Domenico Airoma, Cristianità n. 407 (2021)
Relazione, annotata, tenuta il 1°-8-2020, durante la Scuola Estiva San Colombano, organizzata da Alleanza Cattolica sul tema Nostalgia dell’avvenire. «Cum Petro, sub Petro», verso la civiltà cristiana del terzo millennio. Giovanni Cantoni (1938-2020), a Tregasio di Triuggio (MB) dal 31-7 al 2-8-2020 (cfr. la cronaca in Cristianità, anno XLVIII, n. 405, settembre-ottobre 2020, pp. 86-87).
Il perché di una scelta
«[…] se la separazione fra fede e vita non è mai sufficientemente denunciata e condannata, vi è un’ulteriore frattura cui ovviare in modo tematico, ed è precisamente quella fra pensiero e azione. A esse si deve porre rimedio pensando l’azione, cioè anzitutto vivendo nell’unità del soggetto operante l’articolazione gerarchica fra contemplazione e azione, quindi combattendo, attraverso la composizione armonica e l’articolazione organica, non attraverso la giustapposizione meccanica, l’ipotesi di “uomini solo d’azione” e di “uomini solo di pensiero”» (1).
La scuola contro-rivoluzionaria è la risposta più adeguata alle esigenze dell’ora presente. Non un contrasto episodico o superficiale alla Rivoluzione, ma una reazione radicale e globale, e soprattutto, il modo per condurre una tale reazione. Giovanni Cantoni la incontra — provvidenzialmente — nel cercare la strada per restaurare l’Ordine; e con la scuola contro-rivoluzionaria — i «nonni» in biblioteca — incontra, anche personalmente, il pensatore e uomo d’azione brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995). E nell’incontro con tale scuola e con siffatto maestro matura la necessità di un’alleanza, un foedus catholicum,fra uomini contemplativi e in azione, dunque accomunati dal modo con cui «agiscono il pensiero».
La Contro-Rivoluzione riassunta nell’icona di San Giorgio
«La lotta di San Giorgio con il drago può essere assunta come archetipo della battaglia contro-rivoluzionaria.
«[…] Tutto si esaurisce in questo quadro e, per altro, questo quadro sintetizza mirabilmente, ci pare, il tutto della Contro-Rivoluzione, della lotta per la Restaurazione. Ricordiamolo e impariamo a leggerlo e a coglierne la ricchezza enorme di lezioni che se ne possono trarre» (2).
L’attenzione deve essere portata alla scena del suo insieme e ai singoli personaggi. L’icona richiama l’importanza del riferimento al quadro grande, dove vi è una prospettiva e una gerarchia; e soprattutto un movimento.
È una composizione di luogo che ci serve per meditare sulla nostra condizione di contro-rivoluzionari e per misurare la qualità del tempo, la direzione nostra e del nostro prossimo e la condizione degli altri protagonisti.
«Nell’icona tradizionale sono presenti diversi personaggi, diversi attori, che raffigurano realtà diverse. San Giorgio anzitutto, l’uomo virtuoso, che lotta con il Demonio, per la liberazione di una principessa che assiste allo scontro, mentre dall’alto una mano benedice. Il cavaliere, armato di tutto punto, cavalca un focoso destriero e colpisce con la lancia il drago.
«Le diverse raffigurazioni pittoriche non sono che variazioni su questo tema, di cui ci pare opportuno proporre una lettura controrivoluzionaria, non dimenticando l’importanza che ha un’immagine nel ricordare un’idea, e la possibilità di correggere un’esposizione anche sul fondamento di un’immagine tradizionalmente costruita.
«[…] San Giorgio è il combattente della Contro-Rivoluzione, cioè un uomo tendente alla santità, attraverso il culto e la coltivazione della propria “terra”, della propria umanità (Giorgio da gheorgòs, agricoltore, coltivatore). Il drago talora rappresentato con un’unica testa, talora con più, è figura della Rivoluzione, una nella sua essenza e molteplice nelle sue manifestazioni. La principessa da liberare è la città cristiana da restaurare, mentre la mano benedicente è l’indispensabile grazia di Dio.
«San Giorgio ha un’arma con cui colpisce il mostro: la lancia, la dottrina vera, la verità; e un aiuto animale: il cavallo, che gli dà un modo, un ritmo di lotta, un galoppo che è strategia e un trotto che è tattica» (3).
In questa icona, in definitiva, abbiamo un quadro da biblia pauperum, una sorta di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione per illetterati (4).
Descrive un’azione, anzi due: un’azione e un ritmo di degrado, un’azione (re-azione) e un ritmo di restaurazione.
E due dinamismi: un mysterium iniquitatis — che è fatto di orgoglio e sensualità —, e un mysterium pietatis — che è fatto di accettazione, di ossequio, di collaborazione —, che coinvolgono sia il singolo che la società, la civitas hominum.
Un quadro che è dramma ed esame di coscienza
Il tutto rappresenta un dramma personale, sociale, storico, metafisico, che ha un suo movimento e con il quale ciascuno è chiamato a confrontarsi; un quadro che va costantemente «ricomposto». E ciò perché mutano sia i protagonisti sia l’intero contesto.
Lo sforzo che siamo chiamati a compiere in questa ri-composizione del quadro riguarda innanzitutto noi stessi: dove ci troviamo? Dove e in quali condizioni sono gli altri protagonisti? Chi occupa la scena? Qual è la prospettiva giusta in cui collocarsi?
La Contro-Rivoluzione come metodo: il cavallo e le redini
Il cavallo è il personaggio più ignorato, il più trascurato nella lettura dell’icona di San Giorgio; è il grande assente da tutte le meditazioni e da tutte le considerazioni teoriche della Contro-Rivoluzione del nostro tempo.
Il cavallo è figura del modo dell’azione contro-rivoluzionaria: come fare. Non che cosa fare, ma come fare.
Il cavallo ha molteplici velocità, è insieme la strategia e la tattica, è lo strumento della lotta, lo strumento del nostro modo di condurre la lotta, che ci permette di guardare da un punto di osservazione po’ più in alto.
Ci si potrebbe chiedere: che cosa mancherebbe, in tesi, a san Giorgio? Niente, assolutamente. Ma il fatto che ci sia e che abbia certe caratteristiche, ci aiuta ad approfondire la nostra azione e il discorso sulla nostra azione.
Il cavallo rappresenta il come, il metodo; rappresenta, per qualche verso, lo strumento con il quale ci dobbiamo sforzare di condurre una certa battaglia.
È molto importante che questo strumento vi sia. Dall’altra parte, infatti, l’avversario e lo strumento da lui utilizzato coincidono; dalla parte della Contro-Rivoluzione, invece, ci troviamo di fronte a un personaggio che è una sola cosa con gli strumenti che usa; egli li utilizza senza che facciano parte organica del suo modo di essere. Il cavaliere della Contro-Rivoluzione non combatte un «cattivo a cavallo di un animale», ma un male che è identificato con il suo modo stesso di agire.
L’osservazione è estremamente importante, perché chiarisce fisicamente la prospettiva secondo la quale, per la Rivoluzione, la prassi coincide con la dottrina, e la dottrina è la prassi (5).
Il cavaliere –– dicevamo –– è invece indipendente dagli strumenti che utilizza; però egli ha un metodo per avvicinarsi alla lotta e per lottare: non solo si prepara spiritualmente e si procura l’arma per colpire l’avversario, ma si fornisce anche di un metodo per avvicinare l’avversario.
Non lo affronta sul suo stesso terreno, al suo stesso livello. Al contro-rivoluzionario non basta combattere; deve anche fare delle scelte, prima spirituali, poi dottrinali e, infine, operative.
Le decisioni operative sono fisicamente rappresentate dalle redini con le quali il cavaliere governa il cavallo: le istruzioni per l’uso delle redini sono contenute in quel manuale «del fare» (6) che è Rivoluzione e Contro-Rivoluzione del «professor Plinio» (7).
Il cavallo è un personaggio assente in tante considerazioni fatte sulla situazione del nostro mondo, anche da parte di persone acute e con la capacità di identificare il nemico che, però, si sono curate poco del problema di come combattere una certa battaglia e si sono interessate, quasi esclusivamente, della descrizione dei suoi caratteri, dandoci spesso di essa una rappresentazione fatta di mozione di affetti e di esaltazioni «romantiche» fini a sé stesse.
Nell’icona e nel cavallo vi è pure il compendio delle azioni sbagliate.
«Gli errori da evitare sono, da un lato l’estremismo infantile e provocatorio, il “dogmatismo”, e dall’altro il “moderatismo”, l’“opportunismo”; errori opposti ma simili, da combattere previamente e con ogni cura.
«[…] L’estremismo infantile e provocatorio è quell’atteggiamento che si blasona di un fraseggiare contro-rivoluzionario, acriticamente assunto, con cui coprire inazione o, peggio, azione avventata ed esclusivamente sentimentale e irosa, e che, per non aver studiato “la Rivoluzione, l’Ordine e la Contro-Rivoluzione” e per non ricordare che “anche la Contro-Rivoluzione è un processo” (de Oliveira), non disdegna l’uso di metodi rivoluzionari, provoca danni spesso gravi ed è in sostanza, come diceva De Maistre, “una rivoluzione di segno contrario”. Si fonda cioè, in ultima analisi sulla volontà dell’uomo, è quindi volontaristico, disprezza la realtà e commette dunque errori di fatto, sottovaluta il carattere mistico e misterioso della Chiesa e commette dunque errori di principio, perché sceglie i princìpi a suo piacere. Pretende anche dagli uomini più del dovuto, ottenendo come risultato di non conseguire neppure l’indispensabile. In ultima analisi, non “rannoda i legami sociali invece di spezzarli” (de Maistre) perché non unisce attorno alla verità, ma a un atteggiamento verso la verità.
«[…] Al contrario, il “moderatismo”, l’“opportunismo”, è un atteggiamento caratterizzato da un’autentica passione unitiva, fa di ogni erba un fascio, e pur di unire tradisce o compromette i princìpi. […] È un genere particolare di trasbordo ideologico, il cui esito è quello di introdurre arbitrariamente l’uso della prudenza, virtù che media fra i princìpi e le azioni, fra i princìpi stessi, aprendo la via al compromesso e al cedimento.
«[…] Il contro-rivoluzionario, anzitutto, è estremista e non moderato, ma il suo estremismo non è individualistico, sentimentale o volontaristico, ma è l’estremismo della verità integrale. Il suo estremismo si ferma qui, attorno alla verità oggettiva, non dilatata oltre misura, ma neppure costretta alla sua misura individuale.
«[…] Si appoggia perciò alla verità più centrale e non cerca avventure esotiche. Fondando su questa verità, che è la verità della Chiesa, non si isola né si fonde con gli altri, ma si affianca a loro nelle lotte indispensabili e necessarie. […] Collaborando a ogni attività reazionaria […] opera perché la reazione diventi consapevole, cioè si trasformi in Contro-Rivoluzione e, anche se non comanda, deve avere la coscienza di guidare, in quanto parte dell’avanguardia contro-rivoluzionaria» (8).
La Contro-Rivoluzione come risposta «occasionata» e non speculazione astratta e manualistica
Lo sviluppo dottrinale del magistero ecclesiastico avviene non solo ma anche «[…] in funzione delle diverse eresie che vengono sorgendo nel corso della storia» (9). Lo schema è quello della sfida e della risposta(10). Vi sono dei contrasti, da essi nasce un approfondimento, dall’approfondimento viene la legittima enunciazione, magari negativamente, cioè attraverso la condanna di un errore, della verità opposta. Il contro-rivoluzionario si comporta analogamente: individua l’errore e si comporta evidentemente come la Chiesa, presta particolare attenzione al Magistero e afferma le sue tesi in funzione degli errori della Rivoluzione. La risposta a singole situazioni negative a un certo punto ha costretto la Chiesa, a causa del loro moltiplicarsi e del loro mostrarsi globalmente, a riproporre la dottrina positivamente. Non si risponde più soltanto con il contrasto a questo o quell’errore, ma di fronte al carattere totalizzante, globalizzante e panico dell’errore si risponde con la riaffermazione globale della verità: e questo è l’itinerario della cosiddetta Nuova Evangelizzazione.
La decisione deriva da una situazione storica in cui il moltiplicarsi degli errori rende meno efficace la denuncia di ogni singola situazione, richiedendo invece la riaffermazione globale e, quindi, un inizio nuovo di inculturazione, una nuova inculturazione di fronte al successo storico, o al successo ampio nella storia, di questa crisi di rigetto della prima evangelizzazione e della conseguente inculturazione. Vi è stato un reagire momentaneo — nel senso di episodico — di fronte agli errori, poi un organizzarsi della reazione. L’esame attento della stessa letteratura cosiddetta contro-rivoluzionaria ci permette di fare questo genere di considerazione: si è passati dalla risposta a questo o a quel punto a una risposta sempre più organizzata e sempre più globale. Vi sono una «patristica» e una «scolastica» contro-rivoluzionarie.
La Contro-Rivoluzione, però, non si esaurisce in un manuale che contiene già tutte le risposte. Non vi erano in Vandea (11), in Valtellina (12), in Tirolo (13), in Navarra (14), fra i sanfedisti (15), scuole in cui si studiava un catechismo contro-rivoluzionario: vi erano signori, uomini, persone, ambienti che vivevano all’interno di un mondo ordinato, positivamente soddisfacente, conformemente alla rappresentazione o alla trascrizione dell’Ordine. Amavano l’Ordine, e quindi lo difendevano. Quest’ordine difeso li soddisfaceva nel senso che coinvolgeva tutta la loro esistenza. Implicitamente si rendevano conto che l’attacco sferrato non era solo un disturbo occasionale.
La prova che costoro non conoscono nel senso concettuale, ma intuiscono nel senso proprio del termine, «la Rivoluzione, l’Ordine e la Contro-Rivoluzione nel loro spirito, nelle loro dottrine, nei loro rispettivi metodi» (16) –– come è proprio del contro-rivoluzionario ––, la si ricava dal fatto che, se il giudizio sul disturbo fosse un giudizio contingente e non si avesse l’intuizione che è coinvolto tutto un modo di stare al mondo, non si rischierebbe la vita.
Se il problema fosse soltanto che viene portata via la pecora — anche se per la pecora si fanno molte cose — non si metterebbe a repentaglio la propria vita. Invece la si rischia quando s’intuisce che nel ratto della pecora è implicito ben di più. Allora ciò fa intendere che vi è una comprensione globale, che vi sono comportamenti, anche qui, «nel loro spirito, nelle loro dottrine, nei loro rispettivi metodi».
La Contro-Rivoluzione come eco fedelissima del Magistero
Fatte queste premesse, è dato anche comprendere per quali ragioni la scuola contro-rivoluzionaria presenti la stessa struttura del Magistero della Chiesa, condivida la medesima lettura del tempo e della storia e, talora, riproponga la medesima terminologia.
«[…] Rivoluzione e Contro-Rivoluzione è un catechismo reso “affidabile” dalla concordanza strutturale con il Magistero tradizionale, al quale fa sostanzialmente eco» e ciò è provato «non solo dall’uso di prospettive e di espressioni del Magistero del tempo precedente o dello stesso periodo in cui è vissuto l’Autore, ma pure, e soprattutto, dall’utilizzo di prospettive e di espressioni ampiamente consonanti, quando non coincidenti, con quelle del tempo seguente, posteriore alla pubblicazione dell’opera, cioè proprie del Magistero vivente» (17).
La Contro-Rivoluzione come mentalità (giro mentale)
Ciò che caratterizza, dunque, il contro-rivoluzionario, non è il beau geste, ma è il pensare l’azione. Non è semplicemente un reazionario, bensì un reazionario consapevolmente radicale. Per lui, la Rivoluzione non coincide con piccoli episodi che guastano il suo modo di vivere, ma è quanto è soggiacente, nel profondo, rispetto a tutti questi piccoli episodi: è una visione del mondo. Ed è una visione del mondo che comporta lo sforzo di interpretare e di giudicare gli avvenimenti, secondo quella prospettiva drammatica racchiusa nell’icona di san Giorgio. Non può che essere, perciò, una prospettiva radicale e totalizzante.
«Fa di questo amore e di quest’odio — insegna il professor Plinio — l’asse intorno al quale gravitano tutti i suoi ideali, le sue preferenze e le sue attività» (18).
La Contro-Rivoluzione come disposizione interiore
La Contro-Rivoluzione è un processo, lo si è visto, che si nutre di un dinamismo opposto a quello che muove la Rivoluzione, il dinamismo dell’amore, il mysterium pietatis.
Nella Preghiera infuocata del bretone san Luigi Maria Grignion di Montfort (1673-1716) troviamo i tratti caratteristici che dovranno avere i suoi figli per «liberare» la Vergine e rimettere sul trono, anche delle società, Cristo Re: «Uomini totalmente dedicati a te per amore e disponibili al tuo volere, uomini secondo il tuo cuore. Non deviati né trattenuti da progetti propri, realizzino tutti i tuoi disegni e abbattano tutti i tuoi nemici, come novelli Davide con in mano il bastone della Croce e la fionda del rosario» (19).
La Contro-Rivoluzione come ascesi soprattutto personale, prima ancora che sociale
La lettura «drammatica» dell’icona di san Giorgio ci fa comprendere che vi è stato un «prima», un momento in cui l’uomo ha deciso di montare a cavallo, di diventare un «cavaliere». Sta a noi decidere, ogni giorno, di salire sul cavallo e di combattere il drago. Qui e ora. Come hanno fatto tanti prima di noi, imbracciando il fucile o le armi della battaglia culturale.
«A proposito della “realizzazione”, dell’inveramento di una tale Cristianità, il Catechismo della Chiesa Cattolica, pubblicato dal Papa venerabile Giovanni Paolo II nel 1992, al n. 1888, in un paragrafo intitolato significativamente La conversione e la società, afferma: “Occorre, quindi, far leva sulle capacità spirituali e morali della persona e sull’esigenza permanente della sua conversione interiore, per ottenere cambiamenti sociali che siano realmente a suo servizio. La priorità riconosciuta alla conversione del cuore non elimina affatto, anzi impone l’obbligo di apportare alle istituzioni e alle condizioni di vita, quando esse provochino il peccato, i risanamenti opportuni, perché si conformino alle norme della giustizia e favoriscano il bene anziché ostacolarlo”» (20).
La complessità dell’ora presente e l’attualità del metodo e dello stile contro-rivoluzionario
La complessità dell’ora presente deriva dal fatto che ci troviamo alla fine di un percorso. La difficoltà sta nel capire dove dirigerci: non vi è un sentiero già segnato.
È indispensabile — mai come in questo frangente — alzare lo sguardo oltre la corrente: ritornare al senso del tempo e della storia; alla filosofia e alla teologia della storia. E in questa operazione la prospettiva contro-rivoluzionaria diventa essenziale.
La filosofia della storia è quel filo rosso che descrive l’andamento della città dell’uomo fra la civitas diaboli e la Gerusalemme celeste (21): essa descrive l’esito di scelte. Il problema dell’ora presente è, invece, proprio la scelta. Occorre, allora, indirizzare lo sguardo verso un livello superiore, quello della teologia della storia,che orienta la scelta alla luce del destino ultimo dell’uomo.
Dio e storia, tempo ed eterno, sembrano realtà inconciliabili, ma non è così. «Il tempo, la storia, non contengono l’eternità, ma quest’ultima è entrata nel tempo e nella storia dandole il senso» (22).
L’ingresso dell’eterno nel tempo e nella storia porta con sé pure un dramma, quello della condizione dell’uomo e della sua libertà: rispondere alla Rivelazione –– «Io sono la via, la verità, la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv. 14,6) ––, conformarsi a quel senso, cioè al Logos, oppure opporvisi.
«Quando ho parlato della storia celeste come prologo della storia terrena e poi sono passato a trattare della storia moderna, ho costruito tutta l’involuta tragedia del destino umano sul fatto che esiste una doppia rivelazione: la rivelazione di Dio all’uomo e la rivelazione di risposta dell’uomo a Dio. […] Il destino storico dell’uomo è tutto permeato da questa rivelazione di risposta dell’uomo a Dio» (23).
Il parametro di valutazione e di giudizio delle opere dell’uomo nella storia non può essere, dunque, il successo o l’insuccesso. Il tempo e la storia sono destinati, per loro natura, all’insuccesso. Ma l’«[…] insuccesso della storia non vuol dire affatto che la storia sia senza senso, che si svolga nel vuoto» (24); il senso è dato dal rapporto con l’eterno, da quel reditus che siamo chiamati a compiere, fuori dalla storia (25).
«È nostro compito in ciascun periodo, in ciascun istante del nostro destino storico, definire il nostro rapporto con la vita e con i compiti storici al cospetto dell’eternità e davanti al tribunale dell’eternità. Quando impostiamo il destino umano e storico nella prospettiva dell’eternità, il futuro ci appare non più reale del passato, il presente non più reale del passato e del futuro» (26).
«La storia non è semplicemente un progresso necessario verso il meglio, bensì un evento di libertà, ed anzi un combattimento fra libertà che si oppongono fra loro, cioè, secondo la nota espressione di sant’Agostino, un conflitto, fra due amori: l’amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé, e l’amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio (cfr. S. Agostino “De civitate Dei”, XIV, 28)» (27).
La Contro-Rivoluzione è, dunque, al contempo, chiave di lettura di questo dramma e bussola per orientarsi nelle scelte da fare in una condizione di fine-Cristianità; pur essendo nata in una particolare epoca storica, ha tuttavia assunto un significato paradigmatico. È la bussola che consente di orientarsi e di pesare gli eventi in base alla loro «qualità metafisica».
La Contro-Rivoluzione, come metafisica della storia, insegna che ciò che è irrisolvibile nell’ambito della storia si risolve oltre i confini della storia, e questo è il maggior argomento per dimostrare che la storia non è assurda, che la storia ha un senso superiore.
La Rivoluzione è anch’essa metafisica, nella sua essenza, perché è negazione di ogni fine esterno alla storia. È l’«asservimento al corruttibile e l’odio per l’eterno» (28).
Oggi viviamo al massimo grado questa contrapposizione. L’odio per l’eterno trionfa e il nichilismo senza senso ci soffoca; e però il senso –– la strada –– lo si può ritrovare solo «riaprendo» all’eterno la storia, anche la nostra piccola storia.
Ogni evento va letto in questa prospettiva e possiede in sé un valore o un disvalore solo se rapportato a questa prospettiva di confluenza dello storico nell’eterno, a questa doppia rivelazione (Dio-uomo e uomo-Dio).
La Contro-Rivoluzione non può non ripartire dalla libertà dell’uomo e dal suo cuore: dove albergano le tendenze se non nel cuore dell’uomo?
Soprattutto in una condizione in cui la Rivoluzione sembra aver trionfato e la Cristianità è ridotta a debolissime sopravvivenze, sempre più tendenti a coincidere con piccole comunità, è decisivo conservare uno spirito e un cuore contro-rivoluzionario: aiuta a inquadrare anche il più piccolo gesto in una chiave eterna, di salvezza di sé stessi e di chi ci è stato affidato. Il reditus,infatti, si gioca anche sulla risposta a una domanda che ci verrà posta: «Che ne è del tuo fratello?» (Gn. 4,9).
Decisiva è, dunque, la battaglia per difendere la libertà; una libertà che ci è indispensabile per ricostruire.
«L’uomo non è libero nella misura in cui non dipende da nulla o da nessuno: è libero nell’esatta misura in cui dipende da ciò che ama, ed è prigioniero nell’esatta misura in cui dipende da ciò che non può amare.
«Così il problema della libertà non si pone in termini di indipendenza, ma in termini di amore. La potenza del nostro attaccamento determina la nostra capacità di libertà.
«[…] Non si tratta di investire ogni individuo di una illusoria indipendenza: si tratta di creare un clima nel quale ogni individuo possa amare gli esseri e le cose da cui dipende» (29).
La battaglia per la libertà passa, dunque, necessariamente attraverso il cuore: la sfida è far innamorare del vero, del bello, del buono.
Una sfida in cui possiamo sperare anche e, forse, soprattutto raccontando di chi ha speso la propria vita ad maiorem Dei gloriam et socialem. Ponendo finalmente mano a un’epica contro-rivoluzionaria.
Necessità di un’epica contro-rivoluzionaria
L’epica rimanda alla parola, alla narrazione, al racconto.
Come far sì che ci si innamori di qualcosa che è oramai morto –– una civiltà cristiana –– e ci si appassioni per la sua ricostruzione?
Una possibilità –– forse l’unica –– è raccontare che cosa è stata la nostra civiltà cristiana, narrarne la bellezza, nonché il valore di chi l’ha edificata e ha combattuto per essa.
Il racconto si fa urgente, soprattutto per le giovani generazioni.
Entusiasmare chi si trova nell’apparente insensatezza di un «periodo vuoto» (30) è un’operazione fondamentale per suscitare una «nostalgia dell’avvenire» (31).
Note:
(1) Giovanni Cantoni (1938-2020), Presentazione, del 29-6-1991, di Per la buona battaglia, Instrumenta 2, Alleanza Cattolica, Milano 1991, pp. 1-3 (p. 2).
(2) Idem, Circolare riservata CR 4, del 25-5-1971, ibid., pp. 35-47 (p. 36). Per la lettura dell’icona di san Giorgio sono debitore delle riflessioni svolte sul tema da Guido Verna.
(3) Ibid., pp. 35-36.
(4) Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, trad. it., a cura di G. Cantoni, Sugarco, Milano 2009.
(5) Il concetto è ampiamente sviluppato nei paragrafi L’accordo fra fine e mezzi e I metodi rivoluzionari, in Jean Ousset (1914-1994), L’azione, manuale per una riconquista cattolica politica e sociale, 1968, trad. it. a cura di Guido Vignelli, Editoriale Il giglio, Napoli 2016, pp. 40-43.
(6) G. Cantoni, Il contributo di Plinio Corrêa de Oliveira e di «Rivoluzione e Contro-Rivoluzione» allo sviluppo del pensiero e dell’azione contro-rivoluzionari, in Idem, Per una civiltà cristiana nel Terzo Millennio. La coscienza della Magna Europa e il quinto viaggio di Colombo, Sugarco, Milano 2008, pp. 221-248 (p. 237).
(7) «[…] una formula né affettuosa né confidenziale, ma propria dell’area culturale luso-americana, che privilegia il nome rispetto al cognome e che tratta il cognome come specificazione del nome e non viceversa; una formula corrente che non per questo esclude, evidentemente, affetto e devozione» (Idem, Plinio Corrêa de Oliveira e il giudizio sul Concilio Ecumenico Vaticano II, Instrumenta 3, Alleanza Cattolica, Roma 2003, p. 5).
(8) Idem, Circolare riservata CR 3, del 15-11-1970, in Per la buona battaglia, cit.,pp. 25-34 (pp. 31-32). Per le citazioni interne cfr., nell’ordine, P. Corrêa de Oliveira, op. cit., p. 109; ibid., p. 125; Joseph de Maistre (1753-1821), Considerazioni sulla Francia, 1796, trad. it., ed. Riuniti, Roma 1985, p. 96. La quarta citazione, cioè la frase che nell’originale francese suona «C’est dire qu’il lui faut renouer les liens sociaux au lieu de les briser»,è erroneamente attribuita a Joseph de Maistre in Jean Ousset (1914-1994), op. cit., p. 43. Il curatore dell’edizione italiana non mette la frase tra virgolette, a differenza dell’originale francese a cura dell’Office International des œuvres de Formation Civique et d’Action Culturelle selon le Droit Naturel et Chrétien. La citazione era in realtà tratta da René de La-Tour-du-Pin (1834-1924), Vers un ordre social chrétien, Jalons de route (1882-1907), Beauchesne, Parigi 1929, p. 248.
(9) P. Corrêa de Oliveira, op. cit., p. 122.
(10) Challenge and response, cioè «sfida e risposta», è il paradigma che Arnold Joseph Toynbee (1889-1975) propone per spiegare l’ascesa e il declino delle civiltà: a una sfida dell’ambiente, condizionato da determinate variabili culturali e geo-politiche, corrisponde una risposta delle élite o di minoranze creative. Cfr. Arnold J. Toynbee, Panorami della storia. Introduzione, 1934, trad. it., Mondadori, Milano 1954, pp. 40-41.
(11) Sulle guerre contro-rivoluzionarie in Vandea, cfr. Renato Cirelli, La Vandea, in IDIS. Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale, Voci per un dizionario del pensiero forte, a cura di G. Cantoni, Edizioni di «Cristianità», Piacenza 1997, pp. 245-250, e nel sito web <https://alleanzacattolica.org/la-Vandea> (gl’indirizzi Internet dell’intero articolo sono stati consultati il 27-2-2021). Cfr. anche card. Robert Sarah, «Noi cristiani abbiamo bisogno di questo spirito dei vandeani!», in Cristianità, anno XLV, settembre-ottobre 2017, pp. 69-72, e Aleksandr Isaevič Solženicyn (1918-2008), Onore alla memoria della resistenza e del sacrificio degli insorti vandeani del 1793 contro la Rivoluzione, ibid., anno XXI, n. 222, ottobre 1993, pp. 13-14.
(12) Per le insorgenze popolari anti-napoleoniche in Valtellina (1797-1809) e più in generale in Lombardia, cfr. Chiara Barbesino, Paolo Martinucci e Oscar Sanguinetti (a cura di), Guida Bibliografica dell’Insorgenza in Lombardia (1796-1814), Istituto per la Storia delle Insorgenze, Milano 1999.
(13) Cfr. Marco Respinti, La Contro-Rivoluzione in Tirolo (1796-1814), in IDIS, op. cit., nel sito web <https://alleanzacattolica.org/la-contro-rivoluzione-in-tirolo-1796-1814>.
(14) Agli albori della Prima Guerra Carlista (1833-1839), in Navarra e nelle province basche, a differenza del resto della Penisola iberica dove la maggioranza parteggia per la «liberale» reggente di Spagna Maria Cristina (1806-1878) e per la figlia Isabella (1830-1904) o si mantiene neutrale, la popolazione insorge in difesa dei diritti di successione del «cattolico» don Carlos María Isidro (1788-1855), che assume il titolo di Carlos V. Cfr. Roberto Gavirati, Il carlismo, in IDIS, op. cit., pp. 89-94, e nel sito web <https://alleanzacattolica.org/il-carlismo>.
(15) Sulla reazione armata delle popolazioni dell’Italia Meridionale, organizzate nell’esercito della Santa Fede contro la Repubblica Napoletana del 1799, cfr. Francesco Pappalardo, Il sanfedismo, in IDIS, op. cit., pp. 215-220, e nel sito web <https://alleanzacattolica.org/il-sanfedismo>.
(16) P. Corrêa de Oliveira, op. cit., p. 109.
(17) G. Cantoni, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione «eco fedelissima del Magistero della Chiesa», in Cristianità, anno XXXVIII, n. 355, gennaio-marzo 2010, pp. 1-8 (p. 8).
(18) P. Corrêa de Oliveira, op. cit., p. 109.
(19) Luigi Maria Grignion di Montfort, Preghiera infuocata, in Idem, Opere, Edizioni Montfortane, Roma 1990, 2a ed., vol. I. Scritti Spirituali, pp. 543-557 (p. 547). Sulla spiritualità montfortana e il suo impatto sulla scuola cattolica contro-rivoluzionaria, cfr. F. Pappalardo, San Luigi Maria Grignion da Montfort, in IDIS, op. cit., nel sito web <https://alleanzacattolica.org/san-luigi-maria-grignion-da-montfort-1673-1716>, e P. Corrêa de Oliveira, La devozione mariana e l’apostolato contro-rivoluzionario, in Cristianità, anno XXIII, novembre-dicembre 1995, pp. 9-15.
(20) G. Cantoni, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione «eco fedelissima del Magistero della Chiesa», cit., p. 7.
(21) «Durante il suo terreno pellegrinaggio, la Città di Dio ha nel suo seno alcuni a lei uniti nella comunione dei sacramenti, ma che non saranno associati alla sua gloria nell’eterna felicità dei santi: di questi alcuni sono nascosti ed altri sono conosciuti. […] La nemica [della Gerusalemme spirituale, cioè della Chiesa di Cristo] è la città del diavolo, Babilonia, che significa “confusione”» (Sant’Agostino d’Ippona (354-430), De Civitate Dei, libro I, cap. 35, e libro XVII, cap. 16).
(22) Nikolaj Aleksandrovič Berdjaev (1874-1948), Il senso della storia, trad. it., Jaca Book, Milano 2019, p. 62.
(23) Ibid., p. 168.
(24) Ibid., p. 166.
(25) «Dell’annuncio fa parte la conferma di una regola di comportamento — la morale e lo sforzo, l’ascesi che l’accompagna, risposta dell’uomo al misterioso, “mistico”, aiuto di Dio —, il cui rispetto garantisce il ritorno all’origine, al punto di partenza: da Dio, come fonte, tutto viene, e a Dio, come fine, tutto va. I due itinerari vengono indicati nel linguaggio della teologia scolastica in genere, e in quello di san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274) in specie, come exitus e reditus, rispettivamente “uscita” e “ritorno”» (G. Cantoni, La dottrina sociale della Chiesa, in Cristianità, anno XLV, gennaio-febbraio 2017, pp. 43-52 [p. 44]).
(26) N. Berdjaev, op. cit., p. 163.
(27) Giovanni Paolo II (1978-2005), Esortazione apostolica «Familiaris consortio» circa i compiti della famiglia nel mondo di oggi, del 22-11-1981, n. 6.
(28) N. Berdjaev, op. cit., p. 171.
(29) Gustave Thibon (1903-2001), Ritorno al reale, tra. it., Volpe, Roma 1972, p. 111.
(30) «Ogni epoca, ogni società, ogni forma di civiltà lascia un’eredità. Durante i periodi vuoti, non dobbiamo affatto cercare i salvatori della civiltà nelle grandi organizzazioni statali o sociali, ma nella piccola minoranza attiva, coraggiosa e silenziosa che si è data la missione di raccogliere e di trasmettere i valori essenziali dell’epoca precedente. Ecco gli esecutori testamentari! Serve anche un erede. Se non esiste affatto, se è troppo straniero e troppo barbaro, l’eredità finirà sotto terra dove, molti secoli dopo la catastrofe, archeologi ne esumeranno i resti» (Gonzague de Reynold (1880-1970), La Casa Europa. Costruzione, unità, dramma e necessità, con presentazione e cura di G. Cantoni, D’Ettoris, Crotone 2015, p. 40).
(31) «Sono stato preso a lungo per un uomo del passato, un reazionario. Non si è mai immaginato per un momento che il richiamo al passato poteva essere una nostalgia dell’avvenire» (Idem, Preface a «soi», in Hommage a Gonzague de Reynold, Editions de la Librairie de l’Université, Friburgo 1941, pp. 14-20 [p. 18]). Giovanni Cantoni ha applicato a sé queste parole di Gonzague de Reynold a chiusura dell’Introduzione. Quarant’anni dopo il Sessantotto al suo testo Per una civiltà cristiana nel Terzo Millennio. La coscienza della Magna Europa e il quinto viaggio di Colombo, cit., pp. 7-10 (p. 10).