Mauro Ronco, Cristianità n. 152 (1987)
Dal venir meno di un preciso riferimento a principi oggettivi e immutabili all’interferenza dei politici e al degrado dell’apparato giudiziario.
Dopo il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati
Giustizia, classe politica e magistratura
1. Il responso del referendum popolare sulla responsabilità civile dei magistrati — uno dei cinque svoltisi nei giorni 8 e 9 novembre 1987 — ha provocato l’abrogazione, fra altre disposizioni di legge, dell’articolo 55 del codice di procedura civile, in base al quale il giudice era civilmente responsabile quando, nell’esercizio delle sue funzioni, fosse imputabile di «dolo, frode o concussione» e quando, senza giusto motivo, rifiutasse, omettesse o ritardasse di «provvedere sulle domande o istanze delle parti e, in generale, di compiere un atto del suo ministero». La cancellazione di tali disposizioni ha determinato un vuoto legislativo, non sembrando applicabili ai magistrati, anche secondo il rilievo della Corte Costituzionale nella sentenza che ammetteva la celebrazione del referendum, le norme comuni sulla responsabilità dei dipendenti dello Stato e degli altri enti pubblici, in ragione della specificità della funzione esercitata dai giudici (1). A causa del vuoto prodottosi, il parlamento deve, entro centoventi giorni dalla proclamazione ufficiale del risultato della consultazione, approvare una nuova disciplina, pena la paralisi completa dell’amministrazione della giustizia. Chiusasi così la vicenda dedicata all’abbattimento del diritto esistente, si è aperta una seconda fase, che dovrebbe essere intesa a dotare l’ordinamento di un organico sistema relativo alla responsabilità civile dei magistrati. I temi di propaganda e le polemiche agitate dalle forze politiche, prima e dopo lo svolgimento del referendum, fanno però insorgere dubbi corposi e fondati sulla capacità del mondo politico di delineare un giusto ordine di rapporti nel delicato settore oggetto della consultazione popolare. Né va dimenticato che la validità di un sistema normativo dipende non soltanto dall’esistenza di leggi buone in astratto, ma soprattutto dall’armonica collaborazione delle varie persone, ordini e istituzioni al conseguimento di ciò che è giusto: e in questo momento, sotto l’urto dei poteri dello Stato tra loro e dopo che si è suscitata demagogicamente la protesta dei cittadini, ci si trova nella condizione peggiore per elaborare una legge che soddisfi le esigenze della giustizia.
In tale situazione, ritengo opportuno svolgere alcune riflessioni sul significato e sulle conseguenze del referendum che è stato celebrato, al fine di ricavare una serie di giudizi sullo stato in cui versa la vita pubblica italiana.
2. Va detto innanzitutto che il referendum è stato praticato dalle forze politiche promotrici in modo difforme rispetto agli scopi che la Costituzione assegna a tale forma di manifestazione della volontà popolare. Infatti, l’articolo 75 della Costituzione vuole offrire ai cittadini uno strumento di controllo successivo dell’operato del parlamento, consentendo, a determinate condizioni, che una legge approvata dalla maggioranza parlamentare sia sottoposta al giudizio di abrogazione. Nel caso, la quasi totalità delle forze politiche, e quindi la stragrande maggioranza del parlamento, si era pronunciata in favore dell’abrogazione delle norme del codice di procedura civile relative alla responsabilità del magistrato. Sarebbe stato, pertanto, stretto dovere della maggioranza parlamentare procedere all’abrogazione delle norme avversate attraverso la via normale della sostituzione di una nuova disciplina a quella precedente, assumendo piena responsabilità politica per la soluzione accolta e risparmiando ai cittadini il costo dell’inutile convocazione dei comizi. Invece, con la celebrazione del referendum, i partiti non hanno assunto la responsabilità di alcuna deliberazione, né hanno fornito — il che sarebbe stato loro compito specifico — una disciplina alla materia della responsabilità dei magistrati, provocando il rischio che, da qui a qualche mese, l’intero apparato giudiziario abbia ad annaspare nell’incertezza e poi ad arrestarsi completamente, con grave danno per la collettività.
Ma vi è di più. L’istituto del referendum abrogativo vuole introdurre uno strumento di controllo popolare sull’operato del parlamento in genere e, in specie, delle forze politiche maggioritarie, che determinano l’approvazione delle leggi. Con il referendum effettuato lo scorso novembre, invece, i partiti non hanno sottoposto a controllo alcun prodotto della loro attività — le norme oggetto dell’abrogazione risalivano al 1940 —, ma hanno suggerito ai cittadini di compiere un atto che essi stessi erano tenuti a compiere, ove fossero stati convinti, come dichiaravano di essere, che la legislazione vigente non fosse conforme alle esigenze presenti. Il paradosso descritto lascia trasparire lo scopo effettivo che le forze politiche promotrici hanno perseguito attraverso la celebrazione del referendum, consistente nel cercare di guadagnare surrettiziamente per sé, con la modalità plebiscitaria, un consenso popolare che l’obiettiva e generalizzata constatazione del malgoverno rischiava e rischia di togliere loro. Sì che i partiti politici, responsabili principali dell’attuale condizione di degradazione della vita pubblica, si sono presentati ingiustamente come giudici legittimati a pronunciare la sentenza di condanna nei confronti delle norme che avrebbero favorito il privilegio e l’ingiusto contegno di una categoria di cittadini — i magistrati —, che svolgono una funzione di primaria importanza per la vita della società.
Raramente si è data, almeno nei tempi recenti, una più radicale inversione dei rapporti corretti fra la classe politica dominante e i cittadini, giacché questi ultimi, che ben a ragione sarebbero stati chiamati a esprimere il loro giudizio sul malgoverno della prima, sono stati, invece, invitati da questa a rilasciarle, per l’ennesima volta, una delega in bianco per occupare, senza verifica alcuna della sua responsabilità per il disordine istituzionale e sociale, spazi sempre maggiori della vita pubblica nazionale.
3. L‘uso plebiscitario del referendum e la ricerca a tutti i costi del consenso hanno inevitabilmente implicato l’erezione di un nemico apparente — nel caso, la magistratura —, secondo la tecnica di psicologia sociale che costruisce il consenso intorno a colui o a coloro che sembrano offrire protezione contro un nemico foriero di gravi pericoli. Si è così propagandato, consapevolmente o meno, un modello sociale costituito da una classe politica che, nonostante i suoi errori, sarebbe capace di proteggere la libertà dei cittadini dalla minaccia loro recata dai magistrati. E, anche per questa ragione, la classe politica avrebbe meritato il consenso e l’appoggio popolare. Sennonché, il tentativo di imprimere nell’inconscio collettivo un tale modello sociale deve essere fermamente respinto. Occorre affermare nel modo più reciso che la crisi della giustizia, di cui tutti oggi si lamentano, è stata principalmente cagionata dal moltiplicarsi delle leggi contrarie al diritto naturale e cristiano e dal dilagare dei comportamenti ingiusti dei governanti e dei cittadini, non più raffrenati dalla barriera inconcussa di un ordine a loro superiore. Soprattutto a partire dalla metà degli anni Sessanta la classe politica ha mostrato di non più accettare alcun valore permanente come criterio direttivo del proprio legiferare e del proprio amministrare, infrangendo persino il rispetto di diritti assoluti come quello dell’innocente alla vita e favorendo, con omissioni colpevoli o addirittura con azioni dirette, la propaganda del vizio.
In questa crisi epocale, che ha travolto il senso profondo di ciò che è giusto, si inserisce la crisi della giustizia, come crisi dell’apparato giudiziario e della relativa funzione, che ha costituito il tema centrale del dibattito referendario. Di questa crisi minore, inscritta in quella più grande, porta una rilevante responsabilità anche la magistratura italiana, che ha vissuto il processo di degradazione sociale dapprima politicizzandosi impropriamente, almeno in alcune delle sue componenti — smarrendo così il fondamento ultimo della propria indipendenza —, e, successivamente, rivendicando la pretesa all’indipendenza non nel senso dell’imparzialità e della sottoposizione ai valori oggettivi della giustizia, bensì nella prospettiva di costruire sé stessa come contropotere, in contrasto con gli altri poteri dello Stato, e di contendere a essi il terreno della direzione politica della vita nazionale. Nello sforzo di erigere l’ordine giudiziario come contropotere, di cui il Consiglio Superiore della Magistratura dovrebbe essere l’interprete, molti magistrati hanno dimenticato il compito loro assegnato, e si sono presentati più come antesignani di un ordine diverso, che non come operatori di giustizia nei casi concreti, secondo la loro funzione e il loro dovere. Ma una tale tendenza della magistratura italiana, o almeno di una sua parte significativa, a prevaricare rispetto al suo compito specifico, ripete lo stesso errore, su scala più ridotta, compiuto dalla classe politica, consistente non soltanto nel respingere la vigenza assoluta di un ordine superiore di giustizia, ma anche nel rifiutare ubbidienza alle regole positive che sono obbiettivamente costituite allo scopo di individuare i limiti e i fini del potere attribuito ai vari organi e ordini dello Stato.
Sarebbe però profondamente errato esaminare le cause della crisi minore dell’apparato giudiziario al di fuori della crisi grande della giustizia, di cui è responsabile in primo luogo la classe politica italiana, considerata tanto nel suo complesso che nelle sue varie componenti. L’ordine oggettivo dei valori non è stato più tenuto in alcuna considerazione dal legislatore storico; le leggi si sono confusamente affastellate nella rincorsa all’assegnazione di vantaggi e di privilegi per i potenti — si pensi per tutti i casi alla legge sul finanziamento pubblico dei partiti, che venne presentata come rimedio alla corruzione degli uomini pubblici! — e all’imposizione di obblighi e di sanzioni per i cittadini; il permissivismo morale e il lassismo amministrativo, indotto dall’esempio proveniente dall’alto, hanno degradato la qualità dei rapporti civili, scatenato la cupidigia, accresciuto la litigiosità e fatto proliferare i contegni socialmente devianti o apertamente criminosi: queste sono alcune fra le cause principali del pessimo funzionamento dell’apparato giudiziario, gravato, oltre che dalla mancata soluzione di alcuni nodi strutturali di tipo organizzativo, dagli effetti devastanti di una crisi generale di valori che trova la sua origine remota e il suo alimento prossimo nella perdita del senso del giusto da parte della classe politica nel suo insieme.
4. Scendendo all’esame dell’oggetto del quesito referendario e alle linee fondamentali della legge sulla responsabilità civile dei giudici, che dovrà essere approvata, occorre notare che spesso il dibattito svolto ha trascurato la specificità della funzione del giudicare, inducendo convinzioni superficiali o erronee sul modo concreto di attuazione della vita giuridica.
È vero, da un canto, che alla sempre crescente complessità e problematicità dei vari aspetti della società tecnologica non fa riscontro una sufficiente specializzazione e articolazione dell’ordine giudiziario (2). Da un altro canto, appare giustificata l’esigenza che la società provveda al ristoro del danno provocato al cittadino dall’errore giudiziario inescusabile. Sennonché, quest’esigenza fondamentale di giustizia dev’essere accolta e soddisfatta senza paralizzare lo svolgimento della funzione giudiziaria e senza menomare l’indipendenza del giudice, tanto di fronte al potere degli organi esecutivi dello Stato, quanto alle pretese dei litiganti nel processo. A mio avviso, il modo per risarcire il cittadino del danno subito senza menomare l’esercizio della funzione giudiziaria consiste nel separare il riconoscimento del diritto al risarcimento dall’accertamento della responsabilità del magistrato per il danno arrecato. Il voler mantenere uniti i due momenti crea difficoltà insormontabili e rischia di vanificare l’esercizio stesso della funzione giudiziaria.
La decisione giurisdizionale è frutto di un procedimento complesso, che si avvale spesso di momenti collegiali, in cui è talora impossibile cogliere la causa e il responsabile dell’errore compiuto. Pretendere che si individui il responsabile in ogni caso di errore significa rifare daccapo il processo concluso, ripercorrendo i ritmi e il modo di giudicare, in una serie interminabile di processi, che vanificherebbe l’operato dei giudici, provocherebbe incertezza nei rapporti giuridici e porrebbe il magistrato in uno stato di timore reverenziale di fronte alle iniziative delle parti.
In un quadro del genere, il problema più urgente da risolvere sarebbe stato quello di prevedere un’organica disciplina, con relativa copertura finanziaria, volta a proteggere il cittadino dalle conseguenze dannose degli errori giudiziari, e statuente il principio fondamentale che lo Stato è chiamato direttamente a provvedere al ristoro del danno.
La disposizione del codice di procedura civile, con la esclusiva previsione di casi di responsabilità dolosa — costituente, perciò, quasi un lasciapassare per la colpa grave del giudice —, avrebbe dovuto essere sostituita con un organico e tassativo sistema di ipotesi di responsabilità disciplinare del magistrato per il negligente o imperito esercizio della propria attività giurisdizionale. Per i casi di danno arrecato con dolo, infine, si sarebbe dovuta prevedere la rivalsa integrale dello Stato, chiamato a rispondere direttamente al cittadino, nei confronti del magistrato. In questo modo, con l’approvazione di due distinti provvedimenti legislativi, si sarebbe fatto fronte all’esigenza della riparazione degli errori giudiziari e nel contempo si sarebbe pienamente rispettato il principio dell’indipendenza dell’ordine giudiziario. L’unione incongrua dei due distinti profili, del diritto al risarcimento e della responsabilità del magistrato, rischia, invece, di non soddisfare né l’esigenza di giustizia dei cittadini, né l’indipendenza dei magistrati. La prima, infatti, rimarrà sottoposta al vaglio di una responsabilità soggettiva grave del giudice, mentre si appaleserebbe opportuno il ristoro del danno arrecato secondo un giudizio di equità, in funzione della sua oggettiva esistenza e gravità. L’indipendenza dell’ordine giudiziario, poi, è oggi messa in pericolo dall’assenza di serenità in cui presumibilmente verrà approvata la nuova disciplina.
Come si è visto, la situazione provocata dal referendum è piena di incertezze e di confusioni, che sono correlative, sul piano giuridico, alla totale assenza di orientamento della classe politica rispetto a principi oggettivi e superiori di giustizia. Non certo la demagogia delle iniziative referendarie può risolvere i nodi provocati da crisi pluridecennali, ma soltanto l’umile e prudente attenzione a valori superiori al transeunte scontro degli interessi particolari.
Mauro Ronco
Note:
(1) Cfr. Sentenza 3 febbraio 1987, n. 26, in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, Prima serie speciale, 11-2-1987.
(2) Va tenuto presente che la magistratura è stata sovraccaricata, nel corso degli anni, di compiti specializzati — per esempio, in materia fiscale —, un tempo previamente vagliati in sede amministrativa, per scelte discutibili assunte dal potere legislativo. D’altra parte, l’inefficienza dell’amministrazione pubblica ha quasi inevitabilmente provocato la dilatazione degli interventi della magistratura, a soddisfazione di un evidente bisogno di supplenza all’inerzia del potere esecutivo.