per il futuro? Qui il card. Müller riprende l’immagine usata da Benedetto XVI di «minoranza creativa», così adatta per descrivere il compito dei cattolici di oggi, che vivono in un mondo che sta morendo e possono contribuire a farne nascere uno nuovo, con alcune specifiche caratteristiche riconducibili al cristianesimo. La realtà della minoranza creativa è sempre esistita nella vita della Chiesa, soprattutto nei periodi a cavallo fra due epoche, come potevano essere la fine dell’impero romano, oppure il mondo europeo dopo la Riforma protestante nell’epoca della scoperta dell’America: «la minoranza creativa, opposta all’“uomo massificato” è un concetto profondamente evangelico» (p. 220).
La minoranza creativa può essere un buon modello per i cattolici di oggi, che vivono dentro un mondo che muore, ma che sperimentano anche l’aurora di un altro che nasce. Bisogna dunque costruire degli ambienti dentro il mondo moribondo, come lievito che possa far fermentare con il loro esempio, imparando soprattutto ad attrarre, come spiega spesso Papa Francesco. Per fare questo, la minoranza creativa non deve perdere di vista alcune virtù fondamentali, indispensabili perché attrattive: «la fiducia, il senso dell’appartenenza, la gioia, la generosità, il riconoscimento della sovrabbondanza di quanto hanno ricevuto, la gratitudine, la responsabilità di lavorare e costruire insieme» (p. 223).
Marco Invernizzi