Giovanni Cantoni, Cristianità n. 54 (1979)
Dopo trent’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, il Partito Comunista Italiano rimane ancora estromesso dal potere politico ufficiale grazie alla resistenza anti-comunista del popolo italiano e nonostante le pressioni, le tentazioni e i tradimenti a cui questo stesso popolo è stato sottoposto nell’arco di questo periodo. Al fine di superare questa impasse e per riproporre quella politica di solidarietà nazionale che permetta al PCI di legittimare “democraticamente” il suo ingresso al governo, i socialisti lanciano una “grande Riforma” costituzionale. Una Costituzione ancora più rivoluzionaria dell’attuale nelle intenzioni della maggioranza della classe politica italiana.
Il “compromesso storico”, dunque, era e rimane il mezzo con cui il Partito Comunista Italiano punta al potere e al governo nel nostro paese. Nonostante le difficoltà verificate nel corpo sociale, tale linea politica non conosce alternativa reale ed è quindi sostanzialmente confermata dai suoi promotori (1).
Se, con ogni evidenza, non può cambiare il fine ultimo del comunismo, e quindi della Rivoluzione; se neppure il mezzo, cioè la politica per il perseguimento di tale fine, è suscettibile di reale mutamento, qual è lo scopo della “tregua operosa” che, dalla consultazione del 3 giugno 1979, caratterizza la nostra vita politica e che, dopo l’insuccesso dell’on. Craxi, ha partorito il vigente governo guidato dall’on. Cossiga?
Questa la domanda, il quesito che aleggia sull’Italia in questo autunno né troppo caldo né troppo freddo, ma tiepido!
Rispondere a tale quesito, o almeno abbozzare una risposta a esso, significa anzitutto e principalmente riesaminare la nostra situazione politica, e non solamente politica, da diverse angolazioni.
Il fine della setta comunista rimane immutato
Comincio ritornando al primo asserto, secondo cui non può cambiare il fine ultimo del comunismo, e quindi quello della Rivoluzione. Infatti, un tale mutamento comporterebbe – se mai avesse a verificarsi – il venire meno della intentio storicamente rilevante di costruire un mondo, un “ordine nuovo” diametralmente opposto alla civiltà cristiana, di costruire una società – meglio, una “dissocietà” – retta e organizzata dall’antidecalogo e quindi caratterizzata, per esempio, dagli “istituti” del divorzio e dell’aborto, nonché dal libero amore, e quindi sottratta a ogni influenza della religione, “liberata” da ogni sopravvivenza della famiglia e da ogni residuo della proprietà privata, non solo dei mezzi di produzione ma forse anche dei beni di uso personale.
Ora, il venire meno di una tale intentio comporterebbe, se non il venire meno della “Rivoluzione come categoria” – che equivale al venire meno del peccato, che la fonda e di cui è espressione sociale -, almeno la riduzione sensibile della sua rilevanza storica, e quindi l’esaurimento di questa Rivoluzione, della “Rivoluzione come epoca”, e insieme comporterebbe il corrispondente inizio della dichiarazione e quindi della affermazione storica – compatibile con la situazione umana in hac lacrimarum valle – dei “diritti di Dio” (2).
Credo basti un giro di orizzonte anche superficiale per sostenere con fondatezza, e sulla base della evidenza, che la Rivoluzione non è finita, dal momento che la sua pratica e il suo fine sono tutt’altro che esauriti e che tale esaurimento e tale venire meno avrebbero inevitabilmente una rilevanza tanto potente da accompagnarsi, in un certo senso, ad accadimenti e a manifestazioni simili a fatti escatologici. Del che, per ogni osservatore non fantasioso, non è purtroppo, al momento, questione.
Non sono mutate le condizioni che hanno imposto alla setta comunista la strategia di “compromesso storico”
Vengo ora al secondo asserto, relativo alla invarianza del mezzo con cui il comunismo punta nel nostro paese al potere e al governo, cioè alla permanenza della politica di “compromesso storico”. L’affermazione di tale invarianza è indubbiamente e inequivocamente contenuta in dichiarazioni comuniste autorevoli; la esaminerò perciò esclusivamente dal punto di vista delle condizioni che la rendono assolutamente non abbandonabile. Tali condizioni si possono ridurre, grosso modo, a due.
La prima, e la più importante, è costituita dal fatto che la nostra nazione, la nostra società storica, è sostanzialmente cattolica. Lo spettro di questo cattolicesimo italiano si stende da espressioni residuali e popolari fino a manifestazioni di maggiore consapevolezza, queste ultime spesso disturbate o da elementi di non piccola confusione dottrinale o da scarsa comprensione della attualità da fronteggiare. Comunque, l’importanza e la rilevanza di questo “essere cattolica” dell’Italia si ricava almeno, ex contrario, dal fatto che molti, in essa, al cattolicesimo dicono di ispirarsi e a esso chiedono le ragioni della loro autorevolezza, così come tutti con il cattolicesimo ritengono di doversi confrontare.
Siccome i cattolici sono, potenzialmente, e certamente lo sono in via di principio, i massimi oppositori della Rivoluzione e quindi del comunismo, dal momento che sono o almeno devono essere “uomini di fede e di comandamenti” (3), il rapporto con loro, per i vessilliferi dell’antidecalogo, dell’ateismo e dell’indifferentismo aggressivo, trascorre facilmente in scontro. E lo scontro, qualunque ne sia l’esito, ribadisce e rafforza in essi la consapevolezza della loro identità e contribuisce a trasformare una cristianità paziente e perseguitata in una cristianità missionaria e militante.
Ora, poiché, nonostante tutte le opere di intimidazione, di corruzione e di infiltrazione messe in campo dal comunismo nazionale e internazionale, e nonostante la discutibile difesa del gregge dal lupo da parte del pastore, la cristianità italiana sopravvive e non manca, talora, di dare segni quasi di normalità, non è possibile per il comunismo – ammaestrato dalle lezioni spagnola e cilena – abbandonare la politica di compromesso storico, la cui sostanza è precisamente quella di contemporaneamente intimidire, corrompere e infiltrare il mondo cattolico, l’”area” cattolica, evitando, insieme, nella misura del possibile, ogni forma di spaccatura e di scontro all’interno del corpo sociale, in ciò avvalendosi della collaborazione maliziosa o occasionale di quanti si ostinano a confondere la pace con la semplice assenza di “guerra manovrata“, sicché sotto il nome di pace si può accreditare facilmente anche la “guerra di posizione” (4)!
Quindi, siccome l’Italia è, compatibilmente con i tempi e gli uomini, ancora cattolica, la politica di “compromesso storico” non può assolutamente essere abbandonata da chi, ripeto, sa fare tesoro delle lezioni spagnola e cilena, per citare quelle più significative e quindi divenute emblematiche di “Rivoluzione nella guerra civile” e di “Rivoluzione nella libertà”.
La seconda condizione che rende attuale e non trascurabile da parte del comunismo la citata politica di “compromesso storico”, è determinata da “ragioni internazionali“. Ne faccio enunciare i termini da fonte autorevole. “Se la democrazia italiana – dice Palmiro Togliatti – avesse potuto svilupparsi mantenendo in piedi i Comitati di liberazione nazionale […] come organi di lotta per la democratizzazione del paese e base di un potere nuovo, anche noi avremmo avuto qualche cosa di simile, ma solo per alcuni aspetti, a quello che è avvenuto in Jugoslavia. […] Ma quella strada l’Italia non ha potuto prenderla e non per ragioni dipendenti dalla debolezza del movimento di liberazione nazionale, bensì per ragioni internazionali” (5). Come si può notare, il richiamo a Yalta è evidentissimo, così come la indicazione della zona di influenza di cui fa parte l’Italia.
Perciò, ancora, siccome le zone di influenza determinate a Yalta sono ancora vigenti – anche se il loro processo di erosione si svolge sempre più rapidamente e se, quindi, non è impossibile ipotizzarne una revisione -, non è certo immaginabile, in vista degli anni Ottanta, una riedizione dell’avventura di Markos, la più illustre vittima comunista, nella Grecia dell’immediato dopoguerra, degli infausti accordi che hanno preso il nome dalla località balneare della Crimea.
A questo punto siamo, e su queste basi si appoggia la necessità della “tregua operosa“, tanto utile per pensare al modo di uscire dal vicolo cieco costituito dalla necessità oggettiva di vincere nelle stesse condizioni in cui solo ieri si è perduto, e di vincere, magari a breve o a medio termine, a causa di altre “ragioni internazionali” sopraggiunte, anche se forse, su di esse, l’on. Berlinguer pare avere ottenuta una certa dilazione, che però non sembra essere sine die, almeno per il momento.
I termini della “questione italiana”, così come mi è parso di poterli enunciare, riguardano condizioni storiche ormai tanto antiche, o almeno tanto “vecchie”, da potere legittimamente aspirare allo status di condizioni “naturali”.
Dal momento che di queste condizioni “naturali” non è prevedibile il venire meno a breve termine, e neppure a medio termine, si impone da parte dei comunisti in particolare e dei rivoluzionari in generale, la necessità assoluta di individuare condizioni storiche minori da modificare – cioè, in via di principio, suscettibili di modificazioni -, affinché il rilancio obbligato del “compromesso storico” abbia qualche chance di successo, e non sia pura replica di uno sceneggiato, non a lieto fine, come quello da pochi mesi concluso.
Siccome la Rivoluzione non può mutare in radice senza perdere rilevanza storica e al limite snaturarsi; siccome è altamente improbabile che l’Italia cessi di essere cattolica entro breve tempo, e i sintomi di disaffezione dalla Democrazia cristiana militano piuttosto in senso contrario, così come il disimpegno dell’autorità ecclesiastica nel sostegno di tale partito; siccome l’assetto internazionale definito a Yalta pare a tutt’oggi vigente e comunque dipendente da forze internazionali interagenti, se non interdipendenti, e lente a muoversi; siccome, cioè, le “grandi” regole del gioco non sono oggi mutabili e le variabili al momento smentiscono il loro nome, il panorama offre, come unica possibilità di manovra e di cambiamento, quella relativa alle “piccole” regole del gioco. E la maggiore tra le “piccole” regole del gioco è costituita dalla legge fondamentale dello Stato, dalla carta costituzionale.
Tale legge fondamentale dello Stato, infatti, costituisce la regola, la norma programmatica a cui si deve ispirare tutto l’ordinamento giuridico, del quale è base e vertice, e quindi tutta la vita sociale da tale ordinamento regolamentata.
La vittoria comunista “bloccata” e la “grande Riforma” per sbloccarla
Entrata in vigore il 1° gennaio 1948, la Costituzione italiana si rivela frutto del regime instaurato dal Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), di cui i comunisti furono magna pars, anche se con le limitazioni fino da allora costituite dalle condizioni che oggi ostacolano la piena realizzazione della politica di “compromesso storico” e quindi l’avvento al governo del Partito Comunista. Le analogie fra i due tempi – il triennio precedente il ’48 e il trentennio seguente, emblematicamente chiuso dalla consultazione del 3 giugno 1979 – si ricavano facilmente dalla fungibilità del giudizio comunista sul primo termine del confronto a costituire valutazione pertinente anche del secondo termine di esso.
“Se guardiamo a quel periodo – scrive Luciano Gruppi -, possiamo notare questa contraddizione: da un lato, il movimento operaio e democratico ottenne conquiste istituzionali essenziali, come la Repubblica e una Costituzione democratica avanzata, che, se anche in gran parte non realizzata nelle indicazioni più audaci, non rimase però un pezzo di carta, perché si radicò nella coscienza delle grandi masse, divenne tra esse un forte elemento di unità e di mobilitazione. La rivoluzione democratico-borghese veniva così portata a conclusione, grazie alla lotta della classe operaia, con la repubblica, la Costituzione e la successiva riforma agraria […]. Ma, d’altro lato, la classe operaia fu sconfitta nella lotta per dare al paese un governo capace di seguire la strada additata dalla guerra di liberazione e sancita dalla Costituzione. Sicché l’obiettivo di andare oltre la democrazia borghese fu, nella sostanza, bloccato. Di qui le profonde contraddizioni e le dure lotte degli anni successivi” (6).
Come si vede, i termini di allora sono omologabili a quelli di oggi, il triennio precedente l’entrata in vigore della Costituzione al trentennio scaduto con la votazione del 3 giugno 1979 e, in particolare, al triennio dal 20 giugno 1976 alla consultazione da cui ha preso inizio la vigente ottava legislatura.
Nel giudizio comunista sulla vittoria “bloccata” si possono identificare gli elementi che vanno emergendo nel ribollire politico di questa “tregua operosa” retta dall’on. Cossiga. Anzi, appare sempre più nitidamente l’elemento principale – in quanto unico mutabile – di un quadro minore che si inserisce in modo obbligato nel maggiore quadro politico internazionale e storico.
Dal momento che non si può certo immaginare che – per cambiare la situazione – si riproponga la monarchia al posto della conquistata repubblica, l’unica variabile reale è rappresentata, quindi, dalla “Costituzione democratica avanzata“, cui sostituirne una eventualmente “più avanzata”.
L’alternativa possibile dopo il 3 giugno – il ritorno al centro-sinistra, per riprendere da quella svolta il cammino verso la realizzazione dell’Italia Rossa; oppure la forzatura dei tempi, con il rischio di enormi danni e forse irreparabili guasti allo stato psico-sociale della nazione – pare trovare realizzazione in un programma unitario, il cui termine primo sembra costituito da aggiustamenti alla “strada […] sancita dalla Costituzione“.
Riforma costituzionale, dunque, o “grande Riforma“, la mossa dell’on. Craxi (7), a cui hanno più o meno sollecitamente aderito le altre forze politiche “costituzionali” – e alla quale fa da contrappunto la marcia verso la “nuova Repubblica” proposta e intrapresa dal XII Congresso del Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale, chiuso a Napoli il 7 ottobre 1979 (8) -, costituisce il rilancio formalmente non comunista della politica di solidarietà nazionale, il cui nuovo nome è indicato con “l’espressione felicemente sintetica di “alleanza riformatrice”” (9). L’emergenza, dichiarata non più “congiunturale” ma “storica” – infatti, una congiuntura che dura da più di trent’anni è un fatto storico che può legittimamente aspirare, come dicevo, allo status di fatto “naturale” -, deve essere affrontata non più e non solo in termini di formule di governo all’interno del consueto quadro costituzionale. Necessita piuttosto di nuove coordinate generali, di nuove regole del gioco che permettano di vincere coeteris paribus, senza cioè la necessità – irrealizzabile – che vengano “raddrizzate le gambe ai cani“, cioè che l’Italia cessi in breve di essere cattolica e che salti ora il sistema di Yalta.
Una “alleanza riformatrice” per aiutare la setta comunista a procedere verso il “compromesso storico”
Questo, con ogni evidenza, il senso della mossa dell’on. Craxi, nata dopo l’incontro con l’on. Berlinguer e il rinnovo, in sordina, del vecchio patto di unità d’azione tra comunisti e socialisti, naturalmente mutatis mutandis. Dunque, anzitutto, “alleanza riformatrice” che muti il mutabile nelle regole del gioco e dia al Partito Comunista una nuova e più recente investitura di “padre della patria”, o almeno rinnovi il suo titolo di “padre fondatore”, vincendo così la labilità della memoria storica, dimentica del fatto che la Costituzione è nata dalla Resistenza e che la Resistenza è rossa, e autorizzando fin da subito, senza stallo, ad appoggiare un “sinistra-centro” in mano socialista, e quindi ad avanzare sulla strada sancita dalla “nuova” Costituzione, o dalla Costituzione “rinnovata”, verso la formalizzazione governativa del suo potere reale.
All’appello dell’”alleanza riformatrice” rispondono tutti, anche se diversamente motivati. Per gli uomini del MSI-DN, la mossa socialista è occasione per la reiterata trionfalistica scansione dello slogan “avevamo ragione noi“, che prescinde ampiamente dalle intenzioni e dai contenuti della ipotetica riforma costituzionale, ma che rende a essa sentimentalmente disponibile l’elettorato di destra. Per gli “intrusi elettorali” democristiani, cioè per gli eletti non ancora iniziati alla setta, è motivo di speranza nella riproposizione di una legge elettorale maggioritaria; per i democristiani detti “filosocialisti” – ma in realtà filocomunisti di lungo termine -, è occasione di aggancio del Partito Socialista in prospettiva di governo; per i democristiani “filocomunisti” non esistono problemi di fondo, dal momento che la mossa è accettata dai loro partners ideali (anche se, dopo la scomparsa dell’on. Moro, chi gli è succeduto nella DC alla guida della linea filo-comunista pare non avere eccessiva elasticità strategica, mentre tatticamente il tempo stringe, sì che vi è stata incertezza nel capire la manovra e nell’accoglierla positivamente, apparendo essa piuttosto come un diversivo rispetto all’unico problema considerato reale, quello del governo).
Per i socialisti, la mossa di cui hanno la formale paternità è forse la contropartita indispensabile per andare al governo senza essere erosi da parte della polarità massimalistica alla loro sinistra, e allungando a questo modo il tempo della loro funzionalità al comune progetto rivoluzionario, che è insieme comunista e socialista. Si tratta della realizzazione perfetta del cosiddetto “teorema di Blum”, secondo cui “i socialisti senza i comunisti non possono vincere” (10), confermato da una recentissima confidenza del vecchio leader socialista Pietro Nenni al senatore Giovanni Spadolini: “I socialisti non sono fisicamente in grado di stare in un governo che abbia i comunisti all’opposizione o che comunque in qualche modo non coinvolga il Pci” (11). Combinando questa dichiarazione con la seconda parte del “teorema di Blum” secondo cui “però [i socialisti] con i comunisti non possono governare“, se ne ricava immediatamente la funzionalità dei socialisti all’andata al governo dei comunisti.
Per i comunisti, infine, cioè per l’ala marciante della Rivoluzione, la proposta “socialista” è l’unica mossa di rilievo rimasta possibile nel contesto italiano, dal momento che, anche se si dovesse rivelare meno utile del previsto, la sola approvazione di una Costituzione “più avanzata” di quella attuale rappresenta premessa di eccezionale importanza per fare scivolare il nostro paese su posizioni terzaforziste e neutralistiche, che favoriscono di loro la erosione del sistema di Yalta e si pongono come concausa di una sua ipotetica surroga, con la mutazione, così, di uno dei parametri storici della nostra situazione politica e del loro impasse.
Per gli eredi della Realpolitik lamalfiana, la proposta è di non particolare rilevanza, dal momento che si dovrebbe procedere subito verso esiti più avanzati, senza passare attraverso l’ipotesi della riforma costituzionale, rivelando così, per la ennesima volta, il loro carattere di élite sovversiva che tiene in scarso o nessun conto i dati di massa.
Sospettosi e critici sono – in prima istanza – socialdemocratici e liberali, che non capiscono, da buoni “democratici”, perché non si debba continuare a sostenere come realtà esistente a pieno titolo il governo in carica, dal momento che, grosso modo e almeno minimalisticamente, esprime le linee di tendenza dell’elettorato che ha scelto gli uomini della ottava legislatura.
La “lezione italiana”
Di fronte a questo panorama – e in attesa che si svelino ed emergano le proposte specifiche e concrete di riforma costituzionale, sulle quali portare eventualmente il giudizio nel tempo di “tregua operosa” che rimane, e cioè presumibilmente fino al congresso democristiano di fine gennaio – si può fin da subito denunciare la manovra comunista, sostenendo fondatamente che la “grande Riforma” costituzionale è l’espressione più aggiornata della solita politica di “compromesso storico”, ma non più rivista solamente alla luce delle lezioni spagnola e cilena, ma anche sulla base della grande – credo si possa dire con legittimo orgoglio – “lezione italiana” degli ultimi trent’anni.
Un popolo sottoposto a pressioni enormi, a tentazioni inaudite, a tradimenti impensabili, ha rivelato infatti una virtù e una forza straordinaria, e la Rivoluzione si trova oggi, a suo proposito, nelle condizioni di trent’anni fa, almeno dal punto di vista del potere politico ufficiale.
La sconfitta della Rivoluzione è però – chiaramente – vittoria del passato della nostra nazione, di quanto il passato ci ha trasmesso, dopo averlo prodotto e capitalizzato.
Mi chiedo: fino a quando durerà questa riserva, se non viene al più presto reintegrata? Nella loro storica competizione, farà per prima la mossa sbagliata la Rivoluzione, suscitando una salutare reazione, oppure prima si spegnerà “il lucignolo che ancora fumiga” (12) e sul quale si abbattono con sempre rinnovata lena i venti della “procella tenebrarum” che da secoli, ormai, spazza il mondo intero? E qualora anche avesse a darsi generosa reazione, vi sarà chi sappia renderla consapevole, trasformarla in Contro-Rivoluzione, e non solo rivelarla da uomo di partito attraverso il censimento costituito dal suffragio elettorale?
* * *
Questi i termini – o, certamente, alcuni termini – della “questione italiana” e del problema dell’ora presente, sempre più chiari e più evidenti, sempre più bisognosi di preghiera, di azione e di sacrificio, affinché la vittoria del passato d’Italia, della tradizione cattolica italiana, divenga e si continui al più presto in vittoria del presente d’Italia, che di tale tradizione sia conferma e vivente riproposizione.
Giovanni Cantoni
NOTE
(1) Cfr. il mio Il rilancio obbligato del “compromesso storico”, in Cristianità, anno VII, n. 52-53, agosto-settembre 1979.
(2) “La Rivoluzione è incominciata con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, e non finirà che con la Dichiarazione dei diritti di Dio” (LOUIS-GABRIEL-AMBROISE DE BONALD, cit. in CHARLES-AUGUSTIN DE SAINTE BEUVE, Uomini della Restaurazione. Chateaubriand, de Maistre, Bonald, trad. it., Sansoni, Firenze 1954, p. 144).
(3) PIO XII, Radiomessaggio agli uomini di Azione Cattolica del Portogallo, del 10-12-1950, in Discorsi e radiomessaggi, vol. XII, p. 363.
(4) Cfr. ANTONIO GRAMSCI, Note sul Machiavelli, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 163: e, a commento, cfr. LUCIANO GRUPPI, Il concetto di egemonia in Gramsci, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 169-175.
(5) PALMIRO TOGLIATTI, Discorso alla Conferenza nazionale di organizzazione del Partito comunista italiano, pronunciato a Firenze il 10-1-1947, in Il partito, a cura di Romano Ledda, 2ª ed., Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 115-116.
(6) LUCIANO GRUPPI, Togliatti e la via italiana al socialismo, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 110-111.
(7) Cfr. Bettino Craxi, Ottava legislatura, in Avanti!, 28-9-1979.
(8) Cfr. la relazione dell’on. Almirante in Secolo d’Italia, 6- 10-1979.
(9) l’Unità, 6-10-1979.
(10) Cfr. LUCIANO PELLICANI, Il centauro comunista. Il Pci e la società italiana. Vallecchi, Firenze 1979, p. 127.
(11) il Giornale nuovo, 7-10-1979.
(12) Mt. 12, 20.