Francesco Pappalardo, Cristianità n. 378 (2015)
1. Nel 476 finisce l’impero romano d’Occidente, dopo che Roma è stata saccheggiata dai visigoti di Alarico (370 ca.-410) nel 410 e dai vandali di Genserico (m. 477) nel 455, mentre la parte orientale dell’impero sopravvive attorno a Costantinopoli, la Nuova Roma creata dall’imperatore Costantino I il Grande (280 ca.-337) dove sorgeva la vecchia Bisanzio.
La scomparsa di un edificio millenario, che era stato portatore di una civiltà straordinaria e aveva riunito sotto un unico scettro tutti i popoli del Mediterraneo e una parte non piccola di quelli dell’Europa continentale, non poteva non colpire l’immaginazione di tanti, che si sono interrogati sul perché di un così grande avvenimento. Il tedesco Alexander Demandt ha stilato un elenco di 210 motivi — dalla crisi di legittimità al surriscaldamento delle terme frequentate dalla classe dirigente, fino all’avvelenamento causato dal piombo delle tubature — indicati di volta in volta dagli storici per spiegare il traumatico evento (1).
In realtà, osserva lo storico Giuseppe Galasso, «perché mai (ci chiediamo) l’impero di Roma non doveva cadere? Quale altro impero non è caduto? Non sarebbe interessante rovesciare, con tali interrogativi, la domanda tradizionale sulla caduta dell’impero? La forza di inerzia non vale in assoluto neppure nel mondo fisico. Meno che mai vale nel mondo storico. Qui l’inerzia, lungi dal cessare solo quando agisce una forza contraria, non c’è, in realtà, mai. Un travaglio ininterrotto agita qualsiasi assetto delle umane cose. Non è, quindi, per concludere, il perché della caduta dell’impero che possiamo e dobbiamo chiederci, bensì soltanto il come» (2). E sul come si è appuntata nei secoli l’attenzione di letterati e di storici.
2. Nel dibattito si è inserito lo storico e giornalista francese Michel De Jaeghere — direttore di Figaro Hors-Série dal 2001 e del bimestraleFigaro Histoire dal 2012 — con Gli ultimi giorni. La fine dell’impero romano d’Occidente (3).
L’opera si compone di tre parti, quella introduttiva, La catastrofe (pp. 13-42); quella centrale e molto ponderosa, Il concatenarsi degli eventi(pp. 43-531), dove l’autore descrive gli avvenimenti dal 376, anno dell’irruzione dei goti in Tracia, nell’estremità sudorientale della penisola balcanica, al 476, quando viene deposto Romolo Augusto (461 ca.-dopo il 511), l’ultimo imperatore d’Occidente, noto anche con il diminutivo di «Augustolo», cioè «piccolo Augusto»; e la terza, intitolataL’avvertimento (pp. 533-597), in cui prende in esame le interpretazioni sulla fine dell’impero e indaga sulle cause della sua caduta «[…] per cercare di trarne delle lezioni» (p. 544). De Jaeghere ritiene, infatti, che «la storia dell’impero romano possa essere un insegnamento per noi» (p. 597), poiché il suo lungo declino ricorda da vicino quello della nostra civiltà.
I contemporanei, fossero essi pagani, come il sofista greco Eunapio di Sardi (347-dopo il 414) e lo storico, pure greco, Zosimo (fine III secolo-inizio IV secolo), oppure cristiani, come il presbitero e storico romano Paolo Orosio (375 ca.-420 ca.) e il presbitero e scrittore Salviano di Marsiglia (400/405-dopo 451), hanno ritenuto che un evento così catastrofico e così inatteso dovesse avere necessariamente cause soprannaturali. I primi hanno visto in esso un effetto della collera degli dèi abbandonati: la religione tradizionale aveva assicurato per secoli la protezione divina alla città, ma l’avvento del cristianesimo aveva rotto quella pax deorum a cui Roma doveva la propria invincibilità sui campi di battaglia e la favolosa estensione dell’impero. I secondi hanno letto la caduta come la conseguenza dei peccati di un mondo diventato cristiano solo in superficie.
Gli autori cristiani, nell’euforia per l’avvento di Costantino, avevano creduto inizialmente che l’impero avesse una missione quasi messianica, cioè che, convertitosi, rappresentasse una realizzazione almeno parziale delle loro speranze escatologiche. Sant’Agostino d’Ippona (354-430) non condivide questo ottimismo: la città dei credenti, dei vivi e dei morti, la Città di Dio, è la sola a godere delle promesse della vita eterna, mentre alla città degli uomini spetta di subire i disegni insondabili della Provvidenza. Peraltro, sant’Agostino non predica affatto il rifiuto totale degli affari secolari: a un contemporaneo che gli scrive, chiedendo se le calamità pubbliche non siano segni premonitori della fine del mondo, risponde che un cristiano deve prepararsi per il Giudizio e non indovinarne il momento; deve essere pronto ad accettare la catastrofe preparandovisi con la preghiera e con le buone opere, ma ciò non lo dispensa dal fare quanto in suo potere per evitare che essa sopraggiunga (cfr. pp. 339-340).
L’interesse per la tarda antichità, e in particolare per il periodo storico comprendente la decadenza e la caduta dell’impero romano d’Occidente, è stato molto vivo in età umanistica e rinascimentale. Per Francesco Petrarca (1304-1374) — che riprendeva la tesi di Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) sulla virorum penuria (4) — la caduta di Roma era dovuta soprattutto alla carenza di grandi uomini. Lo storico e umanista Flavio Biondo (1392-1463) e lo scrittore e uomo politico Leonardo Bruni (1370-1444) polemizzano a lungo fra di loro sul declino dell’impero. In realtà, entrambi ne vedono la causa nell’abbandono dei costumi antichi: per il primo l’inclinatio aveva conosciuto un momento decisivo nel saccheggio di Roma da parte dei goti di Alarico, mentre per Bruni — che parla di vacillatio — le virtù amministrative, militari e culturali che avevano reso grande l’Urbe erano venute meno già nel secolo precedente, al momento delle prime invasioni.
Alcuni filosofi e storici illuministi del secolo XVIII, come il francese François-Marie Arouet, detto Voltaire (1694-1778), e l’inglese Edward Gibbon (1737-1794), hanno ritenuto che la caduta dell’impero fosse dovuta principalmente al cristianesimo — che avrebbe contestato i tradizionali culti pagani, privando i romani dell’antico spirito combattivo — e alla diffusione del monachesimo, perché «una gran parte della ricchezza pubblica e privata fu consacrata alle speciose esigenze della carità e della devozione, e la paga dei soldati fu prodigata alle inutili moltitudini di ambo i sessi, che non potevano vantare che i meriti dell’astinenza e della carità» (p. 537).
Ma De Jaeghere ribadisce quanto è già noto agli storici accademici e cioè che Roma non è caduta per colpa del cristianesimo. Agl’inizi del secolo V i cristiani nell’impero romano d’Occidente sono solo il dieci per cento ma non si disinteressano affatto della cosa pubblica, anzi si mostrano molto più attrezzati dei pagani ad affrontare le grandi crisi. Come ha spiegato in chiave sociologica Rodney Stark, «in città piene di senzatetto e poveri il cristianesimo offriva carità oltre che speranza. In città piene di nuovi arrivati e stranieri, il cristianesimo offriva una base immediata di legami interpersonali. In città piene di orfani e vedove, il cristianesimo forniva un nuovo e ampio senso della famiglia. In città lacerate da violenti conflitti etnici, il cristianesimo offriva una nuova base di solidarietà sociale. […] L’assistenza ai malati in periodi di pestilenza, il rifiuto dell’aborto e dell’infanticidio, la fecondità e la forza organizzativa delle comunità sono concetti centrali della dottrina cristiana» (5). Essi cercano di mantenere in vita Roma e la sua cultura, anche con vescovi e intellettuali come sant’Ambrogio (337 ca.-397) e sant’Agostino, con validissimi generali, come Stilicone (359-408) ed Ezio (390 ca.-454), e con tanti fedeli soldati.
Nel secolo XIX si è affermata una storiografia critica, che non prende più come oro colato le testimonianze delle sole fonti letterarie e i pregiudizi ideologici di chi si sforza di spiegare la complessità del reale con ipotesi semplicistiche e tributarie di un orientamento politico o culturale.
Tuttavia, se gli studiosi ottocenteschi e novecenteschi hanno presentato la fine dell’impero romano d’Occidente in termini catastrofici, come una profonda rottura causata dagl’invasori germanici, negli ultimi decenni si è fatta strada una visione assai meno drammatica, riassunta in una formula spiritosa e paradossale da Patrick J. Geary: «Il mondo germanico fu la più grande e la più duratura opera del genio politico e militare di Roma» (6). Nel 1971 lo storico irlandese Peter Brown (7) ha messo al bando le idee di decadenza e di crollo, sostituite da quella di una rivoluzione culturale e religiosa che ha portato piuttosto a una grande trasformazione, iniziata sotto il tardo impero, all’incirca nel secolo II, e proseguita a lungo dopo la sua fine. Anche lo studioso canadese Walter Goffart ha parlato di mito storiografico: «Ciò che noi chiamiamo la caduta dell’impero romano d’Occidente non era che un esperimento originale andato un po’ fuori controllo» (8).
Si preferisce, dunque, parlare di una mutazione feconda, quasi indolore, di una lunga fase di transizione, definita ora come «tarda antichità» (9), che va dal secolo III al secolo VI, in cui avviene l’epocale passaggio storico dal mondo classico e pagano a quello cristiano, e si ritiene che i barbari romanizzati abbiano conservato l’essenziale delle istituzioni preesistenti e consentito lo sviluppo di una civilizzazione per niente inferiore a quella romana.
De Jaeghere porta come esempio di questa tendenza l’esposizioneRoma e i barbari. La nascita di un nuovo mondo, tenutasi nel 2008 a Venezia, dove l’associazione di capolavori dell’arte tardoimperiale — come il busto d’oro di Marco Aurelio (121-180) o il ritratto di Claudio II il Gotico (213-270) — a opere di oreficeria rinvenute nelle tombe principesche dei regni romano-barbarici succedutisi, dopo il secolo V, all’impero d’Occidente, mette in evidenza una certa continuità artistica, mirando a ricusare l’idea che la scomparsa dell’impero si fosse tradotta in una scomparsa di civiltà e ad avallare l’idea di un cambiamento fecondo, di un nuovo inizio. Nel catalogo della mostra la tesi viene così riassunta: «Lungi dall’essere la fine di tutto, questo sommovimento rappresenta il punto di partenza di una nuova storia e questa immigrazione salutare, allora così mal gestita, ha costituito un elemento essenziale della ricchezza dell’Occidente. Quest’ultimo era ormai abbandonato a se stesso e ai “suoi” barbari da un impero d’Oriente che si sforzava di sopravvivere, più lontano che mai. Ma un fenomeno ancora inedito si impose e produsse in Europa effetti uguali se non maggiori delle conquiste guerriere: l’integrazione, promessa di un mondo nuovo» (pp. 32-33).
Così ridefinite, le invasioni germaniche cessano di essere un oggetto di studio e diventano il supporto di una rilettura ideologica destinata a rassicurare coloro che, osservando gli ultimi secoli di vita dell’impero, sono indotti a riflettere sulla situazione dell’Europa contemporanea:«[…] ogni analogia fra la nostra situazione e quella dell’impero romano— rileva De Jaeghere — finisce alla lunga con l’essere interdetta e sospettata di retropensieri xenofobi» (p. 33).
Anche al medievista Paolo Delogu sembra che «[…] la storiografia recente tenda a descrivere i fenomeni del passato in modo consentaneo ai problemi dell’odierna società occidentale avanzata, che si avvia a diventare multietnica e si preoccupa di attenuare il peso dei contrasti di civiltà, esaltando invece le ipotesi di integrazione fra gruppi etnici e culturali posti a contatto dalle nuove migrazioni» (10).
In effetti, anche se la cesura non è stata immediatamente percepita dai contemporanei, le fonti mostrano che il crollo si è tradotto, per i popoli europei, in un disastro paragonabile nella storia del mondo a pochi altri. Nota lo storico e archeologo britannico Bryan Ward-Perkins in un saggio caustico che si rivolge con vigore contro le nuove interpretazioni storiografiche: «La nuova ortodossia vorrebbe che il mondo romano si fosse progressivamente e senza grandi scosse trasformato nel mondo medievale. Questo nuovo approccio si scontra tuttavia con un problema insormontabile: l’abbondanza di testimonianze archeologiche indiscutibili che mostrano una caduta brutale del modo di vita dal V al VII secolo. Questo cambiamento toccò tutti, dai contadini ai re e ai santi i cui corpi riposavano nelle chiese. Non fu una trasformazione. Fu un declino di un’ampiezza tale che si può ragionevolmente descrivere come la fine di una civiltà. […] con la caduta dell’impero l’arte, la filosofia e le buone fognature scomparvero tutte dall’Occidente» (11).
Se è vero che le terme di Diocleziano, le più grandi dell’Urbe, continuano a funzionare, con tutti gli acquedotti, fino al 537, quando gli ostrogoti di Vitige (m. 540) assediano Roma per strapparla ai bizantini e interrompono definitivamente il flusso dell’acqua, è anche vero che negli stessi decenni si assiste alla contrazione delle città, alla scomparsa delle scuole, all’abbandono delle terre coltivate, alla conseguente avanzata delle foreste e al ritorno a un’economia di scambio (cfr. pp. 39-42).
Incalza Ward-Perkins: «Io penso anche che una visione del passato che si prefigga esplicitamente di eliminare ogni crisi, ogni declino, rappresenti un reale pericolo per il giorno d’oggi. La fine dell’Occidente romano vide orrori e disordini quali io spero sinceramente di non dover mai sperimentare, oltre a distruggere una complessa civiltà, facendo retrocedere gli abitanti dell’Occidente a un livello di vita tipico della preistoria. Prima della caduta di Roma, i Romani erano sicuri quanto lo siamo noi oggi che il loro mondo sarebbe continuato per sempre senza sostanziali mutamenti. Si sbagliavano. Noi saremmo saggi a non imitare la loro sicumera» (12).
3. Per quanto riguarda le cause della caduta dell’impero — «l’evento più degno di nota e più importante della storia universale» (cit. p. 535), secondo lo storico tedesco dell’antichità Eduard Meyer (1855-1930) —, De Jaeghere parla di un processo, di una prolungata decadenza, che lega fra loro le diverse spiegazioni proposte, anche se è difficile distinguere in maniera netta le cause esterne da quelle interne.
Quanto alle prime, è impossibile negare il carattere decisivo della grande migrazione degli unni, che, come illustrato dallo storico britannico Peter Heather (13), ha letteralmente scagliato il mondo germanico contro l’Occidente. Tuttavia, le invasioni barbariche non sono l’unico problema che Roma deve affrontare nell’ultimo secolo di vita. Le guerre civili, le agitazioni sociali, l’eccezionale appesantimento dell’apparato governativo e la dilatazione di spese improduttive innescano una spirale di problemi, cui si aggiungono la decadenza dei costumi, come ha ricordato Papa Benedetto XVI (2005-2013) parlando«[…] del tramonto dell’Impero Romano. Il disfacimento degli ordinamenti portanti del diritto e degli atteggiamenti morali di fondo, che ad essi davano forza, causavano la rottura degli argini che fino a quel momento avevano protetto la convivenza pacifica tra gli uomini. Un mondo stava tramontando. Frequenti cataclismi naturali aumentavano ancora questa esperienza di insicurezza. Non si vedeva alcuna forza che potesse porre un freno a tale declino» (14).
A partire dal secolo III si manifesta un palese declino demografico, che lo storico francese identifica come causa principale della decadenza. La crisi economica e l’insicurezza scoraggiano una natalità già debole da tempo e le nascite non riescono a compensare le significative perdite umane dovute alle invasioni e alle guerre, oltre che a varie epidemie, fra le quali la Peste Antonina (165-180), una pandemia di vaiolo o forse di tifo, che produce almeno cinque milioni di morti, e la Peste di Cipriano — così detta dal nome di san Cipriano (210 ca.-258), vescovo di Cartagine —, probabilmente un’epidemia di morbillo o ancora di vaiolo, che imperversa in tutto l’impero fra il 251 e il 270.
Si produce quella che lo storico irlandese Eric Dodds (1893-1979) ha definito «età dell’angoscia» (15): la denatalità porta alla crisi dell’amministrazione, del sistema stradale e dell’erogazione di acqua su lunghe distanze e così aumentano la vulnerabilità alle malattie e l’emigrazione. L’aristocrazia romana si trasforma da élite militare aélite latifondista, interessata più ai piaceri che alla difesa dell’impero, e smette di fare figli. Lo storico Publio Cornelio Tacito (56/58-120 ca.) evoca le manovre dei senatori per aggirare le norme che vietavano l’accesso alle magistrature a coloro che non avevano discendenza: «I matrimoni divennero sempre meno frequenti e si allevarono sempre meno figli, perché era meglio essere senza eredi» (p. 559). L’esempio delle classi dirigenti, come sempre accade, fa proseliti. Lo scrittore Petronio Arbitro (27-66) denuncia nel Satyricon che «[…] nessuno riconosce i figli, poiché chiunque ha eredi legittimi, non trova posto né a pranzi né a spettacoli, ma, escluso da ogni vantaggio, si perde tra i rifiuti. Quelli invece che non presero mai moglie e non hanno parenti prossimi, conseguono i più alti onori, come a dire che passano per campioni di ardimento, per campioni di fermezza, non che per anime candide» (pp. 559-560).
Lo storico francese Pierre Chaunu (1923-2009) ha analizzato il crollo demografico del tardo impero, dai sessanta milioni di abitanti del secolo II ai trenta milioni del secolo IV (16). È quella che De Jaeghere definisce «demografia del declino» (p. 557). Nel secolo IV il ritorno a una relativa pace non si traduce, infatti, in un aumento della natalità: le famiglie sono fragili e poco feconde, dilagano l’aborto e l’infanticidio, il concubinato resta la regola, sotto l’influsso dei costumi ellenistici il divorzio è sempre più frequente, la mortalità rimane alta e aumenta il numero di maschi adulti che dichiarano di volere avere esclusivamente relazioni omosessuali. Di conseguenza, per mancanza di braccia, aumenta considerevolmente la superficie delle terre non più coltivate. Dal punto di vista economico meno popolazione significa meno produttori e meno soggetti che pagano le tasse. Le costituzioni imperiali della fine del secolo IV e dei primi decenni del secolo V testimoniano una massiccia riduzione dell’imponibile fondiario, in Italia come in Africa. L’impero reagisce aumentando le tasse, fino a deprimere l’economia e anche a incassare meno, perché molti vanno in rovina. Nelle campagne molti piccoli proprietari che non sono in grado di pagare vanno a ingrossare le schiere della criminalità e del banditismo.
Come tutte le civiltà antiche, la società e l’economia romane si fondano sulla schiavitù, e la soluzione alla denatalità dei liberi è cercata anzitutto nell’accrescere la natalità degli schiavi, i quali, però, non hanno alcun interesse a difendere in armi i loro padroni. Poiché l’immigrazione rappresenta un serbatoio di mano d’opera servile, soprattutto alle frontiere si crea un vero e proprio mercato di schiavi a buon prezzo. Alcuni gruppi e tribù germaniche entrano pacificamente nell’impero attraverso le frontiere ormai deboli e vi s’installano. È un fenomeno che viene tollerato e molti sono accolti per ripopolare zone ormai abbandonate e per rilanciare l’agricoltura. Fra il 376 e il 411, un milione di barbari entrano nei territori dell’impero, inquadrati in varie categorie: immigrati, rifugiati o deportati. Le popolazioni germaniche entrano nell’impero a causa della pressione degli unni, che non può essere imputata alle classi dirigenti romane, le quali, però, non sanno governare bene l’immigrazione, favorendo accessi indiscriminati.
Infine, il calo demografico generale riduce le capacità militari e di sicurezza dell’impero. Già i poeti Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.) e Sesto Properzio (47-14 a.C.) e lo storico Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.) avevano deplorato la scomparsa dei contadini della campagna romana, che avevano rappresentato fino ad allora il nerbo delle legioni. L’editto dell’imperatore Caracalla (188-217), che nel 212 — soprattutto per cercare di aumentare le entrate — concedeva la cittadinanza romana a quasi tutti gli abitanti dell’impero, rendeva meno appetibile l’arruolamento a quanti si accingevano ad assumere quel gravoso impegno proprio con il miraggio della cittadinanza, concessa appunto a quanti combattevano sotto le aquile romane. L’esercito comincia a soffrire di questa penuria di uomini e in parallelo il fisco fa fatica a raccogliere i fondi necessari per arruolare le truppe mercenarie. Sarà fatale, a quel punto, la decisione di reclutare gl’immigrati, snaturando la composizione delle legioni. All’inizio del secolo V gli arruolati ammontano a circa mezzo milione di uomini, ma più della metà sono di origine germanica e la loro lealtà appare legata più alla persona dei comandanti che all’impero. A poco a poco, i germani accedono ai gradi superiori dell’esercito, al consolato e, alla fine del secolo IV, alla famiglia imperiale: Flavio Onorio (384-423), figlio di Teodosio (347-395), sposa la figlia del vandalo Stilicone, il primo dei magister militum di origine barbarica. La caduta in disgrazia di questi e la sua morte sono seguite da ondate di diserzioni, che vanno a ingrossare le file dell’esercito di Alarico, il quale due anni dopo può saccheggiare Roma, a otto secoli di distanza dall’ingresso delle tribù galliche nell’Urbe.
Cercando la causa delle cause, De Jaeghere cita lo storico e accademico francese René Grousset (1885-1952), secondo il quale«nessuna civiltà […] viene distrutta dall’esterno senza essere prima caduta essa stessa, nessun impero viene conquistato dall’esterno se non si è prima suicidato. E una società, una civiltà, non si distrugge con le sue mani se non quando ha cessato di comprendere la sua ragion d’essere, quando l’idea dominante attorno a cui essa fu in origine organizzata gli diviene come estranea. Tale fu il caso del mondo antico» (p. 555).
Pierre Grimal (1912-1996), storico e latinista francese, interessandosi non alle cause della caduta dell’impero ma a quelle della sua ascesa e restando lontano da ogni idealizzazione dei costumi dell’antica Roma, pone in evidenza le due virtù della pietas e della fides. La prima consiste nel conformare la propria condotta a un certo ordine, che non è solo quello che una società può aver stabilito fra gli uomini, ma anche quello dell’universo intero, divino prima che umano. Roma deve la sua origine all’eroe Enea che fugge da Troia portando il padre Anchise sulle spalle, il figlioletto Ascanio per mano e gli dèi Penati nel mantello: vale a dire, salvando ciò che la pietas gli ha comandato di salvare e assicurando la sopravvivenza di tutto ciò che — dèi e uomini — costituisce il nocciolo di una nazione. «Gli esseri umani, a Roma, non si considerano ognuno come un centro di potere, una monade anarchica, ma si pensano come i depositari di una razza che essi devono perpetuare in virtù dell’ordine del mondo» (p. 556).
L’altra virtù è la fides, che non va confusa con la lealtà, con la quale peraltro è imparentata. La natura della fides si rivela attraverso la sua immagine simbolica: una mano destra avvolta da un panno bianco, la forza vittoriosa che tiene la spada e che in virtù del diritto del vincitore può massacrare il vinto, ma che in virtù della fides viene tesa al supplice per accordargli la vita. Questo gesto, così semplice ma così inatteso in un mondo dove tutto sembrava regolato dal principio della forza, costituisce una delle caratteristiche principali della grandezza romana. È sulla fides che si fonda l’assimilazione dei vinti, è essa che ha permesso a un impero costituitosi con la forza di godere di una pace civilizzatrice.
La pietas, cioè la lealtà alle tradizioni morali e religiose trasmesse dai padri, aveva dato ai romani l’energia vitale per sopravvivere e perpetuarsi; la fides, la fedeltà alla parola data e agl’impegni assunti come cittadini romani nei confronti della patria, aveva costituito il mezzo per non soccombere alla vertigine dell’onnipotenza. «Fides epietas: la caduta dell’impero non si deve forse al fatto che i romani si erano allontanati da entrambe le virtù fondatrici?» (p. 557).
De Jaeghere non indaga ulteriormente sulle ragioni strettamente religiose del declino, sulle quali si è soffermato invece il sociologo delle religioni Rodney Stark, mostrando come la crisi della religione pagana, non più persuasiva per nessuno, sia alle origini del declino della pietas. Nel corso delle grandi epidemie anche il paganesimo si era ammalato seriamente, rivelandosi incapace di affrontare la crisi socialmente e spiritualmente; il cristianesimo, che sapeva trovare in sé le ragioni per difendere l’impero, era però ancora minoritario e non poteva costituire — almeno per il momento — una valida alternativa alle antiche religioni (17).
Pur con le tutte cautele necessarie a evitare giudizi anacronistici, abitualmente interroghiamo il passato in relazione alle domande che ci pongono i nostri tempi. L’opera di De Jaeghere, che sembra tener costantemente di mira il presente, offre delle risposte convincenti.
La caduta di Roma mostra che tutte le grandi civiltà finiscono e che generalmente l’inizio del declino è demografico: cadono quando non fanno più figli, perché la denatalità innesca una spirale di tasse insostenibili, statalismo dell’economia e cattivo governo dell’immigrazione. A ciò si aggiunge di regola la crisi delle religioni tradizionali e il conseguente tracollo della moralità, sia pubblica sia personale. Per di più oggi gl’immigrati, a differenza delle popolazioni germaniche di un tempo, sono portatori di un pensiero molto forte e non ambiscono ad assimilare la nostra cultura, anzi vogliono convincerci della superiorità della loro e talvolta ci riescono. «La crisi che potrebbe seguirne potrebbe essere ancora più letale di quanto fu per l’Europa la caduta di Roma. Per questo, discutere sulle ragioni della caduta dell’Impero romano d’Occidente non è un puro esercizio intellettuale» (18).
Note:
(1) Cfr. Alexander Demandt, Der Fall Roms. Die Auflösung des römischen Reiches im Urteil der Nachwel, «La caduta di Roma. La dissoluzione dell’impero romano nel giudizio dei posteri», C.H. Beck, Monaco di Baviera 1984.
(2) Giuseppe Galasso, Come finisce un impero, in Corriere della Sera, Milano 22-1-2007.
(3) Cfr. Michel De Jaeghere, Les derniers jours. La fin de l’empire romain d’Occident, Les Belles Lettres, Parigi 2014, pp. 658, con 22 cartine a colori fuori testo. Tutti i riferimenti fra parentesi nel testo rimandano a quest’opera.
(4) Cfr. Santo Mazzarino (1916-1987), La fine del mondo antico, 1959, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 27.
(5) Rodney Stark, Ascesa e affermazione del cristianesimo. Come un movimento oscuro e marginale è diventato in pochi secoli la religione dominante dell’Occidente, trad. it., Lindau, Torino 2007, pp. 218 e 286.
(6) Patrick J. Geary, Before France and Germany. The creation and transformation of the Merovingian world, Oxford University Press, New York-Oxford 1988, p. 6.
(7) Cfr. Peter Brown, Il mondo tardo antico. Da Marco Aurelio a Maometto, trad. it., Einaudi, Torino 1974.
(8) Walter Goffart, Barbarians and Romans, a. D. 418-584. The techniques of accomodation, Princeton University Press, Princeton (New Jersey) 1980, p. 35.
(9) Cfr. Henri-Irénée Marrou (1904-1977), Decadenza romana o tarda antichità? III-VI secolo, trad. it., Jaca Book, Milano 1997.
(10) Paolo Delogu, Le origini del Medioevo. Studi sul settimo secolo, Jouvence, Roma 2010, p. 149.
(11) Bryan Ward-Perkins, La caduta di Roma e la fine della civiltà, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 8-9 e p. 6.
(12) Ibid., p. 107.
(13) Cfr. Peter Heather, La caduta dell’Impero romano, trad. it., Garzanti, Milano 2008.
(14) Benedetto XVI, Discorso ai Cardinali, agli Arcivescovi, ai Vescovi e ai Prelati della Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi, del 20-12-2010, in Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. VI, 2, 2010. (Luglio-Dicembre), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011, pp. 1053-1062 (pp. 1053-1054).
(15) Cfr. Eric Robertson Dodds, Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia. Aspetti dell’esperienza religiosa da Marco Aurelio a Costantino, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1973.
(16) Cfr. Pierre Chaunu, Un futur sans avenir. Histoire et population, Calmann-Lévy, Parigi 1979.
(17) Cfr. R. Stark, op. cit., pp. 259-292.
(18) Massimo Introvigne, Denatalità, tasse immigrazione. Ecco perché finiremo come l’Impero Romano, in La nuova Bussola Quotidiana, quotidiano online, del 23-2-2015.