Ferdinando Leotta, Cristianità n. 118 (1985)
Giorgio Fuà ed Emilio Rosini, Troppe tasse sui redditi, Laterza, Bari 1985, pp. 168, L. 10.000.
«Il cataclisma fiscale» che sconvolge la nazione italiana da poco più di un decennio – cioè, di fatto, a partire dal 1974, quando è entrata in vigore la IRPEF, la imposta sul reddito delle persone tisiche – ha conosciuto, negli ultimi tempi, una fase di recrudescenza, producendo a diversi titoli e secondo diverse modalità reazioni che non accennano a venire meno. Prova ne sia che questa «situazione patologica» – dopo essere stata oggetto di attenzione coatta da parte delle categorie sociali di volta in volta colpite da questa oppure da quella misura fiscale – sembra finalmente interessare gli specialisti, non certo in quanto «addetti ai lavori» ed esclusivamente dialoganti con i loro «simili», ma come «intellettuali organici» del corpo sociale, cioè come fornitori di informazioni elaborate ai loro concittadini obtorto collo interessati alla vasta e non facile problematica.
In questa prospettiva di permanenza e di elevazione del dibattito – non privo di momenti grossolani, soprattutto quando la semplificazione ha troppo vistosamente la meglio sulla semplicità e si pretende indicare qualche dettaglio come soggetto unico dell’intero quadro – si inserisce un volume che, sotto il titolo comune Troppe tasse sui redditi, raccoglie due studi dovuti rispettivamente a Giorgio Fuà e a Emilio Rosini: il primo, nato ad Ancona nel 1919, è docente di politica economica alla facoltà di economia e commercio della stessa città, ha fondato e dirige l’Istao, istituto per la formazione professionale ed economica, ed è al momento presidente della società italiana degli economisti; il secondo – che è nato a Falconara Marittima, in provincia di Ancona, nel 1922, e ha insegnato scienza delle finanze e diritto tributario nella stessa facoltà fino al 1983 – è attualmente consigliere di Stato.
Ridurre le imposte sui redditi è il titolo del contributo del professore Fuà, il quale intende mostrare anzitutto «che il nostro paese è andato recentemente affidando compiti immani alla tassazione dei redditi […] e che si è così determinata una situazione patologica che urge risanare», e quindi si avventura «ad esprimere qualche idea sui modi del risanamento» (pp. 5-6).
La considerazione da cui parte l’economista anconetano è che «si fa tanta attenzione al modo in cui è formulata ed amministrata la tassazione dei redditi e non abbastanza alla dimensione di questa tassazione. Eppure è inevitabile che essa funzioni male finché si pretende di mantenerla tanto gravosa. Lo scandalo primario sta dunque nel volere basare sui redditi un prelievo esorbitante ed è ingenuo poi stupirsi se una pretesa così sballata rimane insoddisfatta. Si potrebbe, anzi, compiere un passo ulteriore ed attribuire l’origine prima dei mali ad un fattore anche più a monte, cioè alla eccessiva dimensione assunta dalla finanza pubblica nel suo complesso» (pp. 5-6).
Infatti, negli ultimi dieci anni – precisa – la imposizione diretta è passata, dal 7,2%, nel 1973, del reddito nazionale netto al costo dei fattori, al 19,5%, nel 1983; il totale delle entrate della pubblica amministrazione è andato dal 36,7% al 57,0%, mentre il totale delle spese è salito dal 41,0% al 64,4% (tabella 1, p. 16).
Per quanto riguarda, poi, la composizione percentuale delle entrate sempre della pubblica amministrazione, le imposte sono passate, nello stesso periodo, dal 19,5% al 34,3% dell’ammontare complessivo di tali entrate, a vantaggio dei contributi sociali, scesi dal 41,1% al 36,1%, e delle altre entrate, calate dal 27,4% al 17,4% (tabella 2, p. 17).
«Siamo dunque di fronte – osserva Giorgio Fuà – a due fenomeni congiunti; una Pubblica Amministrazione che maneggia, attraverso l’entrata e la spesa, una quota rapidamente crescente del reddito nazionale; una fiscalità che si concentra sempre più su una particolare forma di prelievo – cioè l’imposizione basata sui redditi – a preferenza di tutte le altre» (p. 21). Stando così le cose, il pregiudizio politico-culturale che professa la «giustificazione sociale della spesa pubblica», cioè «la presunzione che gli aumenti di spesa pubblica significano di regola una migliore soddisfazione delle esigenze sociali», «va recisamente combattuto»: infatti, «a parte la indefinitezza del concetto di esigenze sociali, si deve notare […] che la spesa pubblica non costituisce la sola via pensabile per soddisfarle. Vasti compiti possono essere lasciati all’azione dell’associazionismo spontaneo», ma, soprattutto, «la Pubblica Amministrazione, come ogni struttura organizzativa, ha i suoi limiti di capacità. Se le si chiede di fare troppo, si ottiene un lavoro mal fatto, cioè nella fattispecie un cattivo prelievo ed un cattivo impiego dei fondi» (pp. 22-23).
La tassazione dei redditi nella sua dimensione attuale produce, inoltre, effetti negativi: causa «effetti di spreco», in quanto molti contribuenti, considerate le alte aliquote, affrontano costi certamente deducibili, ma non sempre convenienti per la economia della loro impresa (pp. 30-33); «effetti di iniquità», riscontrabili, per esempio, attraverso la comparazione del trattamento dei lavoratori dipendenti rispetto a quelli indipendenti (p. 35); nonché «effetti di inciviltà», quali le tendenze a scatenare campagne propagandistiche «per dare la caccia all’evasore»: «basta ricordare il clamoroso convegno indetto dalla UIL il 26 giugno 1984; e il tono che ha avuto nei successivi mesi di ottobre e novembre, la discussione del cosiddetto “pacchetto Visentini”» (pp. 34-36).
Le «vie di uscita» suggerite dall’economista sono di due tipi: dopo avere accennato al passaggio dalla tassazione sul reddito ad altre entrate sostitutive, «immagina» tre meccanismi che potrebbero determinare un nuovo «slancio affettivo» dei contribuenti nei confronti dell’erario, consistenti: a. anzitutto, nel ricostruire la fiducia del cittadino nei confronti dello Stato, in particolare nel fatto che questo impiegherà bene il contributo percepito, «ma nessuno si illude che il cammino sia facile e rapido» (p. 51); b. quindi, nell’offrire al contribuente la possibilità di prendere a suo carico un’opera definita in luogo di partecipare alla spese pubbliche in genere; tale cammino può essere percorso fino ad arrivare a invitare i privati a «gestire in proprio servizi che altrimenti graverebbero sulla finanza pubblica» (p. 52); c. infine, nel consentire al cittadino di ricavare soddisfazione dal fatto di elargire il tributo: «propongo all’esame l’ipotesi […] che lo Stato si metta domani a conferire apposite onorificenze a chi sostiene le finanze pubbliche» (p. 53).
La giustizia fiscale e le altre virtù cardinali è il titolo dello studio redatto dal consigliere di Stato Emilio Rosini, che prende le mosse dalla «opinione largamente radicata» secondo cui «le imposte sono pagate prevalentemente […] dai lavoratori dipendenti» e che «ciò avviene perché la maggior parte dei soggetti appartenenti alle altre categorie evade il fisco» (p. 61), e quindi si preoccupa affinché la lotta alla evasione – che «è, perciò, nel programma di ogni governo» (p. 63) – venga condotta nel rispetto del principio dell’accertamento in base alla contabilità sancito dalla legge di delega n. 825 del 1971, e senza cedere al «fascino della giustizia sommaria» (pp. 117- 119). Egli non esita ad affermare che il principio della determinazione analitica del reddito – introdotto dalla riforma del 1973 – ha enormemente frenato l’attività di controllo degli uffici: «Se si considera che nel 1984 l’amministrazione finanziaria si è proposta di controllare 224.000 dichiarazioni su più di 24 milioni che ne sono state presentate, e che negli anni più recenti non ne ha controllate più del sei per mille, il numero delle verifiche effettuate nel 1965 [2,9 milioni circa] sembrerebbe incredibile se non fosse evidente che non erano minimamente approfondite» (pp. 72-73).
Sulla base di questo dato, fa notare che «è stato [quello dell’adozione degli accertamenti analitici] probabilmente un passo più lungo della gamba»: perciò, se ora «s’incomincia a intravvedere un tipo di controlli fiscali adeguato al tipo di normativa da attuare, […] la prassi degli accertamenti approssimativi e arbitrari è ancora fiorente, ma si sa che dovrebbe essere abbandonata. Tornare a legittimarla, come a scopo di lotta all’evasione si sente suggerire, significherebbe rinunciare a quel poco o tanto di progresso che s’è fatto, nonostante tutto» (p. 114). Infatti, «una perdita di gettito è preferibile all’instaurazione di un diritto tributario dell’emergenza».
«E non scandalizzi l’allusione al recente imbarbarimento del nostro diritto penale. Anche nel campo del diritto tributario si manifesta la tendenza ad abbandonare i principi giuridici posti a garanzia di valori fondamentali pur di ottenere risultati immediati» (pp. 115-116).
A conclusione Emilio Rosini propone l’ampliamento del ruolo della imposizione indiretta, alla luce del fatto che «i livelli di reddito e i modelli di consumo sono molto cambiati» anche rispetto a un passato recente e con la premessa che esso però «non è proponibile senza che congiuntamente si aboliscano i privilegi di cui godono i redditi patrimoniali, in cui si traducono i risparmi» (pp. 144-145).
Il volume – già ampiamente commentato e bene accolto anche dal pubblico – contiene dunque, autorevolmente esposte, non solo verità di fatto ma anche di principio, tali da qualificare – e non è inutile – la protesta di chi denuncia la «persecuzione fiscale» e se ne dichiara vittima. Così, per esempio, il professore Fuà invita a meditare sulla esistenza di istanze costanti della natura umana e che tali permangono indipendentemente dal presentarsi di nuove esigenze e di nuove circostanze: una riflessione su questo punto porta a una radicale contestazione della utopia socialcomunistica, che nega la esistenza di una natura umana immutabile nei suoi fondamenti e pretende di sostituirla con una nozione di condizione umana» in perenne evoluzione sotto l’effetto rivoluzionario, tra l’altro, del diritto positivo. Così, ancora, lo stesso autore porta – partendo da prospettive politico-economiche ispirate al liberismo ed evocate in polemica con la ipertrofia statalistica, ma superate con un «appello all’immaginazione» – a riconquistare ipotesi sociopolitiche se non pre-capitalistiche almeno paleo-capitalistiche, come quella della «nobilitazione per meriti fiscali». Così, infine, il consigliere di Stato Rosini, incitando a tenere fede al principio della tassazione del reddito effettivo, a non cedere al fascino della giustizia fiscale sommaria, a non rinunciare alla tutela giuridica del contribuente per non «aprire una voragine per chiuderne un’altra, con la probabilità che restino spalancate ambedue», (p. 119), ripropone un sostanziale rispetto, prima ancora che per la riforma tributaria e per il suo dettato, per l’uomo e quindi, almeno implicitamente, per la legge naturale e per il suo Autore.
Ferdinando Leotta