Giovanni Cantoni, Cristianità n. 155 (1988)
Giovanni Bensi, L’Afghanistan in lotta, Punto-SPES, Roma 1987, pp. 192, s.i.p.
Nel novembre del 1987, a Roma, nella Sala del Cenacolo della Camera dei Deputati, viene presentato uno studio sulla «questione afgana». Edito come numero monografico della rivista quindicinale Punto-SPES (anno 3, n. 1-2, 1/15-3-1987), e brevemente introdotto dall’on. Silvia Costa e dal sen. Giulio Orlando, si intitola L’Afghanistan in lotta ed è opera del giornalista Giovanni Bensi, che è collaboratore di diverse testate e che ha già pubblicato L’incognita jugoslava (Pan, Milano 1975), Mosca e l’eurocomunismo («La Casa di Matriona», Milano 1978) e La pista sovietica. Terrorismo, violenza, guerra e propaganda nella teoria e nella prassi di Mosca (SugarCo, Milano 1983).
La qualificazione dell’autore — capo-servizio del dipartimento di lingua russa di Radio Liberty, di Monaco di Baviera — e la sua esperienza — dal 1982 ha visitato più volte il paese oggetto del suo studio, con periodi di permanenza protrattisi dai due ai tre mesi —, sostenute da inconsuete conoscenze linguistiche e dall’uso di categorie interpretative non grossolane, fanno de L’Afghanistan in lotta uno strumento indispensabile per accostare in modo non superficiale la «questione afgana». Infatti il testo permette, da un lato, di colmare la scarsa e disorganica informazione su di essa generalmente veicolata dai mass media e, dall’altro, di isolare — almeno nelle grandi linee — gli elementi di disinformazione che non mancano di accompagnarsi anche a tale esiguo ed episodico notiziario: contributo importante, soprattutto perché, in questa miscela di informazione e di disinformazione, si può rilevare il quotidiano incremento della componente «disinformazione» nella misura in cui la Resistenza afgana vince e consolida la sua vittoria.
L’Afghanistan in lotta si articola in due parti, una storico-cronachistica e una descrittiva dei protagonisti del dramma ormai quasi decennale.
Nella prima parte — la più corposa (pp. 15-65) — vengono indicati i passaggi attraverso i quali si è giunti all’invasione sovietica, esordendo con una sintetica esposizione dei tratti salienti della storia afgana, «un paese povero, ma strategicamente importante» (p. 15) , dalla metà del secolo XVIII quando diventa uno Stato indipendente sotto Ahmad Shah con il nome di Regno dei Durrani, indipendenza confermata nel 1919 dall’emiro Amanullah-Khan dopo periodi di espansione e di «pacifica influenza» (p. 17) britannica, che si conclude con una guerra e con la sconfitta degli inglesi. Nel maggio dello stesso 1919 inizia la storia dei rapporti con l’Unione Sovietica, narrata fino al colpo di Stato del principe generale Mohammad Daud, del 1973, realizzato con la partecipazione del partito comunista locale e che porta alla proclamazione della repubblica. La transizione al regime comunista avviene nel 1978 con un primo golpe che insedia al potere Nur Mohammad Taraki, il quale, con l’attuazione della riforma agraria, «distrugge la struttura tribale tradizionale con tutti i suoi legami e intrecci di parentele e con i suoi doveri di solidarietà fissati nel pushtunwalay, il codice d’onore degli afghani» (p. 30). Per resistere alla collettivizzazione — nonché alla riforma scolastica e all’acuirsi della propaganda antireligiosa — si raccolgono i primi gruppi di insorti e si verificano i primi episodi di fuga nel vicino Pakistan, mentre cresce il numero dei «consiglieri» sovietici presenti nel paese, a metà del 1979 già quattromila. Di fronte alle difficoltà create dall’insurrezione dilagante si produce un secondo golpe comunista: nel settembre del 1979 Hafizullah Amin destituisce Nur Mohammad Taraki, ma il quadro della situazione non migliora sì che il 27 dicembre dello stesso anno le truppe sovietiche portano al potere un altro comunista, Babrak Karmal. Alle timide reazioni internazionali corrispondono un consistente incremento e un consolidamento della Resistenza, che — respingendo periodici richiami delle sirene comuniste — mette l’Unione Sovietica in seria difficoltà, con riflessi sul governo fantoccio di Kabul, nel quale il potere — nella seconda metà del 1986 — passa da Babrak Karmal a Mohammad Najibullah, capo del KHAD, il KGB locale. E siamo alla cronaca.
Dopo aver narrato come si è giunti all’invasione sovietica, Giovanni Bensi passa ai protagonisti del dramma afgano, a partire dalle forze dell’URSS presenti nel paese (pp. 67-85), trattando — fra l’altro — delle truppe complessivamente impegnate, valutate in circa centocinquanta-centosessantamila uomini, e del denaro investito, sempre da parte sovietica, stimato in cinque miliardi di dollari all’anno, mentre l’aiuto alla Resistenza, proveniente dall’Occidente, dalla Cina Popolare e dai paesi arabi, si aggirerebbe fra i settecento e gli ottocento milioni di dollari per lo stesso periodo. E quindi questione anche delle armi chimiche e di quelle «terroristiche» antiuomo, le mini-lovushki, «mini-trappole», «piccole mine di plastica, che scoppiano al minimo contatto, di solito quando vengono inavvertitamente calpestate», e il cui «risultato è lo spappolamento degli arti inferiori che successivamente devono essere amputati»: «Particolarmente numerosi — nota l’autore — fra le vittime delle mini- lovushki, che vengono spesso lanciate in prossimità dei villaggi, sono i bambini. Essi le prendono in mano scambiandole per giocattoli e ne ricavano ferite devastanti alle braccia, al viso e al petto» (pp. 73-74).
Dopo le forze sovietiche vengono passati in rassegna i gruppi della Resistenza (pp. 87-114), descritti sia nella loro varietà e rispettiva consistenza che nella loro evoluzione politica, e tanto nel mondo dei profughi quanto in quello dei combattenti, i mujahidin, a proposito dei quali è messa in risalto l’importanza delle motivazioni religiose nonché il tematico rifiuto di pratiche terroristiche.
Ai capitoli strettamente informativi ne seguono altri con abbondanti elementi anche «di colore», costituiti da testimonianze raccolte fra i profughi afgani (pp. 129-143), fra i transfughi dell’Armata Rossa (pp. 115-128) e fra «ospiti» felicemente sopravvissuti delle prigioni del regime comunista (pp. 145-156), testimonianze di cui le conoscenze linguistiche dell’autore permettono di fruire nel modo più immediato.
Prima della conclusione — una scheda economico-sociale sull’Afghanistan (pp. 179-184) — si situa uno dei capitoli di maggior interesse dello studio di Giovanni Bensi, e cioè quello relativo a come è vissuta in Unione Sovietica l’«avventura afgana» (pp. 157-178). In esso si documenta il disagio diffuso in tutta l’URSS, ma anche — e soprattutto — il fatto che «in Asia Centrale sovietica è in corso un processo di rinascita religioso-nazionale di vasta portata» e che «la guerra in Afghanistan darà un’ulteriore spinta a questo processo» (p. 178), nella misura in cui troveranno eco parole come quelle dette all’autore da Burkhanuddin Rabbani, uno dei capi della Resistenza: «Noi vorremmo che i semplici russi, i semplici soldati sovietici, costretti a combattere in Afghanistan, non eseguissero gli ordini criminali loro impartiti dai loro comandanti. Noi sappiamo che essi non sono liberi di protestare contro le loro autorità, ma noi vorremmo spiegare loro che il libero popolo afghano non permetterà a nessuna potenza straniera di soggiogare la sua patria. Noi speriamo che i cittadini sovietici, invece di venire nel nostro paese ad uccidere i nostri compatrioti e a morire sotto il piombo dei mujahidin, incomincino a combattere contro il sistema totalitario nel loro paese. Se in questa lotta essi andranno incontro alla morte, sarà una morte eroica, ma se moriranno in guerra contro il popolo afghano, sarà una morte vergognosa» (pp. 142-143). E, almeno a partire dalla rivolta di Alma-Ata del 17 e del 18 dicembre 1986, sembra che in Asia Centrale non manchi chi preferisce «una morte eroica» a «una morte vergognosa».
Giovanni Cantoni