di Marco Respinti
Il caso della 17enne immigrata clandestina dall’America Centrale che mercoledì 25 ottobre, dopo un’aspra battaglia legale durata settimane, ha abortito il figlio che portava in grembo con gran concorso dell’American Civil Liberties Union (ACLU) ha profondamente turbato il ministro della Giustizia degli Stati Uniti, Jeff Sessions.
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Lo ha detto il ministro in diretta tivù, nel corso di un’intervista rilasciata a Bret Baier su Fox News. Lo ha detto con quella sua inconfondibile parlata “sudista”, sovrapponendo un po’ le sillabe come fa lui, che potrebbe sembrare balbuzie o se non altro estrema timidezza. Con voce accorata, struggente, inusitata per un alto esponente del governo del Paese più importante del mondo. L’Amministrazione Trump è decisamente pro-life, ma il ministro Sessions ha aggiunto del proprio, è andato oltre, praticamente si è sfogato davanti a tutto il Paese, di fronte al mondo intero. «È un problema serio, non sarebbe dovuto succedere e ne siamo turbati», «[…] we’re disturbed, I’ve got to tell ya», ha detto a Baier per dirlo a tutti, facendolo come si parla colloquialmente, come quando ci si deve liberare da un peso sullo stomaco, guardando dritto l’interlocutore negli occhi e attraverso la cinepresa tutta l’umanità, prendendo il mondo quasi sottobraccio, parlando preoccupati come si fa con un figlio che ne ha fatta una di troppo.
«Non si debbono usare i dollari dei contribuenti per finanziare gli aborti e certamente il caso in questione non aveva giustificazioni». In inglese lo ha detto così: «I don’t believe that we should be using taxpayers’ dollars to fund abortions and I think in this case, it certainly was not justified». Quando vuole essere assertiva la lingua inglese usa forme di “cortesia imperativa”: «Non credo che…», «Penso che…». Sono una versione dell’understatement: dichiarano perentoriamente, usando retoricamente la forma soggettiva. Il ministro Sessions non avrebbe potuto comunicare meglio il disgusto e la contrarietà che lo gravano.
La 17enne latina turlupinata dall’ideologia abortista dei poteri davvero forti resta senza nome, ma è convintissima di quel che ha fatto. Straparla di giustizia, di futuro migliore, di “l’utero è mio e lo gestisco io”, tira in ballo persino Dio e dice che la soppressione del suo piccolino è solo una cosa fra lei e Lui . “Jane Doe”, la chiamano, impiegando il nome de plume che il gergo giuridico statunitense usa sempre quando non si conosce l’identità di un tal soggetto o quando la si vuole tenere segreta. Esiste anche il corrispettivo maschile, “John Doe”; da noi sarebbe “il sig. Rossi”, e “signora”. Nel mondo anglofono è così dai tempi di re Edoardo III d’Inghilterra (1312-1377).
Il caso della “Jane Doe” 17enne clandestina tiene banco negli Stati Uniti da giorni. Priva di documenti, più di un mese fa aveva cercato di attraversare illegalmente la frontiera tra Messico e Texas, ma è stata fermata e trattenuta a Brownsville, in carico al ministero della Salute. Le cure mediche cui è stata sottoposta hanno rivelato che era incinta. Ha cercato di entrare clandestinamente negli Stati Uniti per cercare una vita diversa e la prima cosa che ha pensato è stata quella di sopprimere il bimbo di poche settimane che portava in grembo. Le autorità statunitensi gliel’hanno però impedito, nella fattispecie l’Office of Refugee Resettlement (ORR), un dipartimento del ministero della Salute che si occupa di minori e di famiglie rifugiati. Il fatto che la legge del Texas impedisca ai minorenni di subire aborti senza il consenso dei genitori è stato lo strumento pratico usato per cercare di salvare la vita al piccino di “Jane Doe”. Ne è nata una vicenda legale incendiaria su cui ha gettato benzina l’ACLU.
Ora, l’ACLU è una famosissima e potentissima ong di sinistra che si batte per i “diritti civili”: vale a dire per il diritto di aborto, per l’ideologia “gender”, per sbattere sempre il “mostro” conservatore in prima pagina. La sua influenza in casi giuridici decisivi che hanno finito per alterare in peggio l’ordinamento degli Stati Uniti è incalcolabile. Praticamente un Partito Radicale versione magnum. Per sopprimere il piccolo che “Jane Doe” portava nel ventre, l’ACLU ci ha messo denari e avvocati.
Il 25 settembre la 17enne clandestina il permesso di abortire lo aveva anche ottenuto, ma il ministero della Salute le ha letteralmente impedito di spostarsi dal centro di accoglienza che l’ospitava. «Il governo federale», scriveva livorosamente l’ACLU prima che la tragedia si compisse, «ha una nuova politica che consente di fermare la decisione di un minore non accompagnato di avere un aborto e i funzionari del governo stanno facendo di tutto per evitare che la signorina Doe possa accedere all’aborto». Meriterebbero una bottiglia di champagne. «La nuova politica è una creazione di E. Scott Lloyd, l’uomo che il presidente Trump ha nominato a capo dell’ORR nel marzo 2017». La prima coppa del suddetto champagne a lui e la seconda a Trump. Prima di questa nomina importantissima, Lloyd era un pezzo grosso dei Cavalieri di Colombo, la più grande charity cattolica del mondo, rigorosamente pro-life e pro-family. Del resto il ministero della Salute dell’era Trump ha appena messo nero su bianco che la vita umana inizia dal concepimento e finisce con la morte naturale, e che le strutture sanitarie del governo degli Stati Uniti faranno di tutto per difendere questa posizione.
Alla fine però l’ACLU l’ha purtroppo spuntata. Martedì 24 ottobre la Corte d’Appello di Washington, a cui il caso era arrivato, ha deciso per la soppressione di una vita umana innocente. “Jane Doe” ha lasciato subito il centro di accoglienza di Brownsville e alle 4,30 del mattino di mercoledì ha abortito, in fretta, in segreto, prima, dice Sessions in televisione, che si potesse controbattere alla decisone della Corte d’Appello.
Se il ministro deciderà di andare avanti il caso finirà alla Corte Suprema.
Ma è questo incubo il progresso che i liberal americani prospettano per i milioni di clandestini che cercando di sfuggire a fame e miseria?