Louis Salleron, Cristianità n. 10 (1975)
Traduzione dell’articolo Le pouvoir dans l’entreprise, comparso in Permanences, Parigi marzo 1974, n. 108, pp. 17-35.
Quando si parla del problema del “potere nell’impresa”, generalmente lo si fa per mettere in causa sia la legittimità di questo potere, sia le sue modalità di organizzazione e di funzionamento.
Nel primo caso, la critica mira a colpire il fondamento del potere. “Non è giusto – si dice correntemente – che la proprietà del capitale dia il diritto di comandare i lavoratori“.
Nel secondo caso, è criticata la ripartizione dei poteri concreti; oppure il modo con cui questi poteri sono esercitati.
Si tratta dunque di due problemi distinti. Supponiamo, infatti, che il primo sia risolto per il fatto che l’impresa non è più proprietà privata capitalistica (comunismo, nazionalizzazione, cooperazione); i problemi concreti dell’organizzazione e dell’esercizio del potere continuano a sussistere, anche se si ritiene che si presentino in modo diverso. Ad esempio, in una fabbrica di automobili nell’Unione Sovietica, in una fabbrica nazionalizzata come la Renault e in una fabbrica “capitalista” come la Peugeot, vi sono problemi di suddivisione interna dei poteri sensibilmente analoghi.
Esaminiamo successivamente questi due problemi.
1. LA PROPRIETÀ, FONDAMENTO DEL POTERE NELL’IMPRESA.
Il rapporto che lega il potere e la proprietà non è facile da presentare in breve, perché chiama in causa la natura umana nella sua totalità. Bisognerebbe dunque impegnarsi in una enorme ricerca filosofica, sociologica, storica e giuridica per stabilire le cause di un fenomeno che si può cogliere solo nelle sue conseguenze ultime.
Partiamo tuttavia da una semplice constatazione. L’uomo è un essere individuale e sociale. Anche se lo interessa soprattutto la sua personalità propria, cioè individuale, non può non rendersi conto che esiste e può esistere solo in società. Inoltre può sviluppare la sua personalità solo mediante la società. Senza l’associazione delle forze individuali e la divisione delle attività, non potrebbe accrescere né le sue capacità spirituali, né le sue risorse economiche.
La società è un complesso di interazioni umane. Se chiamiamo “potere” ogni possibilità di azione dell’uomo, possiamo dire che la società è un complesso di poteri.
Qual’è la fonte di questi poteri? Qual’è la fonte del potere? È l’”autorità“. È certamente un problema di definizione. Ma l’etimologia e la tradizione ci invitano a chiamare “autorità” quella qualità dell’uomo che gli dà una potenzialità d’azione – un potere – su altri uomini.
Si può affermare incontestabilmente che l’autorità è la fonte originaria di ogni potere sociale.
Coloro che se ne meravigliassero, vi riflettano: si troveranno ben presto d’accordo. Ma qual’è dunque la natura dell’autorità? Da dove viene? Non ne sappiamo nulla. La nostra affermazione è una constatazione. Vi è nell’uomo una energia misteriosa che si irradia. Questa autorità è spirituale. Energia ve n’è dappertutto. Ma l’autorità è un carattere della natura umana e per questo è spirituale. Nell’universale lotta per la vita vi sono rapporti di forze, vi sono poteri in interazione. L’autorità appare solo nell’uomo, anche se il potere che essa suscita può essere espresso in termini di energia fisica.
L’autorità non è propria di qualche uomo. Essa è un attributo della persona. Ogni uomo ha dunque un’autorità. Ogni uomo esercita un potere su altri. Ma nell’autorità vi sono gradi e vi sono diverse autorità. Certi poteri dell’uno sono dunque più grandi di quelli dell’altro e sono diversi. Pietro può avere una autorità intellettuale più grande di Paolo ed esercita perciò un potere intellettuale su Paolo. Ma Paolo può avere una autorità morale più grande di Pietro ed esercita perciò un potere morale su Pietro.
FORZA FISICA E AUTORITÀ SPIRITUALE
L’infinita varietà della natura umana fa sì che la società non sia altro che la composizione di tutte le energie – autorità e poteri – che vi si confrontano in una permanente interazione reciproca. Al vertice della società appare l’autorità puramente spirituale: alla base, la forza fisica pura. Bisogna però notare che questa forza fisica pura è diversa da quella dell’animale da due punti di vista. Da una parte, per quanto brutale essa sia, dipende dallo spirito, il che spiega come la specie umana abbia trionfato su tutte le specie animali, molte delle quali e il loro insieme l’avrebbero altrimenti schiacciata. D’altra parte, la forza fisica è sempre più distinta dal corpo umano. Essa è strumentare. Un mingherlino che ha in mano una pistola è più forte fisicamente di un gigante senz’armi. Nella società non vi è dunque forza fisica pura, indipendente dallo spirito – anche se tra due individui può esistere un rapporto di pura forza fisica.
L’autorità più puramente spirituale esercita, paradossalmente, il potere più forte, Paradossalmente, perché, lungi dall’attingere alcunché dalla forza fisica, essa le si contrappone. Prendiamo l’esempio più sublime, quello di Cristo. La sua autorità si è manifestata solo con il suo insegnamento, l’esempio della sua vita e il suo sacrificio. Essa è stata il più possente motore dell’evoluzione umana. Anche un Socrate, un Budda, un Confucio, un Cartesio, un Hegel, un Marx hanno esercitato, con la loro autorità spirituale, un potere straordinario sulla società. A gradi meno elevati, l’amore, l’intelligenza, la scienza sono permanentemente autorità il cui potere sociale è considerevole.
Da quando l’uomo non è solo, e l’uomo non è mai solo, l’autorità si manifesta sotto tutte le forme in cui si può dispiegare la capacità natura umana e, con l’autorità, il potere. Vediamo l’autorità e il potere nella famiglia, nei piccoli gruppi di ogni sorta, nelle associazioni e nelle istituzioni di ogni tipo, in città come in campagna.
Tuttavia, vi sono due campi in cui il potere si rivela in modo caratteristico, ponendo tutti i problemi della sua legittimità nel suo fondamento e nel suo esercizio: il campo politico e il campo economico.
IL POTERE POLITICO
Il campo politico è quello dell’organizzazione generale della società e quindi, nello stesso tempo, quello in cui il potere si manifesta nella sua pienezza. Al punto che, quando il termine è usato senza ulteriore precisazione, si riferisce alla politica. Il Potere è il potere politico. “Prendere il potere”, “essere al potere”, “esercitare il potere” sono sempre intesi in senso politico. Per molti autori la scienza e l’arte politiche sono soprattutto la scienza e l’arte del Potere, vale a dire la scienza e l’arte di esercitare l’azione più potente sugli uomini e il loro destino.
Anche nel campo politico la fonte, l’origine prima del potere è l’autorità, personale e spirituale. Un Alessandro, un Cesare, un Carlo Magno, un Luigi XIV, un Napoleone, per non parlare dei nostri contemporanei, sono uomini che hanno dovuto il loro potere, aiutati anche dal caso, alla loro autorità, vale a dire a quella forma particolare di energia che, nel campo politico, dà forza e coesione a un grande numero di uomini.
Qual’è l’oggetto della politica? Consiste nell’istituire la giustizia, cioè nel permettere agli uomini di raggiungere il loro sviluppo più completo, collaborando nel modo più perfetto al bene comune della società nello sviluppo della loro personalità e delle relazioni che allacciano con gli altri membri della società. La giustizia si esprime socialmente mediante il Diritto, che pone le regole attraverso le quali essa si può realizzare. Le parole latine jus e justitia rivelano la loro parentela. La forza pubblica, pura espressione del Potere, assicura il rispetto del Diritto. La funzione dello Stato, la più perfetta incarnazione giuridica della società, è essenzialmente regolatrice. I diritti degli individui e dei loro raggruppamenti non procedono dallo Stato. Il potere supremo di questo ha solo il compito di assicurare secondo la giustizia e il Diritto l’esercizio dei poteri che prolungano in tutti i campi l’autorità delle persone. Evidentemente, per esempio, l’autorità del padre di famiglia, e il suo potere sui suoi figli non hanno la loro fonte nello Stato, ma lo Stato, ciononostante, è chiamato a regolarne l’esercizio per mezzo della legge.
IL POTERE ECONOMICO
Il campo economico è il più importante di tutti quelli nei quali l’uomo dispiega la sua attività. Infatti esso è, direttamente o indirettamente, universale. L’oggetto dell’economia è il dominio e la trasformazione della natura. Con la sua intelligenza e il suo lavoro l’uomo si impadronisce delle cose e ne fa dei “beni”, vale a dire cose per lui buone (bona). Grazie alla moneta, da lui inventata, può indefinitamente scambiare, risparmiare, investire. L’accumulazione dei beni e dei simboli monetari che li rappresentano costituisce la ricchezza.
Si può parlare di autorità economica e di potere economico? Senza dubbio. Chi può nel più, può anche nel meno; e se le parole “autorità” e “potere” evocano soprattutto le relazioni tra gli uomini, esprimono anche perfettamente la relazione dell’uomo con le cose. La relazione dell’animale con le cose, viventi o inanimate, è un potere: essa non è la conseguenza di una autorità. Non vi si trovano né l’intelligenza, né la coscienza, né il perseguimento di un fine. Il lavoro dell’uomo è un dispendio di energia orientato a un fine. Il “lavoro” (se è possibile usare questa parola) dell’animale è un dispendio di energia finalizzato dalla natura (o dall’uomo quando l’animale è domestico o utilizzato), ma non dall’animale stesso, il cui istinto non si evolve, o per lo meno non è governato dall’intelligenza.
In che cosa consiste il Potere economico? Consiste essenzialmente nell’appropriazione, che diventa, mediante la regolamentazione del Diritto, la proprietà. Nessun diritto è più vicino alla natura. L’uomo “generico”, come l’uomo individuale, passa la propria vita a “impadronirsi”, prima di tutto per sopravvivere, poi per estendere il suo impero vitale. Produrre, consumare, risparmiare, scambiare, capitalizzare, questo è il senso del lavoro dell’uomo, questo è l’esercizio del potere che deriva dalla sua autorità economica.
È necessaria la proprietà, vale a dire la regola di Diritto istituita e protetta dal Potere politico. Senza la proprietà, tra gli uomini vi sarebbe un puro rapporto di forze. Sarebbe la guerra perpetua, la lotta per la vita del regno animale, senza nessun progresso. La capitalizzazione, resa possibile dalla proprietà, è la civiltà stessa nel suo aspetto materiale.
In che modo l’economia passa dal potere sulle cose al potere sugli uomini? Come in tutti gli altri campi. Come tutte le altre forme dell’autorità, l’autorità economica è inegualmente ripartita. Chi si rivela più “intraprendente” di altri non riesce ad assicurare con il solo suo lavoro lo sviluppo della sua “impresa”. Fa dunque appello ad altri uomini che gli prestano i loro servizi. Così è chiamato a comandarli.
Ma qui interviene il Diritto. Parliamo di prestazione di servizi. Per lungo tempo si trattò di schiavitù, per cui lo schiavo era oggetto di proprietà, come una cosa. Notiamo che anche ai tempi della schiavitù vi era una certa protezione giuridica dello schiavo. E vi erano schiavi di ogni genere. Il filosofo Seneca era uno schiavo, come un lavoratore agricolo. Ciò significa che l’autorità economica, e il suo potere, era considerata inferiore all’autorità politica e al suo potere, mentre l’autorità spirituale si adoperava continuamente a elevare il Diritto (jus) verso la giustizia (justitia). Anche da uomo a uomo giocavano queste interazioni. Non si può dubitare che lo schiavo Seneca, politicamente ed economicamente dipendente dal suo padrone, avesse su di lui e su molti altri un enorme potere che gli derivava dalla sua autorità spirituale. Non si tratta affatto della dialettica del padrone e dello schiavo teorizzata da Hegel, ma, assai più profondamente, della dialettica o piuttosto della cibernetica delle autorità e dei poteri, dello spirito, della politica e dell’economia.
Grazie alle forze spirituali e alla capitalizzazione delle ricchezze, si è passati, per tappe successive, dalla schiavitù ai rapporti contrattuali e oggi, in tutto il mondo civile, lo sviluppo economico è regolato nella legge, mediante la proprietà e il contratto.
PROPRIETÀ E COMPETENZA
Si può dire, tuttavia, che la proprietà è la fonte del potere nell’impresa ?
L’espressione è ambigua e per questo colpisce. Infatti la proprietà non è e non è mai stata la fonte del potere nell’impresa. Vi è una sola fonte di potere, di ogni potere, ed è l’autorità, la quale è esclusivamente personale e spirituale.
Si potrebbe forse dire che la proprietà è il fondamento del potere nell’impresa? A mio avviso, lo si può dire. Ma riconosco che l’espressione si presta ugualmente a confusioni se il termine “fondamento” è preso come sinonimo del termine “fonte”. Bisogna dire che la proprietà è il fondamento giuridico del potere nell’impresa, o, per essere ancora più chiari, che la proprietà è l’istituzione giuridica che fonda il potere nell’impresa.
Questo non lo si può soltanto dire, ma lo si deve affermare con forza.
Tuttavia, anche esattamente compresa, l’idea urta ancora molta gente. Essi continuano a pensare e a dire che non la proprietà, ma la competenza deve fondare il potere nell’impresa.
Qui sono loro a fare confusione ed è necessario dissiparla.
Senza alcun dubbio la competenza deve fondare il potere. Ma la competenza è solo un altro sinonimo di autorità. Orbene la competenza, come l’autorità, è una qualità personale. Essa non è una istituzione giuridica e non può essere eretta a istituzione. Non può dunque fornire la regola di diritto necessaria a tutto ciò che nella società ha durata.
BISOGNA SOPPRIMERE L’EREDITÀ?
Il problema sollevato da questo dibattito è quello della durata – problema che esiste tanto nel campo economico come in quello politico.
In materia sociale bisogna distinguere la creazione e la perpetuazione.
Il fatto della creazione non solleva difficoltà. Essa è originaria. Non obbedisce dunque ad alcuna regola. L’autorità del creatore, del fondatore, gli assicura il suo potere. Egli crea il proprio potere sull’oggetto della sua creazione personale. Ma è mortale e se la sua opera è di natura sociale, cioè concerne una collettività, bisogna che questa opera continui. Deve essere assicurata la successione del suo potere. Essa lo sarà sia per mezzo di regole da lui stesso stabilite, sia per mezzo di regole definite dalla legge, sia per mezzo di un miscuglio di entrambe, cioè di regole particolari che lui avrà stabilito in seno a una legislazione generale che glielo permette.
Concretamente, il problema posto è quello della trasmissione del potere della proprietà. I suoi aspetti sono molto numerosi – numerosi come quelli della proprietà stessa e della sua trasmissione.
Prendiamo i due casi più semplici e più tipici, ai quali tutti gli altri, più o meno, si ricollegano: quello di una impresa che è proprietà personale del suo fondatore e quello di una impresa che è proprietà di una società di capitali.
1) Un uomo ha fondato un’impresa. Ne è proprietario. Muore e suo figlio la eredita. Il potere del padre non era contestato perché, con ogni evidenza, questo potere procedeva dalla sua autorità creatrice. Giuridicamente questo potere era legato alla proprietà, ma la proprietà non faceva che consacrare una autorità, una competenza personale. Il potere del figlio, al contrario, procede direttamente dalla proprietà ereditata, senza che la sua autorità sia certa. Si tratta di un potere legittimo?
A questa domanda bisogna rispondere che, in ogni istituzione esistente e destinata a durare, il potere è legittimo, in partenza, quando è devoluto legalmente.
Tra “legalità” e “legittimità“ vi è una differenza che tutti percepiscono intuitivamente. La legalità è la semplice conformità alla legge positiva. La legittimità è la conformità a una legge superiore che mette in causa le idee di moralità e di finalità, in rapporto al bene comune della collettività in questione.
Particolarmente nelle questioni di successione del potere fa la sua comparsa la nozione di legittimità. La legge regola queste questioni, sia nel dettaglio, sia fornendo il quadro dei regolamenti particolari. Ogni successione del potere, in qualsiasi istituzione, se si effettua conformemente alla legge, rende il nuovo potere legittimo. Diversamente non vi sarebbe vita sociale possibile.
La questione della legittimità del potere ereditato ci porta dunque a considerare se la legge di successione è buona o cattiva. In altre parole, in materia di impresa, bisogna sopprimere l’eredità?
Non lo crediamo, per ragioni molto semplici. Infatti, se si sopprime l’eredità, bisogna trovare un’altra soluzione e non resta altro che evocare intorno a sé quattro o cinque casi concreti che si conoscono bene e chiedersi: come trovare un nuovo capo dell’impresa alla morte del suo proprietario? Il numero e la portata delle difficoltà da sormontare apparirebbero immediatamente considerevoli.
Del resto, se si sopprime semplicemente il diritto di eredità per la proprietà di imprese, altre modalità giuridiche permetteranno di aggirare la legge. E se si bloccano queste modalità giuridiche, la proprietà perde tutto il suo contenuto. Una proprietà che non si può trasmettere in alcun modo non è più una proprietà. O, ancora, bisognerebbe prendere in considerazione la possibilità che la proprietà possa essere trasmessa a chiunque tranne che all’erede, il che sarebbe assurdo.
Infatti, il problema è un po’ teorico. Un capo di impresa che conduce bene i suoi affari ha generalmente due preoccupazioni congiunte: fare in modo che la sua impresa continui e trasmettere il suo patrimonio a suo figlio (supponiamolo unico). Lui vivente, associa suo figlio agli affari e lo addestra a succedergli. Se lo giudica incapace metterà al timone qualcun altro. Il caso non è poi così raro.
Immaginiamo tuttavia che un figlio incapace succeda a suo padre per eredità. La concorrenza lo eliminerà rapidamente e, lui passerà la mano. Sono possibili dei fallimenti? Essi lo sono anche vivente il fondatore, se si ostina a voler dirigere la sua impresa quando l’età o la malattia gliene tolgono i mezzi.
Questo genere di inconvenienti è innegabile e non è affatto eccezionale. Ma tutti i sistemi presentano inconvenienti. Non si può far altro che cercare quello che ne ha meno e contrastare, se si può, questi inconvenienti con delle precise disposizioni legali. Ma poiché la proprietà personale, come fondamento giuridico del potere nell’impresa, presenta inconvenienti, non si può pensare di sostituirla con un altro fondamento giuridico, se non se ne trova uno che presenta meno inconvenienti, cioè che, sul piano della giustizia sociale e dell’efficacia economica, si rivelerà superiore. Da parte nostra non ne vediamo.
2) Tuttavia il caso appena esaminato non è quello al quale ci si interessa generalmente. Ciò che suscita contestazione è l’impresa costituita giuridicamente in società e il cui capitale appartiene a una o più persone, individuali o collettive. In questo caso, ciò che interessa principalmente non è più la successione di un proprietario individuale e maggioritario; ma in modo assai più generale, la proprietà capitalistica, in quanto questa proprietà è fonte del potere nell’impresa; la trasmissione di questo potere non fa infatti che sollevare, in certe circostanze e in modo particolare, il problema della legittimità del potere che gli è legato.
Poniamo concretamente questo problema. Una impresa di 5000 persone è proprietà di una società anonima, la cui maggioranza del capitale è detenuta da un individuo o da un gruppo qualsiasi. Questo individuo o questo gruppo ha il potere, cioè decide, in ultima istanza e in modo sovrano, della vita di questa impresa. Esso può, per esempio, ed è un esempio che non ha nulla di teorico, cedere il suo capitale a un altro individuo o a un altro gruppo, il quale, estraneo all’impresa la sera precedente, ne diviene d’un sol colpo il padrone. Vi è in ciò qualche cosa di urtante, e giustamente, perché non appare più alcun legame tra l’autorità creatrice e la proprietà, legame che è la giustificazione profonda del potere del proprietario.
L’apparenza, in un caso come questo, rischia di mascherare la realtà. Se infatti un proprietario di impresa cede ad un altro la sua proprietà con il potere che vi è collegato, ciò accade verosimilmente perché una ragione qualsiasi – circostanza imprevista, errore di gestione, sfortuna – mette il suo potere in iscacco. Non ha più l’autorità capace di permettergli il dominio della situazione. Una autorità nuova si sostituisce dunque alla sua. E, se è vero che l’autorità nuova non è stata la fondatrice dell’impresa, essa è per lo meno fondatrice della sua continuità, titolo necessario e sufficiente ad assicurare la sua legittimità. Perché per l’istituzione esistente il problema è durare e questa trasmissione di potere le garantisce la durata.
ESSERE ALL’ALTEZZA DEL COMPITO
In ogni momento la legittimità di un potere appare dal fatto che il suo titolare ha l’autorità personale che vi corrisponde. Da questo punto di vista non vi è alcuna differenza tra una cessione di proprietà e una nomina. Prendiamo, ad esempio, il caso della pubblica amministrazione. Se un funzionario è nominato capo ufficio, o direttore, o ministro, il suo potere è legittimo, all’origine, dal momento che la nomina è fatta conformemente alla legge, ma questa legittimità è durevolmente confermata solo se l’autorità personale dell’individuo nominato si rivela all’altezza del potere che gli è stato conferito.
Si possono passare in rassegna tutti i poteri che esistono nella società. Il problema della loro assegnazione è sempre, fondamentalmente, lo stesso: si tratta di trovare la formula istituzionale che permetta di scoprire e di installare un nuovo titolare del potere all’altezza del suo compito, vale a dire dotato di una autorità per lo meno uguale al potere di cui dispone.
Questa formula istituzionale può essere la nomina, la elezione, la cooptazione, la consuetudine o la possibilità il più possibile aperta alla creatività; essa può essere più o meno dipendente dalla natura, dalla legge o dal contratto – o dalla violenza. Trattandosi dell’impresa, attorno alla proprietà e a partire da essa si pongono e si risolvono tutti i problemi del potere e della sua trasmissione. Lo si vede chiaramente dal fatto che, se si tratta di sopprimere il potere risultante dalla proprietà del capitale, non si trova altro mezzo che sopprimere la proprietà stessa, sia nazionalizzando questa o quell’impresa o questo o quel settore economico, sia sopprimendo ogni proprietà privata dei mezzi di produzione, cioè instaurando il comunismo. Il problema è sapere se queste formule, e principalmente il comunismo, apportano all’insieme più giustizia sociale, più libertà per gli individui e più efficacia economica. Gli inconvenienti che si erano riscontrati nell’organizzazione economica fondata sulla proprietà privata sono scomparsi? O sono al contrario rimasti? O addirittura non sono diventati più grandi?
Non insistiamo su questo continuo ritorno alla proprietà privata come istituzione giuridica più valida per fondare il potere nell’impresa. Consideriamo piuttosto il problema come appare praticamente alla maggioranza, cioè quello del potere nell’impresa costituita in società di capitali e comprendente un personale rilevante – diciamo da 500 a più decine di migliaia di collaboratori. Questo problema è in realtà quello dell’organizzazione del potere. È quello che passiamo ora a trattare.
2. L’ORGANIZZAZIONE DEL POTERE NELL’IMPRESA
Quando si parla “del” potere, quale che sia il campo di questo potere – se ne parla generalmente come se fosse unico e assoluto. Ma, sia che si tratti dello Stato, o dell’impresa, o di qualsiasi istituzione, un potere non è mai assoluto. Di fatto o di diritto è sempre limitato. Si introdurrà una importante precisazione se si parla di potere “di decisione”? Non lo crediamo.
Accontentiamoci di dire che quando si parla del potere, senza altra indicazione, si intende il potere più grande nel campo considerato. Avere il potere nell’impresa significa avere il potere più grande nell’impresa. Normalmente, il Diritto designa il titolare di questo potere – organo o individuo. Ma non è eccezionale che la consuetudine o l’autorità conferiscano a una persona, o a un gruppo di persone, un potere superiore a quello di cui dispone chi, a norma di diritto, ne è il titolare. L’osservazione della realtà rivela che ogni potere è un potere ripartito.
UNA MOLTEPLICITÀ DI POTERI
Quando si parla, per esempio, del potere dello Stato, o del potere nello Stato, ci si trova in presenza di una molteplicità di poteri, di diritto o di fatto. Prima di tutto i poteri classici: esecutivo, legislativo, giudiziario. I poteri di fatto: quello dell’informazione, del sindacalismo, del danaro, della Chiesa. I poteri centrali e decentralizzati: il prefetto, il sindaco. I poteri interni a ciascuno di questi poteri, il presidente della Repubblica, il primo ministro, i diversi ministri, la pubblica amministrazione, gli uffici e le commissioni del parlamento, ogni sorta di personaggi e di assemblee. A volerli enumerare tutti non si finirebbe più.
Nell’impresa è lo stesso.
Prendiamo il caso di un’officina. Per tutto il personale dell’officina, chi ha il potere è il direttore – il padrone. Ma, se questa officina è solo una delle tre o quattro officine appartenenti a una impresa, il direttore dell’officina ha, sopra di sé, il direttore dell’impresa. E se entriamo nel mistero delle società multinazionali e delle loro filiali, ci troviamo di fronte a un groviglio dì poteri che, pur essendo, in teoria, gerarchicamente subordinati gli uni agli altri, non permettono sempre di riconoscere un potere supremo e scartano in ogni caso l’idea di un potere assoluto. Aggiungiamo che, se anche arriviamo a identificare uno stadio del potere che possa essere considerato come il potere supremo dell’unità in questione, questo potere è ancora limitato da una quantità di altri poteri: le prescrizioni legali, la forza sindacale, l’opinione pubblica, la banca ecc. e, in ultimo, in regime liberale, la concorrenza.
D’altra parte, nell’impresa o nell’officina si percepisce un miscuglio di gerarchia e di diversità di funzioni che rivelano altrettanti poteri di diritto, senza parlare dei poteri paralleli di fatto.
Il vero problema è dunque l’organizzazione del potere, cioè l’organizzazione della moltitudine dei poteri.
CHE BISOGNA ORGANIZZARE
Questo problema generale si scompone in numerosi problemi particolari, di cui i tre principali ci sembrano essere:
– la designazione del titolare di ciascun potere,
– l’accesso degli individui a poteri superiori,
– la definizione del contenuto dei poteri.
l I due primi problemi ne costituiscono uno solo, ma considerato sia sotto il suo aspetto statico che sotto il suo aspetto dinamico. Si tratta sempre di mettere “the right man in the right place“, cioè di trovare la corrispondenza più esatta tra il potere dato a un uomo e la sua capacità di esercitarlo (la sua autorità). I procedimenti di assegnazione e di promozione non sono numerosissimi. Normalmente c’è la nomina, cioè la scelta da posizioni superiori. Può esserci “l’avanzamento”, dovuto all’età. C’è spesso un miscuglio dei due, che implica però necessariamente una selezione, perché tutti non possono “salire” nella “gerarchia”.
l Il terzo problema in causa il più o meno grande decentramento del potere. Generalmente il decentramento è auspicabile. La sua messa a punto è delicata; sì tratta di definire i poteri delegati perché siano effettivi, senza peraltro turbare l’andamento generale dell’impresa. In un decentramento ben equilibrato, le due nozioni di potere e di responsabilità devono sempre procedere in coppia.
POTERE E LIBERTÀ
Il concetto di ripartizione dei poteri, nell’impresa come nella società, risulta assai chiarito dal confronto dei termini “potere” e “libertà“. Questi due termini infatti hanno, si può dire, lo stesso senso, solo che il primo esprime una relazione dall’alto al basso, e il secondo una relazione dal basso in alto; o, se si preferisce, il primo significa una capacità d’azione positiva e il secondo una capacità d’azione negativa. Il potere è un potere sugli altri, la libertà è un limite al potere degli altri.
L’organizzazione del potere è la ripartizione dei poteri che sono allo stesso modo poteri-poteri (visti dall’alto) e poteri-libertà (visti dal basso).
Secondo la posizione occupata nel gruppo sociale e secondo il temperamento, gli individui sono portati a desiderare soprattutto poteri-poteri o poteri-libertà.
Nella nazione, per esempio, sono poco numerosi gli individui che desiderano poteri-poteri, cioè poteri di deputato, di ministro, ecc… Tutti, invece, desiderano poteri-libertà, perché tutti, in quanto individui, sono coscienti della loro impotenza di fronte a quello che essi chiamano precisamente “il Potere”, e vogliono avere il potere di agire nella sfera della vita quotidiana, senza essere continuamente disturbati o molestati, cosa che chiamano “la Libertà”.
Nell’impresa è un po’ la stessa cosa. Un piccolo numero di persone ha l’ambizione di diventare direttore, padrone, P.D.G., ma la maggior parte auspicano semplicemente che al livello in cui lavorano non siano minacciati dall’arbitrio dei poteri che sono sopra di loro. Ciò significa che gli uni aspirano principalmente a un potere-potere e gli altri a un potere-libertà.
Tuttavia, siccome in ogni gruppo sociale il numero di coloro che sono nei gradi intermedi o subalterni è infinitamente superiore al numero di coloro che occupano i gradi più elevati, si percepisce una sorta di spaccatura tra il primo gruppo e il secondo – che è reputato detenere realmente “il Potere”, perché i poteri di cui dispone sono quelli che condizionano più profondamente la vita del gruppo sociale e, di conseguenza, la vita dei membri del gruppo. Allora si cerca di ristabilire l’equilibrio tra le due categorie di poteri, in modo tale che i poteri-libertà possano diventare, collettivamente, se non individualmente, poteri-poteri.
Nel campo politico questo problema è fondamentale e la soluzione che vi si dà determina la natura del regime politico. Non lo esaminiamo e ci limitiamo a dire che in Occidente esso è normalmente risolto dall’elezione periodica dei dirigenti. Questi ultimi si vedono attribuire i loro poteri-poteri dai detentori dei poteri-libertà, i quali, a determinati intervalli, dispongono, con i loro voti congiunti, del potere-potere supremo.
Nel campo economico il problema si pone in modo differente perché il potere economico è teoricamente subordinato al potere politico. D’altra parte, l’abbiamo visto, il potere economico si esprime mediante la proprietà, che fa parte del Diritto privato. Dunque, mediante la legislazione del Diritto privato – Diritto di proprietà, Diritto delle obbligazioni, Diritto della responsabilità – deve essere risolta l’organizzazione del potere nell’economia, e in quella unità tipo dell’economia che è l’impresa.
CONTROLLARE IL POTERE ECONOMICO
Sta giungendo tuttavia il momento in cui l’importanza presa dal fenomeno economico nella società politica, la concentrazione dei capitali, la subordinazione delle attività di produzione alle attività monetarie e di credito, il gigantismo delle imprese stesse, finiscono per creare una sorta di Potere economico che pone un doppio problema, quello dei suoi rapporti con il Potere politico e quello dei suoi rapporti con tutti i poteri-libertà dei membri della società economica.
– La soluzione del primo problema non presenta oggi difficoltà reali. Il Potere politico – se la sua volontà è sicura – è sempre armato sufficientemente per contenere nei suoi limiti il Potere economico. Deve piuttosto stare attento a non cedere alla tentazione di sopprimere il Potere economico, con il comunismo, o di indebolirlo eccessivamente con inopportune nazionalizzazioni.
– La soluzione del secondo problema è apparentemente più difficile. Ci si potrebbe pertanto chiedere se il problema esista. Negli Stati Uniti, infatti, paese per eccellenza del capitalismo liberale e dell’economia sovrasviluppata, non è affatto presente. La legge da una parte, le convenzioni collettive dall’altra, sono sufficienti a regolare il tutto. Non vi è alcuna rivendicazione di salariati nel senso sia del comunismo, sia delle nazionalizzazioni, sia della partecipazione ai poteri superiori delle imprese. Le elezioni politiche e le convenzioni collettive sembrano essere un doppio strumento sufficiente al controllo del Potere economico e alla difesa dei poteri-libertà.
Non è lo stesso nei paesi europei dove i titolari dei poteri-libertà vorrebbero esercitare un potere-potere nelle imprese secondo formule diverse di cogestione, di autogestione o di partecipazione – per non parlare del comunismo.
Cogestione, autogestione, partecipazione, con ciascuna di queste parole si intendano cose talmente diverse che non possiamo dedicarci al loro esame. Diremo semplicemente che, per quanto concerne la partecipazione, essa, nel senso ovvio della parola, esiste sempre. Lavorare in una impresa vuol dire partecipare alla sua vita e alla sua opera. Bisogna dunque sapere di quale tipo particolare di partecipazione si intende parlare. Ogni potere nell’impresa è una partecipazione al potere dell’impresa. Se si ha in mente una partecipazione ai poteri superiori che condizionano più profondamente la vita dell’impresa, quelli che a volte sono chiamati poteri di gestione, e che concernono la strategia e la tattica dell’impresa nella lotta economica, questa partecipazione ha senso solo in proporzione ai rischi finanziari che implica. Essa implica, dunque, nello stesso tempo, la proprietà di una parte del capitale in questione. Crediamo che a livello di impresa la soluzione sia abbastanza irrealistica.
MOLTIPLICARE LA PROPRIETÀ
Per contro, siamo convinti che la diffusione della proprietà mobiliare presso i salariati sia, se non la soluzione, per lo meno la condizione della soluzione dell’insieme dei problemi che solleva il Potere economico. Realizzando la democratizzazione della proprietà, si realizza indirettamente la democratizzazione del potere. È rimarchevole, d’altronde, che la proprietà mobiliare sia più largamente diffusa nei due paesi industrialmente più sviluppati, gli Stati Uniti e la Germania.
* * *
Queste sono le riflessioni generali richiamate in noi dal problema del potere nell’impresa.
Ciascuno dei punti sollevati richiederebbe infiniti sviluppi. Abbiamo voluto, qui, tentare soltanto di mostrare il rapporto intimo che esiste, in campo economico, tra il potere e la proprietà. Perdere la coscienza di questo rapporto significa scivolare in partenza per cadere nel totalitarismo che è, nella sua radice, la negazione della libertà.
LOUIS SALLERON