Renato Veneruso, Cristianità n. 400 (2019)
Giovanni Codevilla, probabilmente il maggiore esperto vivente di diritto ecclesiastico dei Paesi dell’Europa sovietica, accademico della materia per quarant’anni docente di Diritto dei Paesi dell’Europa Orientale e Diritto Ecclesiastico Comparato nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Trieste, aggiunge, con il testo in epigrafe, una ulteriore preziosa monografia alla sua copiosa produzione bibliografica sulle relazioni fra lo Stato sovietico e la Chiesa ortodossa e, più in generale, al loro rapporto nella lunga storia russa. Va segnalato, in particolare, il monumentale contributo offerto con la Storia della Russia e dei Paesi limitrofi. Chiesa e Impero (con un saggio di Stefano Caprio, 4 voll., Jaca Book, Milano 2016; su cui cfr. la recensione di Marco Invernizzi in Cristianità, anno XLV, n. 383, gennaio-febbraio 2017, pp. 75-77).
L’impianto dell’opera, dedicata ai primi anni dell’esperienza istituzionale bolscevica e all’impatto della relativa legislazione religiosa sulla Chiesa ortodossa e sui suoi fedeli, largamente rappresentativi dell’intera società civile russa, si snoda attraverso venti capitoli, quattordici nella prima parte (I fatti, pp. 1-135) e sei nella seconda (La storiografia, pp. 137-194).
Vladimir Il’ič Ul’janov, detto «Lenin» (1870-1924) — in polemica con Maksim Gor’kij (1868-1936) e Anatolij Vasil’evič Lunačarskij (1875-1933), propugnatori di un ateismo religioso che declina il socialismo scientifico come «la più religiosa di tutte le religioni» (p. 4) — aveva subito rivendicato la radicale incompatibilità della concezione marxista-leninista con la religione.
Al momento del «colpo di Stato» dell’ottobre del 1917, che affida il potere al Consiglio dei Commissari del Popolo dell’Unione Sovietica (Sovnarkom), la Chiesa ortodossa, pur forte di una radicata articolazione territoriale e di un clero ancora imponente di numero, si trova in una delicata fase di transizione, riunita dall’agosto in un concilio che si conclude — tre giorni dopo il 26 ottobre, secondo il calendario giuliano allora vigente — con la restaurazione del Patriarcato — già abolito nel 1721 dallo zar Pietro I Romanov «il Grande» (1672-1725) con l’imposizione del periodo sinodale —, che va in sorte al metropolita di Mosca Tichon (al secolo Vasilij Ivanovič Bellavin, 1865-1925).
La lotta alla ortodossia comincia subito, con l’istituzione da parte del Sovnarkom, nel dicembre del 2017, della Commissione straordinaria per la lotta alla controrivoluzione, la famigerata CEKA (poi GPU, NKVD, KGB: tutti acronimi della sempre presente polizia politica segreta, vero e autentico deep power dello Stato sovietico), affidata alla guida dell’ancor più tristemente noto presidente del Tribunale rivoluzionario, Feliks Ėdmundovič Dzeržinskij (1877-1926), cui viene dato il compito «[…] di distruggere la religione» e di disgregare la «[…] chiesa ortodossa, in quanto essa è la più grande e potente, ma questo non basta, dal momento che sul territorio della Repubblica vi sono ancora una serie di religioni non meno potenti, quali l’islam e altre, nei confronti delle quali a noi spetta, passo dopo passo, operare la stessa disgregazione messa in atto per la chiesa ortodossa» (Timofey Petrovich Samsonov [1888-1955], alto funzionario della sezione segreta della CEKA, in una lettera del 4-12-1920, cit. a p. 16).
«In sintonia con queste premesse, nei confronti della Chiesa si avvia un’azione persecutoria che colpisce gli esponenti della gerarchia, i sacerdoti, i monaci ed i laici, i quali a migliaia sono eliminati fisicamente» (p. 17). Fin dai primi giorni successivi all’Ottobre, assalti e saccheggi, bombardamenti e distruzioni alle chiese si accompagnano a fucilazioni senza processo, come nel caso del protoierej Ioann Kocurov (1871-1917), che «[…] inaugura il tragico elenco di martiri e confessori russi del XX secolo, che comprende decine di migliaia di sacerdoti e monaci e centinaia di migliaia di laici» (p. 22).
Il Concilio ortodosso reagisce con l’invito a evitare la guerra fratricida — è in corso lo scontro tra i bolscevichi e l’Armata «bianca» fedele al governo provvisorio di Aleksandr Fëdorovič Kerenskij (1881-1970) — ma con la ferma denuncia della Rivoluzione come «aggressione dell’anticristo e dell’ateismo furioso» (p. 24) e con l’appello di Tichon del 19 gennaio 1918 ai fedeli «per proteggere la vostra santa Madre, la Chiesa, che oggi è vilipesa ed oppressa» (p. 26). L’appello è successivo al decreto sulla requisizione dei beni ecclesiastici ma precede di qualche giorno il Decreto sulla Separazione della Chiesa dallo Stato e della Scuola dalla Chiesa, cui segue, con la Costituzione del luglio 1918, la perdita dei diritti civili in capo alla Chiesa e al suo clero e sostanzialmente della libertà religiosa, subordinata alla fedeltà agli interessi dello Stato comunista. Arresti, assassinii, dispersione violenta delle processioni religiose diventano prassi pressoché quotidiana della vita dei sacerdoti e dei fedeli russi: è il Terrore rosso che si abbatte sulla Chiesa.
Alla violenza fisica si accompagna quella verbale — l’autore si sofferma con attenzione sul lessico bolscevico —, quindi la persecuzione antireligiosa si diffonde nelle vaste aree del Paese con i Comitati esecutivi provinciali, cui viene consentito di imporre arbitrariamente divieti e limitazioni alla Chiesa locale, che vanno anche oltre lo zelo antireligioso previsto dalla legge. Inoltre, «il regime comunista non si limita a ostacolare con ogni mezzo la pratica religiosa, ma avvia una aggressiva campagna ateistica, accompagnata da manifestazioni di palese intolleranza» (p. 82), esemplate dalla istituzione del Natale komsomoliano — il Komsomol è l’organizzazione della gioventù comunista —, da processioni blasfeme, anche nel centro di Mosca, dalla profanazione delle reliquie, da carnevali antireligiosi e «processi contro Dio», ma soprattutto dalla chiusura delle cappelle negli ospedali e nei luoghi di cura e dei monasteri: «tra il 1918 e 1921 furono chiusi 722 monasteri; nel 1929-1930 non esisteva più alcun monastero nei confini dell’Unione Sovietica» (p. 85, nota 13).
«La dissennata politica agraria bolscevica, che impone ai contadini di conferire all’ammasso le derrate alimentari a prezzi irrisori, porta a una gravissima carestia, per uscire dalla quale Lenin è costretto ad imporre una svolta radicale, nota come Nuova Politica Economica (NEP), che riabilita il ruolo dei privati nella produzione e liberalizza lo scambio dei beni. Alle misure innovative in campo economico non corrisponde, tuttavia, un allentamento dell’intolleranza in campo religioso» (p. 97). Anzi, per dare sollievo alla popolazione affamata, è emanato il Decreto di esproprio degli oggetti di valore che si trovano nelle chiese e nei monasteri: «Proprio ora e soltanto ora, quando nelle località affamate si mangia carne umana e sulle strade giacciono centinaia, se non migliaia di cadaveri, noi possiamo (e per questo dobbiamo) effettuare la requisizione dei preziosi della chiesa con l’energia più furiosa e spietata, senza alcuna esitazione nel soffocare qualsiasi opposizione. La requisizione dei preziosi deve essere condotta con decisione spietata, senza esitazione e senza fermarsi davanti a nulla e nel tempo più breve. Tanto più sarà alto il numero dei rappresentanti del clero reazionario e della borghesia reazionaria che sarà possibile fucilare per questa ragione, tanto meglio sarà» (Lenin, in una lettera segreta a Vjaceslav Michajlovic Skrjabin «Molotov» [1890-1986] del 19-3-1922) (p. 102).
Da ultimo, parte l’«intossicazione» della Chiesa dall’interno con lo scisma modernista degli Innovatori, i «preti rossi», fomentato da Lev Davidovič Bronštejn, detto Trockij (1879-1940), «regista della politica antireligiosa del Governo sovietico» (p. 111), e da Yevgeny Aleksandrovich Tuckov (1892-1957), segretario della Commissione antireligiosa della GPU, la polizia politica: «alla fine del 1922 essi potranno vantarsi di occupare i due terzi delle trentamila chiese allora operanti nel Paese; a Pietrogrado 113 comunità parrocchiali su 123 aderiscono al movimento scismatico» (p. 115).
La prima parte si conclude con il processo al patriarca e il bilancio delle vittime che, pur nella estrema incertezza delle fonti, attesta il martirio di decine di migliaia di fedeli.
La seconda parte è dedicata alla ricostruzione storiografica fornita rispettivamente dalla scuola sovietica, dagli esponenti dell’emigrazione russa, dagli studiosi occidentali e da quelli della Federazione russa. Viene mostrata innanzitutto la cura posta dagli storici di regime nel giustificare l’attacco statale alla Chiesa come reazione alla pretesa ostilità di quest’ultima nei confronti del nuovo regime. Sono quindi tessute le lodi degli storici dell’emigrazione — alcuni della prima ora, come Anton Ivanovič Denikin (1872-1947) e Sergej Petrovič Mel’gunov (1879-1956), altri più recenti, primo fra tutti Aleksandr Isaevič Solženicyn (1918-2008) — che si dedicano alla storia della persecuzione religiosa in URSS. Vengono denunciate le amnesie degli storici occidentali — con poche lodevoli eccezioni, fra cui il gesuita e vescovo francese Michel-Joseph Bourguignon d’Herbigny (1880-1957), rettore del Pontificio Istituto Orientale —, la cui «[…] reticenza non trova alcuna giustificazione nella mancanza di fonti informative, le quali, al contrario, mettono in luce in modo inequivocabile il carattere intrinsecamente perverso dei sistemi marxisti-leninisti e la catastrofe antropologica da essi generata» (p. 178); ed è segnalata la crescente attenzione degli storici dell’attuale Federazione Russa, nata dalle ceneri dell’URSS nel 1991, «verso la convergenza della letteratura scientifica nazionale e occidentale in un’unica storiografia contemporanea» (p. 184); stigmatizzati i «negazionisti» che arrivano a negare del tutto la persecuzione religiosa, fra cui i più noti sono lo scrittore e drammaturgo inglese George Bernard Shaw (1856-1950) e il filosofo esistenzialista-marxista francese Jean-Paul Sartre (1905-1980).
Resta da capire quale memoria di questa tragica esperienza di martirio resti presente nell’attuale Russia del secolo XXI, guidata da un ex colonnello del KGB convertito alla fede ortodossa. Non sembrano un buon segno né la parziale distruzione della documentazione sulla repressione antiecclesiastica a seguito del prikaz del 12 febbraio 2014, né il più generale clima di rimozione del ricordo dell’universo concentrazionario sovietico dei GULag (cfr. Micol Flammini, Il Cremlino incoraggia l’amnesia sui Gulag, in il Foglio quotidiano, del 3-2-2019). Inoltre, conclude Codevilla, si sta tornando al modello giurisdizionalistico, dove lo Stato protegge la Chiesa ortodossa, assicurandole uno status privilegiato, e questa si pone come fonte di legittimazione dell’autorità statale.
Renato Veneruso